Benozzo Gozzoli, Le triomphe de saint Thomas d'Aquin, 1471

lundi 11 octobre 2010

Le tre configurazioni del plesso esse - essenza

            In alcuni studi[1], abbiamo cercato di individuare ciò che possiamo chiamare le tre figure, o configurazioni, dell’ente tomistico. Nel presente messaggio, vogliamo offrire ai nostri lettori una presentazione elementare di questo argomento.
            Com’è risaputo, il teorema fondamentale del tomismo consiste nella composizione reale dell’atto di essere con l’essenza nell’ente finito, e nella loro identità in Dio, Ipsum esse subsistens. L’Aquinate era consapevole di sostenere una posizione originale al riguardo, usando l’espressione, assai rara sotto la sua penna, «hoc quod dico esse…». Ma cos’è questo esse, dal quale dipende tutta la sua metafisica? Ecco un primo fra i più celebri luoghi dove descrive ciò che intende con lo esse:

ipsum esse est perfectissimum omnium, comparatur enim ad omnia ut actus. Nihil enim habet actualitatem, nisi inquantum est, unde ipsum esse est actualitas omnium rerum, et etiam ipsarum formarum. Unde non comparatur ad alia sicut recipiens ad receptum, sed magis sicut receptum ad recipiens. Cum enim dico esse hominis, vel equi, vel cuiuscumque alterius, ipsum esse consideratur ut formale et receptum, non autem ut illud cui competit esse[2].

Lo esse è quindi un atto, al quale tutto ciò che è nell’ente deve la sua attualità, vale a dire l’essenza sostanziale, poi le forme accidentali, e finalmente le operazioni che scaturiscono dalla sostanza costituita in atto primo. L’atto essendo anteriore alla potenza, e l’atto di essere essendo il primo di tutti gli atti, tutte le altre formalità riscontrabili nell’ente si trovano, nei confronti dello esse, in posizione di recipiens, mai di receptum. Un altro brano ugualmente famoso ci offre un complemento, che ci conviene leggere per intero:

hoc quod dico esse est inter omnia perfectissimum: quod ex hoc patet quia actus est semper perfectio potentia. Quaelibet autem forma signata non intelligitur in actu nisi per hoc quod esse ponitur. Nam humanitas vel igneitas potest considerari ut in potentia materiae existens, vel ut in virtute agentis, aut etiam ut in intellectu: sed hoc quod habet esse, efficitur actu existens. Unde patet quod hoc quod dico esse est actualitas omnium actuum, et propter hoc est perfectio omnium perfectionum. Nec intelligendum est, quod ei quod dico esse, aliquid addatur quod sit eo formalius, ipsum determinans, sicut actus potentiam: esse enim quod huiusmodi est, est aliud secundum essentiam ab eo cui additur determinandum. Nihil autem potest addi ad esse quod sit extraneum ab ipso, cum ab eo nihil sit extraneum nisi non-ens, quod non potest esse nec forma nec materia. Unde non sic determinatur esse per aliud sicut potentia per actum, sed magis sicut actus per potentiam. Nam et in definitione formarum ponuntur propriae materiae loco differentiae, sicut cum dicitur quod anima est actus corporis physici organici. Et per hunc modum, hoc esse ab illo esse distinguitur, in quantum est talis vel talis naturae. Et per hoc dicit Dionysius, quod licet viventia sint nobiliora quam existentia, tamen esse est nobilius quam vivere: viventia enim non tantum habent vitam, sed cum vita simul habent et esse[3].

Ritroviamo la stessa tesi di fondo: lo esse è l’atto di tutti gli atti, perciò esso non si trova mai nella posizione di una potenza rispetto ad un atto ulteriore; poi, a causa dell’analogia di proporzionalità fra la coppia di atto / potenza e quella di receptum / recipiens, esso è sempre ricevuto da ciò ch’esso attua, e non può ricevere nulla. Rispetto al testo precedente, l’Aquinate dà due precisioni assai notevoli. La prima, che è soltanto una implicazione dell’attualità che spetta allo esse, puntualizza che le sue determinazioni si fanno «sicut actus per potentiam», vale a dire che sono, per così dire, delle delimitazioni della sua ricchezza originaria. Questo solleva un problema importante, che si presenterà a noi sotto molti aspetti: lo esse che viene così «ristretto» dalle sue determinazioni è lo esse già finito dalla forma o essenza sostanziale, oppure è lo esse commune, che non è ancora né concreto né reale? L’altra precisione del testo sta nel sintagma «perfectio omnium perfectionum», giacché la parola «perfectio» si colloca più sul piano della forma che quelle di «actualitas» e di «actus»: in quale modo, allora, lo esse sarà il fondamento di perfezione delle forme che si riscontrano nell’ente ?
            Per rispondere a questi quesiti, è necessario determinare prima cosa sia lo esse; e giacché esso è, nell’ente, correlativo all’essenza, cos’è quest’ultima. Pensiamo che questa domanda abbia ricevuto tre risposte specificamente e quindi strutturalmente diverse. Eccole brevemente riassunte:

  1. Si dà una prima posizione che possiamo chiamare «tomismo duale», o «tomismo formalista», perché esplicita lo ens sostanziale reale come un plesso composto da un atto formale, l’essenza, o forma sostanziale, in potenza ad un atto esistenziale, lo esse, interpretato come existentia. Questa soluzione possiede radici remote nella storia della metafisica di matrice aristotelico-platonica, che risalgono almeno fino ad Avicenna[4]. In questa ottica, l’ente implica infatti due tipi di attualità: quella formale, che dà alla cosa la sua specificazione, e con questa il suo grado di perfezione; e quella esistenziale, che fa esistere l’essenza, senza tuttavia che la sua ricchezza ontologica propria sia derivata dall’esistenza. Perciò, lo esse-esistenza si limita a porre l’essenza concreta (cioè individualizzata nel caso delle sostanze composte) nella realtà. In questo senso, si pensa di salvare il primato dello esse, chiaramente affermato nei testi che abbiamo appena citati, sottolineando che, senza di lui, l’essenza neanche sarebbe reale; però, una volta posta nella realtà, l’essenza vi gode di un’attualità che non deriva da quella dello esse, ma è autonoma.
  2. La seconda posizione va descritta come «tomismo trascendentale», intendendo il qualificativo nel senso che ha nella filosofia moderna da Kant in poi. Lo esse appare, in questa rifondazione della metafisica tomista, come l’ultima condizione di possibilità del giudizio, e più ampiamente di ogni operare umano, che si tratti del conoscere, del volere o del fare. Esso è, primariamente, un orizzonte illimitato di possibilità, di cui i singoli oggetti raggiunti dalla nostra attività sono insieme la concretizzazione e la limitazione. In una seconda fase dell’investigazione metafisica, si stabilisce la consistenza propria di tale orizzonte, che coincide allora con lo Ipsum esse subsistens di san Tommaso, ed è quindi il Dio che, da una parte, crea gli essenti e, d’altra parte, illumina gli intelletti. L’ente reale viene allora interpretato come la posizione di un atto d’essere limitato da una essenza, che funge, in questa chiave, da principio di sottrazione ontologica. Dunque l’essenza si riferisce allo esse non più come un atto formale ad un atto esistenziale, ma come una potenza restrittiva ad un’attualità che sarebbe in sé infinita: si enfatizza dunque il momento negativo della potenza, considerata come istanza limitante[5].
  3. La terza posizione venne qualificata dal suo maggiore teoretico, Cornelio Fabro, di «tomismo essenziale», perché mira a cogliere l’essenza del tomismo; ma essa sta, per questa scuola, oltre l’essenza, nell’atto di essere concepito come fonte di tutta la perfezione dell’ente, e non solo della sua esistenza. Abbiamo allora uno esse «intensivo», che è il principio primo di tutta l’attualità dell’ente, sia sul piano esistenziale che su quello perfettivo. Esso si espande nella cosa secondo diversi livelli di partecipazione: prima viene infatti misurato dall’essenza sostanziale, che le assegna il suo grado strutturale; poi attua le proprietà o forme accidentali per se e gli altri accidenti; e finalmente fiorisce nelle operazioni che procedono dall’ente così costituito. Il punto decisivo, qua, è che l’essenza non ha alcuna attualità, di per sé, nell’ordine reale: è potenza di essere; però, in quanto tale, essa riveste un ruolo positivo, non negativo, perché indica la capacità di essere della cosa, e perché rende l’essere reale nell’ente[6].

Ci troviamo dunque di fronte a tre spiegazioni del plesso esse-essenza, che possiamo schematizzare, in estrema sintesi, così:

  1. Per il tomismo formalista, lo esse è l’atto esistenziale che attua l’essenza o forma sostanziale, la quale è già, in sé stessa, l’atto formale che specifica l’ente.
  2. Per il tomismo trascendentale, lo esse è l’atto originario, di per sé illimitato, che viene limitato dall’essenza o forma sostanziale, la quale è, di per sé, la potenza che limita lo esse entro i confini dell’ente.
  3. Per il tomismo intensivo, lo esse è l’atto emergente della sostanza, che viene ricevuto dall’essenza o forma sostanziale, la quale è, di per sé, la capacità che determina positivamente lo esse ad essere la fonte di attualità di una determinata sostanza.

La posizione [1] si distingue chiaramente dalle due altre a causa dell’attualità autonoma che riconosce all’essenza, nonché per la stretta limitazione del ruolo conferito allo esse, che si esaurisce nel fare esistere la sostanza. Invece, le posizioni [2] e [3] possono sembrare, di primo acchito, molto vicine, giacché ambedue vedono nell’atto di essere lo atto fontale dell’ente, e nell’essenza la potenza che lo restringe. In realtà esse sono molto diverse, sia sul lato dello esse che su quello dell’essenza. Per il tomismo trascendentale, in effetti, lo esse viene capito anzitutto come esse commune: più che l’atto di essere di questa determinata sostanza (hoc esse), esso è «lo esse» (ipsum esse), diverso da Dio, in quanto non sussistente, ma al di sopra dello stesso ente che tuttavia fa essere; per il tomismo intensivo, all’opposto, lo esse è sì un atto emergente, e non completamente immerso nell’ente che fa essere, ma lo è però in esso, e non fuori di esso, e va quindi chiaramente distinto dallo esse commune. Questa diversità ne fonda un’altra, che riguarda l’essenza: per la scuola trascendentale, la potenza viene afferrata soprattutto come l’istanza che nega la pienezza che, di per sé, spetterebbe allo esse; mentre per la terza interpretazione, invece, l’essenza funge da co-principio dell’ente sostanziale, potenziale, ma positivo.
            Benché queste tre posizioni accettino tutte la composizione reale di essenza e di essere nell’ente finito, esse la interpretano in modo decisamente diverso, ed addirittura contraddittorio per quanto riguarda i precisi problemi che abbiamo evidenziati.


[1] Ci siamo espressi al riguardo nei tre seguenti studi: A. CONTAT, «La quarta via di san Tommaso d’Aquino e le prove di Dio di sant’Anselmo di Aosta secondo le tre configurazioni dell’ente tomistico», in AA.VV., Sant’Anselmo nel nono centenario della sua morte, a cura di J. Villagrasa, ART, Roma 2010, di prossima pubblicazione; ID., «Il confronto con Heidegger nel tomismo contemporaneo», in AA. VV., A dieci anni dalla Fides et ratio, ART, Roma 2010, di prossima pubblicazione ; ID., «Le figure della differenza ontologica nel tomismo del Novecento», in Alpha Omega 11 (2008), 77-129 e 213-250, riscontrabile anche in AA.VV., Creazione e actus essendi, Originalità e interpretazioni della metafisica di Tommaso d’Aquino, [Atti di congresso, 11], ART, Roma 2008, 249-255.
[2] ST I, q. 4 a. 1 ad 3.
[3] QD De potentia, q. 7 a. 2 ad 9m.
[4] Cf. AVICENNA, Metafisica I, sez. 5, n. 31, trad. it. di O. Lizzini – P. Porro, Bompiani, Milano 2002, 73: «è evidente che per ogni cosa vi è una realtà propria che è la sua quiddità e la realtà propria di ogni cosa – è noto – è diversa dall’esistenza, che è sinonimo del fatto che ne sia stabilita [l’esistenza]».
[5] Questa teoresi viene sviluppata in J.B. LOTZ, «Il problema del fondamento in Heidegger e nella scolastica», in Sapienza 26 (1973), 280-331, in particolare 307 : «L’essente è sempre un essente, uno fra altri, poiché esso è essente solo sotto questo o quel riguardo ; occupa infatti solo una determinata parte dell’essere o ha parte all’essere ; il modo, come l’essente abbia parte all’essere, circoscrive la sua essenza come il suo modo proprio di essere. Esprimendo ciò in altre parole, diamo che ogni essente è limitata dalla misura data con la sua essenza, per cui ammette accanto a sé anche altri essenti limitati. Al contrario, lo essere è essenzialmente uno o l’unico, poiché esso significa essere sotto ogni possibile riguardo o racchiude in sé tutti i possibili modi di essere : se gli mancasse uno di quei modi, esso non sarebbe lo essere, ma un essente partecipato. Dicendo ciò altrimenti affermiamo che l’essere è illimitato come la pienezza assoluta e perciò comprende tutto ciò che gli dipende». Vedasi pure Esperienza trascendentale, trad. it. di M. Marassi, Vita e Pensiero, Milano 1993, ad es. 135-152.
[6] Cf. C. FABRO, Partecipazione e causalità, [Opere complete, 19], EDIVI, Segni 2010, 316-317 : «L’esse non è puramente l’atto mentale (esse logico) o l’essere in atto reale (l’esse delle categorie), ma è l’atto di ogni atto ovvero la perfezione suprema rispetto alla quale tutte le altre formalità e perfezioni vanno considerate ome partecipanti e ciò in due sensi : anzitutto in quanto l’esse è l’atto di ogni formalità e perfezione che al suo riguardo decade a potenza, e poi in quanto l’esse ch’è realizzato o pensato nella sua espansione formale è la totalità comprensiva di tutte le perfezioni che risultano così sue partecipazioni».

Aucun commentaire:

Enregistrer un commentaire

Remarque : Seul un membre de ce blog est autorisé à enregistrer un commentaire.