Benozzo Gozzoli, Le triomphe de saint Thomas d'Aquin, 1471

dimanche 31 octobre 2010

Tavola sistematica delle tre figure della differenza ontologica

            Torniamo sui problemata che la metafisica deve risolvere per diventare, nel senso preciso del termine, la πιστήμη dell’ente in quanto ente. Abbiamo visto, l’11 ottobre scorso, che il destino di questa scienza che è pure sapienza dipende dall’intelligenza della coppia di esse – essentia, e che tale plesso metafisico fondamentale può ricevere tre configurazioni opposte fra di loro. Elenchiamo oggi i successivi «problemi» o aporie che sono organicamente legati al primo, e proponiamo una prima tavola sinottica delle tre grandi soluzioni che furono proposte nel corso del Novecento.

  1. Il primo problema, in ordine di dignità ed anche, in qualche maniera, di costruzione, è quindi quello del significato reciproco che assumono, nell’ente per partecipazione, l’atto di essere e l’essenza. La prima figura, cioè il tomismo formalista, concepisce lo esse come un atto meramente esistenziale  - pur concedendo che senza l’esistenza l’ente non è, e vede nell’essenza un atto correlato, di indole formale. Per la seconda figura, quella trascendentale, l’essere rimanda ad una pienezza di perfezione illimitata, che l’essenza, in maniera non esclusivamente, ma originariamente negativa, costringe entro un determinato limite. E per la terza figura, l’essere è un atto intensivo, ma non illimitato, dal quale l’ente attinge tutta la sua perfezione ontologica, attraverso la mediazione dell’essenza quale capacità o potenza correlativa, che misura appunto l’intensità dello esse.
  2. Ne risulta che il tomismo formale concede alla forma un ruolo attualmente specificante sullo stesso esse, sebbene in maniera subordinata alla sua stessa posizione nell’esistenza, mentre il tomismo trascendentale e quello intensivo capiscono la specificazione esercitata dalla forma in maniera non attuale, ma restrittiva. Il terzo riconosce poi alla forma un ruolo positivo di specificazione potenziale, mentre il secondo insiste di più sulla sua caratteristica limitante.
  3. Coerentemente, la prima figura postula un modo intermediario fra l’essenza e l’esistenza, di tal guisa che la prima, che è di per sé atto, diventi potenza prossima del secondo e lo faccia suo: così i due ordini si incontrano nel concreto del supposto. A rovescio, le due altre figure vedono nella sussistenza il risultato dell’attuazione dell’essenza da parte dello esse, e considera che non ci sono due «ordini» nell’ente, ma uno solo. Il tomismo intensivo enfatizza di più la consistenza del sussistente, mentre il tomismo trascendentale lo capisce piuttosto come fonte autonoma di energia ontologica.
  4. Per il tomismo formalista, ogni accidente ha un proprio esse, perché l’attualità di esistenza della forma accidentale non è quella della sostanza. Questa tesi viene rifiutata dai due altri tomismi. Il tomismo trascendentale vede nell’accidente un’espansione dello esse al di là della sostanza, anche se condizionata da quest’ultima. Invece, per il tomismo intensivo tale espansione c’è  - contro il tomismo formalista -, ma è mediata dalla sostanza, e si risolve il problema del plus ontologico, che non si può negare all’accidente, tramite la distinzione fra lo esse ut actus, che è unico, e lo esse in actu, che, dopo quello sostanziale, è molteplice nonché, nell’ente materiale, assoggettato al movimento.
  5. Le soluzioni date al problema dello statuto ontologico dell’operare sono analogicamente simili. La prima configurazione tende a capire l’essere dell’operazione in maniera assai estrinseca, poiché l’esistenza della sostanza e quella degli accidenti si limita, ogni volta, a fare esistere una determinata forma; perciò l’operazione è un’attualità ulteriore, che si aggiunge a tutte le precedenti. Nella seconda configurazione, la situazione è rovesciata, perché si coglie l’essere come energia ontologica (Sein ist Wirken, dirà Johannes Baptist Lotz, come vedremo); di conseguenza, l’operazione è come l’espansione massima dell’energia ontologica originaria, grazie alla quale il limite imposto dall’essenza sostanziale viene, per quanto sia possibile, superato. Per il tomismo di terza configurazione, la nozione chiave è, anche in questo caso, la partecipazione: partecipato in modo costituente dall’essenza sostanziale, lo esse, grazie alla mediazione della sostanza, positivamente e non dialetticamente valutata, viene partecipato ulteriormente dagli accidenti e soprattutto dalle operazioni.
  6. Dopo aver praticato una resolutio secundum rationem interna al supposto operante, la metafisica deve procedere ad una resolutio secundum rem, che risale dall’ente per partecipazione all’Essere per sé che è Dio, l’itinerario privilegiato di questo procedimento essendo la Quarta via di san Tommaso. Ma come interpretare la maggiore di questa via, secondo la quale «magis et minus dicuntur de diversis secundum quod appropinquant diversimode ad aliquid quod maxime est»[1]? Per la prima figura, il problema va spostato nella causalità, considerando che una perfezione graduabile e graduata non realizza pienamente la sua natura, per cui ha bisogno di una causa del proprio essere. Nella seconda figura, si considera che l’orizzonte dell’operare umano deve essere reale, perché deve fondare la realtà del nostro proprio cogito o facio, e non solo misurarlo in maniera intenzionale. E nel quadro della terza figura, si ripropone la partecipazione come chiave di lettura.
  7. Coerentemente, un’altra volta, con il modo di concepire l’atto di essere e l’essenza, la prima figura pone due linee di partecipazione fra l’ente creato e Dio creatore: una secondo la somiglianza, che ricollega l’essenza finita all’Idea divina; ed un’altra secondo la composizione, che ricollega l’esistenza specificata dall’essenza, e quindi composta con essa, allo Esse divino. Questo modo di pensare la partecipazione fu vigorosamente contestato dal maggiore teoretico della nostra terza figura, Cornelio Fabro, per il quale ogni partecipazione presuppone necessariamente una composizione di partecipante (l’essenza o il soggetto) e di partecipato immanente (l’atto di essere), ovviamente secondo la misura di partecipazione indicata dal partecipante, ma in maniera puramente potenziale. Su questo problema, il tomismo di seconda figura è più discreto, e tende a concepire la partecipazione secondo un modello dialettico, come posizione dell’atto di essere (con una certa enfasi sullo esse commune), negazione della sua pienezza da parte dell’essenza, e superamento della negazione grazie all’azione.
  8. Queste tre figure sono riconducibili a tre maniere di oggettivare lo ens primum cognitum. Nella prima figura, la dualità di ente e di essere si manifesta come quella di uno hoc concreto con la sua esistenza, che viene formalizzata perché concepita come reale o possibile, per cui abbiamo un «concreto formale». Per la seconda figura, lo ens si presenta originariamente al pensiero come la dualità di una formalità (uno εδος) e di un orizzonte (il Sein ossia lo ipsum esse), di modo che possiamo parlare di un «astratto trascendentale», dove il secondo qualificativo è preso nel senso moderno di condizione di possibilità. Secondo la terza figura, in opposizione alle due altre, lo ens è sì uno hoc concreto, ma considerato come fondato dal suo proprio esse, che non è un orizzonte anteriore, bensì l’atto di quell’ente[2]



I
II
III
1
esse /
essentia
atto esistenziale
attuante
un atto formale
essere per sé illimitato
limitato
da una potenza limitante
atto di essere intensivo
attuante
una potenza recettiva
2
forma /
esse
causalità specificante
attuante
della forma sullo esse
specificazione
limitante
della forma sullo esse
specificazione
«potenzializzante»
della forma sullo esse
3
principio
di sussistenza
terza entità
che chiude l’essenza
e la rende atta allo esse
possesso
dello esse come energia
da parte dell’ente
risultato
della recezione dello esse
da parte dell’essenza
4
esse
dell’accidente
esse dell’accidente
diverso
dallo esse sostanziale
lo esse come energia
si espande in accidenti
oltre il limite essenziale
«esse in actu»
dell’accidente partecipato
dall’unico «esse ut actus»
5
esse
dell’operare
atto operativo
estraneo
allo esse sostanziale
lo esse come energia
si espande in operare
oltre il limite essenziale
«esse in actu»
dell’operare partecipato
dall’unico «esse ut actus»
6
perno
della IVa via
ciò che è graduato
non esiste per sé,
ma per un altro
l’ente intenzionale reale
richiede la realtà
dell’essere orizzonte
ciò che è per partecipazione
è causato
da ciò che è per essenza
7
rapporto
partecipativo
due partecipazioni:
 formale per somiglianza,
reale per composizione
una partecipazione:
posizione, limitazione,
superamento
una sola partecipazione
per composizione
dello esse con una misura
8
primum
cognitum
concreto / formale:
il questo /
l’esistenza come forma
astratto / formale:
l’eidos /
lo esse come orizzonte
concreto / trascendentale:
il questo /
lo esse come atto


Se la Providenza ce lo consente, cercheremo di esplicitare passo dopo passo i singoli momenti di questa tavola.


[1] ST I, q. 2 a. 3c.
[2] Sui tre modi di teorizzare l’ente, cf. C. FABRO, La prima riforma della dialettica hegeliana, § 92, EDIVI, Segni 2004, 235-236.

mercredi 20 octobre 2010

Le due prime aporie attorno all'ente

            Lo esse e l’essenza essendo i co-principi fondamentali dell’ente, è palese che le tre configurazioni del loro rapporto incidono sulla comprensione di tutte le istanze ulteriormente presenti nell’ente come, ad esempio, le forme accidentali o le operazioni connaturali. Tentiamo ora una prima esplorazione sistematica dei problemata o delle aporie che si possono formulare al riguardo, seguendo un metodo analogo a quello del libro B delle Metafisiche. Oggi cominciamo con i problemi legati alla sostanza finita in atto, considerando in primo luogo la forma che le assegna tale determinato modo di essere, poi in secondo luogo la sussistenza che le consente di avere l’essere in sé e non in un altro.

[1] «Forma dat esse». Il rapporto fra lo esse e la forma veniva espresso, nella Scuola, con questo assioma, di chiara matrice aristotelica. In effetti, nella filosofia della natura dello Stagirita, la forma media l’essere al sinolo, e questa mediazione è senz’altro una donazione. L’Aquinate assume questa dottrina nel suo opuscolo di gioventù De principiis naturae: «forma dat esse materiae, sed subiectum accidenti»[1]. In questo contesto, la forma ha dunque il valore di un principio attuante, grazie al quale la materia viene determinata ad essere il soggetto di tale o tale composto. Perciò «forma, inquantum forma, est actus»[2]. L’aporia nasce da questo enunciato: se la forma in quanto forma è atto, da dove le viene la sua attualità? In un primo momento, i testi di san Tommaso possono destare perplessità al riguardo. Da un lato, leggiamo infatti che:

Primus autem effectus formae est esse, nam omnis res habet esse secundum suam formam. Secundus autem effectus est operatio, nam omne agens agit per suam formam[3].

Se la forma è di per sé atto, e se lo esse è il suo effetto primario, sembra allora che dobbiamo attribuire alla forma una causalità di tipo attuante rispetto allo stesso esse. L’assioma forma dat esse esprimerebbe quindi questo potere attuante della forma rispetto allo stesso essere nell’ordine che le è proprio, quello della determinazione formale[4].
            Al contempo, però, abbiamo già visto che il Dottore Comune presenta l’esse come atto di tutti gli atti, per cui allora la forma non avrebbe alcuna attualità che non fosse partecipata da quella dello esse. Questa posizione sembra suggerita da un brano molto denso del trattato tardivo De substantiis separatis:

Ipsa igitur forma sic per se subsistens, esse participat in se ipsa, sicut forma materialis in subiecto. Si igitur per hoc quod dico: non ens, removeatur solum esse in actu, ipsa forma secundum se considerata, est non ens, sed esse participans[5].

Quindi la forma deve il suo essere in atto all’esse al quale essa partecipa, mentre essa non ha alcun essere attuale nell’ordine reale. In questa prospettiva, si dovrebbe escludere qualsiasi valore attuante della forma rispetto allo stesso esse.
            Pertanto, il principio forma dat esse dà luogo a due esegesi antitetiche fra di loro: o la forma dà l’essere nel senso che esercita una qualche attuazione formale sullo stesso atto di essere; oppure essa dà l’essere in quanto lo trasmette all’ente, secondo il grado di partecipazione che le è proprio. Nel primo caso, la forma è, rispetto allo stesso esse, un principio attuato, in quanto gli deve la sua realtà, ed attuante, il quanto gli dà la sua determinazione; nel secondo caso, invece, essa è solo un principio attuato, giacché il suo valore attuante si riduce alla sua mediazione.

[2] Attuata dal proprio esse tramite la forma, l’essenza concreta è sostanza reale in atto, alla quale spetta, secondo san Tommaso, avere l’essere in sé non in altro: «substantia est res cuius naturae debetur esse non in alio»[6]. Quindi la sostanza si definisce, rispetto allo esse, come una cosa alla natura, o quiddità della quale è dovuto avere l’essere in sé. Ora una natura che ha l’essere in sé è una natura che sussiste: «illa enim subsistere dicimus, quae non in alio, sed in se existunt»[7]. Perciò, una descrizione analitica della sostanza reale deve ricorrere a tre rationes, la ratio ipsius esse, la ratio essentiae, la ratio subsistentis[8], poiché un conto è l’essere, un altro la sua determinazione, ed un altro ancora il possesso dello stesso essere da parte di tale o tale essenza. Tuttavia, è chiaro che il sussistere della sostanza coinvolge il suo essere e la sua essenza, giacché si riferisce ad entrambi. A questo riguardo si pone uno specifico problema: in virtù di che cosa sussiste il sussistente? Il quesito è conosciuto nella storia del tomismo, e più ampiamente in quella della scolastica dal Rinascimento in poi, come quello del costitutivo formale della sussistenza, o della persona quando si tratta della natura intellettiva.
Due tendenze si affrontano al riguardo sin dal Cinquecento, basandosi su testi contrastanti:

esse pertinet ad ipsam constitutionem personae[9].
licet ipsum esse non sit de ratione suppositi[10].

Fondandosi sul primo brano, una prima linea interpretativa, che può in qualche modo rivendicare Jean Cabrol (Capreolo) fra i suoi antenati, vede nella sussistenza il risultato dell’attuazione dell’essenza sostanziale da parte dell’atto di essere. Si concilia allora le due proposizioni di san Tommaso grazie alla distinzione fra il suppositum formaliter sumptum, e lo stesso denominative sumptum. Sotto il primo aspetto, esso include l’atto di essere, giacché il supposto è «formalmente» ciò che sussiste, quindi ha l’essere in sé; mentre, sotto il secondo aspetto, esso ha l’atto di essere, ma non lo è: si tratta, allora, del soggetto che sussiste[11]. L’altra interpretazione è quella invece di Tommaso de Vio, cardinale Gaetano, che postula una terza istanza fra l’essenza e lo esse: la subsistentia, intesa come modo finito di essere[12]. Questa entità è destinata a chiudere l’essenza su sé stessa, rendendola incomunicabile, ed a renderla così atta a ricevere l’atto di essere. La seconda proposizione significherebbe che la ratio suppositi, capita come ciò per cui il supposto è supposto, non include lo esse, e lo precede. Però, l’essenza, di per sé, comprende soltanto le sue note definitorie, ma non esige che lo esse che la realizzerà sia suo, e non di un altro; perciò, ci vuole una terza istanza che faccia da ponte fra l’essenza concreta e l’esse che il supposto possederà come suo, e questo sarebbe precisamente il compito della sussistenza.

            È facile intuire che la soluzione di questi due problemata dipende dallo statuto dell’essenza, e quindi dal rapporto ch’essa trattiene con il proprio esse. Se l’essenza è un atto formale, quindi un esse essentiae autonomo, per usare il lessico del medioevo tardivo, allora essa appartiene ad un ordine diverso da quello dello  esse, per cui vi è bisogno di un modo che unisca i due coprincipi dell’ente sostanziale, di tal guisa che la sussistenza diventa, in questa chiave, una terza istanza. Dentro l’ente sussistente, poi, l’essenza eserciterà una certo ruolo attuante sullo stesso esse, ovviamente solo nel proprio ambito, che è quello formale.
            A rovescio, se si concepisce lo esse come un atto intensivo dal quale l’ente attinge tutta quanta la sua perfezione, mentre l’essenza è la potenza che lo riceve, allora è anche chiaro che il principio di sussistenza non è altro che l’essenza sostanziale in quanto sta sotto il proprio atto di essere finito, perché lo ha in sé e non in un altro. Nella stessa prospettiva, è pure chiaro il principio forma dat esse significa semplicemente che la forma dà ciò che ha ricevuto, attuando quindi lo ens, ma certamente non lo esse.


[1] De principiis naturae, c. 1.
[2] ST I, q. 75 a. 5c.
[3] ST I, q. 42 a. 1 ad 1.
[4] Si potrebbe leggere nella stessa linea ST I, q. 50 a. 5c: «Esse autem secundum se competit formae, unumquodque enim est ens actu secundum quod habet formam.».
[5] De substantiis separatis, c. 8. Il P. J.-P. TORRELL, in Initiation à saint Thomas d’Aquin, Sa personne et son œuvre, Cerf – Éditions Universitaires, Paris – Fribourg 1993, 510, pensa che questo trattato è posteriore al 1271.
[6] Quaestiones de quolibet IX, q. 3 a. un. c.
[7] ST I, q. 29 a. 2c.
[8] Cf. SCG IV, c. 11 n. 13: «tamen in Deo est quidquid pertinet ad rationem vel subsistentis, vel essentiae, vel ipsius esse: convenit enim ei non esse in aliquo, inquantum est subsistens; esse quid, inquantum est essentia; et esse in actu, ratione ipsius esse».
[9] ST III, q. 19 a. 1 ad 4.
[10] Quaestiones de quolibet II, q. 2 a. 2 ad 2.
[11] Sulla posizione del Capreolo, cf. E. FORMENT-GIRALT, Ser y persona, Publicacions i Edicions de la Universitat de Barcelona, Barcelona 1983; U. DEGL’INNOCENTI, Il problema della persona nel pensiero di S. Tommaso [Cathedra sancti Thomae, 2], Pontificia Università Lateranense, Roma 1967.
[12] La posizione del Gaetano è ben sintetizzata da J. HEGYI, in Die Bedeutung des Seins bei den klassischen Kommentatoren des heiligen Thomas von Aquin, Capreolus – Silvestre von Ferrara – Cajetan, [Pullacher Philosophische Forschungen, 4], Verlag Berchmanskolleg, Pullach bei München 1959, 141-148. Viene riproposta in una curiosa forma postmoderna in G. de TANOÜARN, Cajétan, Le personnalisme intégral, Cerf, Paris 2009, 566-579.

lundi 11 octobre 2010

Le tre configurazioni del plesso esse - essenza

            In alcuni studi[1], abbiamo cercato di individuare ciò che possiamo chiamare le tre figure, o configurazioni, dell’ente tomistico. Nel presente messaggio, vogliamo offrire ai nostri lettori una presentazione elementare di questo argomento.
            Com’è risaputo, il teorema fondamentale del tomismo consiste nella composizione reale dell’atto di essere con l’essenza nell’ente finito, e nella loro identità in Dio, Ipsum esse subsistens. L’Aquinate era consapevole di sostenere una posizione originale al riguardo, usando l’espressione, assai rara sotto la sua penna, «hoc quod dico esse…». Ma cos’è questo esse, dal quale dipende tutta la sua metafisica? Ecco un primo fra i più celebri luoghi dove descrive ciò che intende con lo esse:

ipsum esse est perfectissimum omnium, comparatur enim ad omnia ut actus. Nihil enim habet actualitatem, nisi inquantum est, unde ipsum esse est actualitas omnium rerum, et etiam ipsarum formarum. Unde non comparatur ad alia sicut recipiens ad receptum, sed magis sicut receptum ad recipiens. Cum enim dico esse hominis, vel equi, vel cuiuscumque alterius, ipsum esse consideratur ut formale et receptum, non autem ut illud cui competit esse[2].

Lo esse è quindi un atto, al quale tutto ciò che è nell’ente deve la sua attualità, vale a dire l’essenza sostanziale, poi le forme accidentali, e finalmente le operazioni che scaturiscono dalla sostanza costituita in atto primo. L’atto essendo anteriore alla potenza, e l’atto di essere essendo il primo di tutti gli atti, tutte le altre formalità riscontrabili nell’ente si trovano, nei confronti dello esse, in posizione di recipiens, mai di receptum. Un altro brano ugualmente famoso ci offre un complemento, che ci conviene leggere per intero:

hoc quod dico esse est inter omnia perfectissimum: quod ex hoc patet quia actus est semper perfectio potentia. Quaelibet autem forma signata non intelligitur in actu nisi per hoc quod esse ponitur. Nam humanitas vel igneitas potest considerari ut in potentia materiae existens, vel ut in virtute agentis, aut etiam ut in intellectu: sed hoc quod habet esse, efficitur actu existens. Unde patet quod hoc quod dico esse est actualitas omnium actuum, et propter hoc est perfectio omnium perfectionum. Nec intelligendum est, quod ei quod dico esse, aliquid addatur quod sit eo formalius, ipsum determinans, sicut actus potentiam: esse enim quod huiusmodi est, est aliud secundum essentiam ab eo cui additur determinandum. Nihil autem potest addi ad esse quod sit extraneum ab ipso, cum ab eo nihil sit extraneum nisi non-ens, quod non potest esse nec forma nec materia. Unde non sic determinatur esse per aliud sicut potentia per actum, sed magis sicut actus per potentiam. Nam et in definitione formarum ponuntur propriae materiae loco differentiae, sicut cum dicitur quod anima est actus corporis physici organici. Et per hunc modum, hoc esse ab illo esse distinguitur, in quantum est talis vel talis naturae. Et per hoc dicit Dionysius, quod licet viventia sint nobiliora quam existentia, tamen esse est nobilius quam vivere: viventia enim non tantum habent vitam, sed cum vita simul habent et esse[3].

Ritroviamo la stessa tesi di fondo: lo esse è l’atto di tutti gli atti, perciò esso non si trova mai nella posizione di una potenza rispetto ad un atto ulteriore; poi, a causa dell’analogia di proporzionalità fra la coppia di atto / potenza e quella di receptum / recipiens, esso è sempre ricevuto da ciò ch’esso attua, e non può ricevere nulla. Rispetto al testo precedente, l’Aquinate dà due precisioni assai notevoli. La prima, che è soltanto una implicazione dell’attualità che spetta allo esse, puntualizza che le sue determinazioni si fanno «sicut actus per potentiam», vale a dire che sono, per così dire, delle delimitazioni della sua ricchezza originaria. Questo solleva un problema importante, che si presenterà a noi sotto molti aspetti: lo esse che viene così «ristretto» dalle sue determinazioni è lo esse già finito dalla forma o essenza sostanziale, oppure è lo esse commune, che non è ancora né concreto né reale? L’altra precisione del testo sta nel sintagma «perfectio omnium perfectionum», giacché la parola «perfectio» si colloca più sul piano della forma che quelle di «actualitas» e di «actus»: in quale modo, allora, lo esse sarà il fondamento di perfezione delle forme che si riscontrano nell’ente ?
            Per rispondere a questi quesiti, è necessario determinare prima cosa sia lo esse; e giacché esso è, nell’ente, correlativo all’essenza, cos’è quest’ultima. Pensiamo che questa domanda abbia ricevuto tre risposte specificamente e quindi strutturalmente diverse. Eccole brevemente riassunte:

  1. Si dà una prima posizione che possiamo chiamare «tomismo duale», o «tomismo formalista», perché esplicita lo ens sostanziale reale come un plesso composto da un atto formale, l’essenza, o forma sostanziale, in potenza ad un atto esistenziale, lo esse, interpretato come existentia. Questa soluzione possiede radici remote nella storia della metafisica di matrice aristotelico-platonica, che risalgono almeno fino ad Avicenna[4]. In questa ottica, l’ente implica infatti due tipi di attualità: quella formale, che dà alla cosa la sua specificazione, e con questa il suo grado di perfezione; e quella esistenziale, che fa esistere l’essenza, senza tuttavia che la sua ricchezza ontologica propria sia derivata dall’esistenza. Perciò, lo esse-esistenza si limita a porre l’essenza concreta (cioè individualizzata nel caso delle sostanze composte) nella realtà. In questo senso, si pensa di salvare il primato dello esse, chiaramente affermato nei testi che abbiamo appena citati, sottolineando che, senza di lui, l’essenza neanche sarebbe reale; però, una volta posta nella realtà, l’essenza vi gode di un’attualità che non deriva da quella dello esse, ma è autonoma.
  2. La seconda posizione va descritta come «tomismo trascendentale», intendendo il qualificativo nel senso che ha nella filosofia moderna da Kant in poi. Lo esse appare, in questa rifondazione della metafisica tomista, come l’ultima condizione di possibilità del giudizio, e più ampiamente di ogni operare umano, che si tratti del conoscere, del volere o del fare. Esso è, primariamente, un orizzonte illimitato di possibilità, di cui i singoli oggetti raggiunti dalla nostra attività sono insieme la concretizzazione e la limitazione. In una seconda fase dell’investigazione metafisica, si stabilisce la consistenza propria di tale orizzonte, che coincide allora con lo Ipsum esse subsistens di san Tommaso, ed è quindi il Dio che, da una parte, crea gli essenti e, d’altra parte, illumina gli intelletti. L’ente reale viene allora interpretato come la posizione di un atto d’essere limitato da una essenza, che funge, in questa chiave, da principio di sottrazione ontologica. Dunque l’essenza si riferisce allo esse non più come un atto formale ad un atto esistenziale, ma come una potenza restrittiva ad un’attualità che sarebbe in sé infinita: si enfatizza dunque il momento negativo della potenza, considerata come istanza limitante[5].
  3. La terza posizione venne qualificata dal suo maggiore teoretico, Cornelio Fabro, di «tomismo essenziale», perché mira a cogliere l’essenza del tomismo; ma essa sta, per questa scuola, oltre l’essenza, nell’atto di essere concepito come fonte di tutta la perfezione dell’ente, e non solo della sua esistenza. Abbiamo allora uno esse «intensivo», che è il principio primo di tutta l’attualità dell’ente, sia sul piano esistenziale che su quello perfettivo. Esso si espande nella cosa secondo diversi livelli di partecipazione: prima viene infatti misurato dall’essenza sostanziale, che le assegna il suo grado strutturale; poi attua le proprietà o forme accidentali per se e gli altri accidenti; e finalmente fiorisce nelle operazioni che procedono dall’ente così costituito. Il punto decisivo, qua, è che l’essenza non ha alcuna attualità, di per sé, nell’ordine reale: è potenza di essere; però, in quanto tale, essa riveste un ruolo positivo, non negativo, perché indica la capacità di essere della cosa, e perché rende l’essere reale nell’ente[6].

Ci troviamo dunque di fronte a tre spiegazioni del plesso esse-essenza, che possiamo schematizzare, in estrema sintesi, così:

  1. Per il tomismo formalista, lo esse è l’atto esistenziale che attua l’essenza o forma sostanziale, la quale è già, in sé stessa, l’atto formale che specifica l’ente.
  2. Per il tomismo trascendentale, lo esse è l’atto originario, di per sé illimitato, che viene limitato dall’essenza o forma sostanziale, la quale è, di per sé, la potenza che limita lo esse entro i confini dell’ente.
  3. Per il tomismo intensivo, lo esse è l’atto emergente della sostanza, che viene ricevuto dall’essenza o forma sostanziale, la quale è, di per sé, la capacità che determina positivamente lo esse ad essere la fonte di attualità di una determinata sostanza.

La posizione [1] si distingue chiaramente dalle due altre a causa dell’attualità autonoma che riconosce all’essenza, nonché per la stretta limitazione del ruolo conferito allo esse, che si esaurisce nel fare esistere la sostanza. Invece, le posizioni [2] e [3] possono sembrare, di primo acchito, molto vicine, giacché ambedue vedono nell’atto di essere lo atto fontale dell’ente, e nell’essenza la potenza che lo restringe. In realtà esse sono molto diverse, sia sul lato dello esse che su quello dell’essenza. Per il tomismo trascendentale, in effetti, lo esse viene capito anzitutto come esse commune: più che l’atto di essere di questa determinata sostanza (hoc esse), esso è «lo esse» (ipsum esse), diverso da Dio, in quanto non sussistente, ma al di sopra dello stesso ente che tuttavia fa essere; per il tomismo intensivo, all’opposto, lo esse è sì un atto emergente, e non completamente immerso nell’ente che fa essere, ma lo è però in esso, e non fuori di esso, e va quindi chiaramente distinto dallo esse commune. Questa diversità ne fonda un’altra, che riguarda l’essenza: per la scuola trascendentale, la potenza viene afferrata soprattutto come l’istanza che nega la pienezza che, di per sé, spetterebbe allo esse; mentre per la terza interpretazione, invece, l’essenza funge da co-principio dell’ente sostanziale, potenziale, ma positivo.
            Benché queste tre posizioni accettino tutte la composizione reale di essenza e di essere nell’ente finito, esse la interpretano in modo decisamente diverso, ed addirittura contraddittorio per quanto riguarda i precisi problemi che abbiamo evidenziati.


[1] Ci siamo espressi al riguardo nei tre seguenti studi: A. CONTAT, «La quarta via di san Tommaso d’Aquino e le prove di Dio di sant’Anselmo di Aosta secondo le tre configurazioni dell’ente tomistico», in AA.VV., Sant’Anselmo nel nono centenario della sua morte, a cura di J. Villagrasa, ART, Roma 2010, di prossima pubblicazione; ID., «Il confronto con Heidegger nel tomismo contemporaneo», in AA. VV., A dieci anni dalla Fides et ratio, ART, Roma 2010, di prossima pubblicazione ; ID., «Le figure della differenza ontologica nel tomismo del Novecento», in Alpha Omega 11 (2008), 77-129 e 213-250, riscontrabile anche in AA.VV., Creazione e actus essendi, Originalità e interpretazioni della metafisica di Tommaso d’Aquino, [Atti di congresso, 11], ART, Roma 2008, 249-255.
[2] ST I, q. 4 a. 1 ad 3.
[3] QD De potentia, q. 7 a. 2 ad 9m.
[4] Cf. AVICENNA, Metafisica I, sez. 5, n. 31, trad. it. di O. Lizzini – P. Porro, Bompiani, Milano 2002, 73: «è evidente che per ogni cosa vi è una realtà propria che è la sua quiddità e la realtà propria di ogni cosa – è noto – è diversa dall’esistenza, che è sinonimo del fatto che ne sia stabilita [l’esistenza]».
[5] Questa teoresi viene sviluppata in J.B. LOTZ, «Il problema del fondamento in Heidegger e nella scolastica», in Sapienza 26 (1973), 280-331, in particolare 307 : «L’essente è sempre un essente, uno fra altri, poiché esso è essente solo sotto questo o quel riguardo ; occupa infatti solo una determinata parte dell’essere o ha parte all’essere ; il modo, come l’essente abbia parte all’essere, circoscrive la sua essenza come il suo modo proprio di essere. Esprimendo ciò in altre parole, diamo che ogni essente è limitata dalla misura data con la sua essenza, per cui ammette accanto a sé anche altri essenti limitati. Al contrario, lo essere è essenzialmente uno o l’unico, poiché esso significa essere sotto ogni possibile riguardo o racchiude in sé tutti i possibili modi di essere : se gli mancasse uno di quei modi, esso non sarebbe lo essere, ma un essente partecipato. Dicendo ciò altrimenti affermiamo che l’essere è illimitato come la pienezza assoluta e perciò comprende tutto ciò che gli dipende». Vedasi pure Esperienza trascendentale, trad. it. di M. Marassi, Vita e Pensiero, Milano 1993, ad es. 135-152.
[6] Cf. C. FABRO, Partecipazione e causalità, [Opere complete, 19], EDIVI, Segni 2010, 316-317 : «L’esse non è puramente l’atto mentale (esse logico) o l’essere in atto reale (l’esse delle categorie), ma è l’atto di ogni atto ovvero la perfezione suprema rispetto alla quale tutte le altre formalità e perfezioni vanno considerate ome partecipanti e ciò in due sensi : anzitutto in quanto l’esse è l’atto di ogni formalità e perfezione che al suo riguardo decade a potenza, e poi in quanto l’esse ch’è realizzato o pensato nella sua espansione formale è la totalità comprensiva di tutte le perfezioni che risultano così sue partecipazioni».