mercredi 20 octobre 2010

Le due prime aporie attorno all'ente

            Lo esse e l’essenza essendo i co-principi fondamentali dell’ente, è palese che le tre configurazioni del loro rapporto incidono sulla comprensione di tutte le istanze ulteriormente presenti nell’ente come, ad esempio, le forme accidentali o le operazioni connaturali. Tentiamo ora una prima esplorazione sistematica dei problemata o delle aporie che si possono formulare al riguardo, seguendo un metodo analogo a quello del libro B delle Metafisiche. Oggi cominciamo con i problemi legati alla sostanza finita in atto, considerando in primo luogo la forma che le assegna tale determinato modo di essere, poi in secondo luogo la sussistenza che le consente di avere l’essere in sé e non in un altro.

[1] «Forma dat esse». Il rapporto fra lo esse e la forma veniva espresso, nella Scuola, con questo assioma, di chiara matrice aristotelica. In effetti, nella filosofia della natura dello Stagirita, la forma media l’essere al sinolo, e questa mediazione è senz’altro una donazione. L’Aquinate assume questa dottrina nel suo opuscolo di gioventù De principiis naturae: «forma dat esse materiae, sed subiectum accidenti»[1]. In questo contesto, la forma ha dunque il valore di un principio attuante, grazie al quale la materia viene determinata ad essere il soggetto di tale o tale composto. Perciò «forma, inquantum forma, est actus»[2]. L’aporia nasce da questo enunciato: se la forma in quanto forma è atto, da dove le viene la sua attualità? In un primo momento, i testi di san Tommaso possono destare perplessità al riguardo. Da un lato, leggiamo infatti che:

Primus autem effectus formae est esse, nam omnis res habet esse secundum suam formam. Secundus autem effectus est operatio, nam omne agens agit per suam formam[3].

Se la forma è di per sé atto, e se lo esse è il suo effetto primario, sembra allora che dobbiamo attribuire alla forma una causalità di tipo attuante rispetto allo stesso esse. L’assioma forma dat esse esprimerebbe quindi questo potere attuante della forma rispetto allo stesso essere nell’ordine che le è proprio, quello della determinazione formale[4].
            Al contempo, però, abbiamo già visto che il Dottore Comune presenta l’esse come atto di tutti gli atti, per cui allora la forma non avrebbe alcuna attualità che non fosse partecipata da quella dello esse. Questa posizione sembra suggerita da un brano molto denso del trattato tardivo De substantiis separatis:

Ipsa igitur forma sic per se subsistens, esse participat in se ipsa, sicut forma materialis in subiecto. Si igitur per hoc quod dico: non ens, removeatur solum esse in actu, ipsa forma secundum se considerata, est non ens, sed esse participans[5].

Quindi la forma deve il suo essere in atto all’esse al quale essa partecipa, mentre essa non ha alcun essere attuale nell’ordine reale. In questa prospettiva, si dovrebbe escludere qualsiasi valore attuante della forma rispetto allo stesso esse.
            Pertanto, il principio forma dat esse dà luogo a due esegesi antitetiche fra di loro: o la forma dà l’essere nel senso che esercita una qualche attuazione formale sullo stesso atto di essere; oppure essa dà l’essere in quanto lo trasmette all’ente, secondo il grado di partecipazione che le è proprio. Nel primo caso, la forma è, rispetto allo stesso esse, un principio attuato, in quanto gli deve la sua realtà, ed attuante, il quanto gli dà la sua determinazione; nel secondo caso, invece, essa è solo un principio attuato, giacché il suo valore attuante si riduce alla sua mediazione.

[2] Attuata dal proprio esse tramite la forma, l’essenza concreta è sostanza reale in atto, alla quale spetta, secondo san Tommaso, avere l’essere in sé non in altro: «substantia est res cuius naturae debetur esse non in alio»[6]. Quindi la sostanza si definisce, rispetto allo esse, come una cosa alla natura, o quiddità della quale è dovuto avere l’essere in sé. Ora una natura che ha l’essere in sé è una natura che sussiste: «illa enim subsistere dicimus, quae non in alio, sed in se existunt»[7]. Perciò, una descrizione analitica della sostanza reale deve ricorrere a tre rationes, la ratio ipsius esse, la ratio essentiae, la ratio subsistentis[8], poiché un conto è l’essere, un altro la sua determinazione, ed un altro ancora il possesso dello stesso essere da parte di tale o tale essenza. Tuttavia, è chiaro che il sussistere della sostanza coinvolge il suo essere e la sua essenza, giacché si riferisce ad entrambi. A questo riguardo si pone uno specifico problema: in virtù di che cosa sussiste il sussistente? Il quesito è conosciuto nella storia del tomismo, e più ampiamente in quella della scolastica dal Rinascimento in poi, come quello del costitutivo formale della sussistenza, o della persona quando si tratta della natura intellettiva.
Due tendenze si affrontano al riguardo sin dal Cinquecento, basandosi su testi contrastanti:

esse pertinet ad ipsam constitutionem personae[9].
licet ipsum esse non sit de ratione suppositi[10].

Fondandosi sul primo brano, una prima linea interpretativa, che può in qualche modo rivendicare Jean Cabrol (Capreolo) fra i suoi antenati, vede nella sussistenza il risultato dell’attuazione dell’essenza sostanziale da parte dell’atto di essere. Si concilia allora le due proposizioni di san Tommaso grazie alla distinzione fra il suppositum formaliter sumptum, e lo stesso denominative sumptum. Sotto il primo aspetto, esso include l’atto di essere, giacché il supposto è «formalmente» ciò che sussiste, quindi ha l’essere in sé; mentre, sotto il secondo aspetto, esso ha l’atto di essere, ma non lo è: si tratta, allora, del soggetto che sussiste[11]. L’altra interpretazione è quella invece di Tommaso de Vio, cardinale Gaetano, che postula una terza istanza fra l’essenza e lo esse: la subsistentia, intesa come modo finito di essere[12]. Questa entità è destinata a chiudere l’essenza su sé stessa, rendendola incomunicabile, ed a renderla così atta a ricevere l’atto di essere. La seconda proposizione significherebbe che la ratio suppositi, capita come ciò per cui il supposto è supposto, non include lo esse, e lo precede. Però, l’essenza, di per sé, comprende soltanto le sue note definitorie, ma non esige che lo esse che la realizzerà sia suo, e non di un altro; perciò, ci vuole una terza istanza che faccia da ponte fra l’essenza concreta e l’esse che il supposto possederà come suo, e questo sarebbe precisamente il compito della sussistenza.

            È facile intuire che la soluzione di questi due problemata dipende dallo statuto dell’essenza, e quindi dal rapporto ch’essa trattiene con il proprio esse. Se l’essenza è un atto formale, quindi un esse essentiae autonomo, per usare il lessico del medioevo tardivo, allora essa appartiene ad un ordine diverso da quello dello  esse, per cui vi è bisogno di un modo che unisca i due coprincipi dell’ente sostanziale, di tal guisa che la sussistenza diventa, in questa chiave, una terza istanza. Dentro l’ente sussistente, poi, l’essenza eserciterà una certo ruolo attuante sullo stesso esse, ovviamente solo nel proprio ambito, che è quello formale.
            A rovescio, se si concepisce lo esse come un atto intensivo dal quale l’ente attinge tutta quanta la sua perfezione, mentre l’essenza è la potenza che lo riceve, allora è anche chiaro che il principio di sussistenza non è altro che l’essenza sostanziale in quanto sta sotto il proprio atto di essere finito, perché lo ha in sé e non in un altro. Nella stessa prospettiva, è pure chiaro il principio forma dat esse significa semplicemente che la forma dà ciò che ha ricevuto, attuando quindi lo ens, ma certamente non lo esse.


[1] De principiis naturae, c. 1.
[2] ST I, q. 75 a. 5c.
[3] ST I, q. 42 a. 1 ad 1.
[4] Si potrebbe leggere nella stessa linea ST I, q. 50 a. 5c: «Esse autem secundum se competit formae, unumquodque enim est ens actu secundum quod habet formam.».
[5] De substantiis separatis, c. 8. Il P. J.-P. TORRELL, in Initiation à saint Thomas d’Aquin, Sa personne et son œuvre, Cerf – Éditions Universitaires, Paris – Fribourg 1993, 510, pensa che questo trattato è posteriore al 1271.
[6] Quaestiones de quolibet IX, q. 3 a. un. c.
[7] ST I, q. 29 a. 2c.
[8] Cf. SCG IV, c. 11 n. 13: «tamen in Deo est quidquid pertinet ad rationem vel subsistentis, vel essentiae, vel ipsius esse: convenit enim ei non esse in aliquo, inquantum est subsistens; esse quid, inquantum est essentia; et esse in actu, ratione ipsius esse».
[9] ST III, q. 19 a. 1 ad 4.
[10] Quaestiones de quolibet II, q. 2 a. 2 ad 2.
[11] Sulla posizione del Capreolo, cf. E. FORMENT-GIRALT, Ser y persona, Publicacions i Edicions de la Universitat de Barcelona, Barcelona 1983; U. DEGL’INNOCENTI, Il problema della persona nel pensiero di S. Tommaso [Cathedra sancti Thomae, 2], Pontificia Università Lateranense, Roma 1967.
[12] La posizione del Gaetano è ben sintetizzata da J. HEGYI, in Die Bedeutung des Seins bei den klassischen Kommentatoren des heiligen Thomas von Aquin, Capreolus – Silvestre von Ferrara – Cajetan, [Pullacher Philosophische Forschungen, 4], Verlag Berchmanskolleg, Pullach bei München 1959, 141-148. Viene riproposta in una curiosa forma postmoderna in G. de TANOÜARN, Cajétan, Le personnalisme intégral, Cerf, Paris 2009, 566-579.

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