Benozzo Gozzoli, Le triomphe de saint Thomas d'Aquin, 1471

mardi 27 septembre 2011

Annibal Carrache : La Fuite en Égypte

Annibal Carrache, La Fuite en Egypte, vers1603.
Rome, Galerie Doria Pamphilj.



            Notre temps privilégie, en peinture comme en toutes choses, les esthétiques destructurantes. Nous pensons au contraire que la beauté, pour laisser deviner une lumière qui surpasse toutes les formes finies, requiert néanmoins toujours une forme, et même une forme parfaite. C’est pourquoi, sans nier le génie du Caravage, nous lui préférons l’école adverse, celle des trois frères Carrache, de Guido Reni et du Guerchin.
            Voici aujourd’hui un célèbre tableau du plus jeune des Carrache, Annibal, né en 1560 et mort en 1609. En 1603, il peignit une Fuite en Égypte, appelée à faire trois fois école : par son thème d’abord, qu’un Poussin a repris dans plusieurs tableaux, comme nous l’avons montré l’hiver dernier[1] ; puis par son genre, celui du « paysage idéal », qui allait profondément marquer tout le XVIIème siècle ; enfin et surtout par sa manière, qui surpasse définitivement le maniérisme, et ouvre toutes grandes les portes d’un nouvel équilibre classique. Les figures délaissent l’allongement morbide du Parmesan, et retournent aux proportions héritées de Polyclète et de Raphaël. Si le paysage acquiert une certaine autonomie picturale, comme le soulignent toujours les historiens de l’art contemporains[2], il n’en reste pas moins soumis à la raison et à la culture : à la raison, car il s’agit toujours d’une nature harmonisée et, par là, idéalisée, au sens où l’idea continue de renvoyer, comme dans tous les néoplatonismes, à un λόγος transcendant ; à la culture, car le paysage, même, somme toute, chez un Claude Lorrain, signifie en définitive autre chose que lui-même, soit parce qu’il est le théâtre d’un événement sacré ou mythique, soit parce que, au minimum, il supporte des valeurs picturales irréductibles à de pures impressions sensitives : c’est en quoi le paysage du XVIIème siècle diffère profondément de la dissolution impressioniste, bien loin d’en être le lointain précurseur, comme trop de commentaires voudraient nous le faire accroire.
            Ces caractéristiques se retrouvent bien ici. Au premier plan, la Vierge tenant l’Enfant, l’âne, et saint Joseph, cheminent au centre de l'espace, ce qui montre bien que le sujet du tableau n’est pas un simple prétexte. Un manteau rouge recouvre la selle de l’âne, ce qui pourrait faire allusion à l’entrée solennelle à Jérusalem, trente-trois ans plus tard, et signifierait alors la paradoxale royauté du Christ, qui s’exerce dans ce monde, mais qui n’est pas de ce monde. La Sainte Famille vient de franchir un fleuve côtier, qui symbolise évidemment la frontière entre Israël et l’Égypte. Au-delà de ce cours d'eau, la patrie  - la terre promise aux Patriarches -  dont s’éloignent les fugitifs s’étage majestueusement le long d’une diagonale qui va du premier plan à gauche jusqu’à l’arrière plan à droite ; elle est scandée par un grand arbre, la cité fortifiée sur la colline, un autre grand arbre qui répond au premier, et la montagne tout au fond. Ce royaume, solennel et impassible, semble devenu hostile à celui qui en est le véritable Seigneur, ce que souligne discrètement le beau ciel orageux qui surplombe la scène. La nature fortement architecturée, et bien sûr très « romaine », a donc certes une beauté propre ; mais celle-ci reste subordonnée au sens total de l’œuvre.



[2] Cf. par exemple S. Loire, « Le paysage à Rome : Annibal Carrache et ses suiveurs », in Nature et idéal, Le paysage à Rome 1660 / 1650, Paris, Éditions de la RMN – Grand Palais, 2011, p. 15-27.

lundi 5 septembre 2011

L’espansione dinamica dell’esse nell’ente


            La reductio ad esse, che propone Cornelio Fabro nelle sue grandi opere, e che abbiamo già più volte assunta nei nostri lavori nonché in alcuni messaggi di questo blog, sembra urtare contro un principio chiave della metafisica tommasiana, quello della stretta proporzione fra l’atto e la potenza che gli corrisponde[1], per cui l’atto di essere attua soltanto la sostanza, mentre l’atto di operare appartiene ad un altro registro, quello dell’accidente. Questa irriducibilità, nell’ente creato, fra l’atto operativo e l’atto sostanziale viene sempre invocata dall’Aquinate per giustificare, di fronte alla scuola francescana, la necessità di porre delle potenze operative fra l’anima (o la sostanza vivente) e le sue operazioni: l’ente animato non è immediatamente operativo perché la potenza di essere non è la potenza di operare[2]. Riconducendo l’agire dell’ente creato al suo atto di essere, non rischiamo di compromettere questa tesi storicamente e speculativamente centrale per l’intera ontologia tommasiana del creato? Più di un tomista ci avrebbe mosso questa seria obiezione, come il P. Henri-Rousseau, autore di un importante studio che, trattando una tematica assai vicina alla nostra, intende confutare ciò ch’egli presenta come estensione indebita dello esse all’operari. Ecco la sua presentazione del primato che assegniamo all’atto di essere:

L’existence est l’acte ultime, absolument parlant. L’être créé ne peut y participer suffisamment par son essence limitée. L’infini de l’exister suscite donc en lui un dynamisme infini, par quoi il tend à participer pleinement à l’acte.

Viene poi subito la critica:

Le fond de cette conception dynamique et ouverte serait donc le refus de la distinction existentielle entre l’être et l’agir. Ce refus ne nous paraît pas sauvegarder une thèse fondamentale du thomisme, celle de la proportion rigoureuse entre la puissance et l’acte. Non, l’existence créée n’a pas la transcendance qu’on lui prête, car elle est inséparable de l’être et de son essence, comme l’acte de sa propre puissance ; elle ne déborde pas les capacités de son essence, ni l’essence sa propre actualité[3].

Essenza ed atto di essere  - existence per il tomismo francese di quel tempo – sono quindi talmente correlativi che ogni «emergenza» dello esse, in seno all’ente, va esclusa per principio. Nella logica di questa posizione, l’inclinazione della sostanza finita verso la propria operazione rimane di tipo meramente attitudinale, e non comporta alcuna comunicazione di attualità, di tal guisa che l’essere in atto dell’operare costituisce una nuova partecipazione all’Atto puro di essere, che non procede dallo esse creato[4]. Ci ritroviamo con ciò che Fabro chiamava la «flessione formalista» del tomismo, in virtù della quale il ruolo dello esse si riduce, rispetto all’operare, ad esserne una condizione sine qua non, che lo rende possibile, ma non influisce positivamente sulla sua attualità. Per agire, bisogna sì esistere; però l’agire non riceve il suo essere dall’essere sostanziale. Simmetricamente, l’essenza sostanziale implica sì una inclinazione a tale o tale azione connaturale; ma la stessa essenza, in atto nella sostanza reale, non media questa azione. Questa concezione conduce quindi a porre nel supposito finito tre tipi di esse, correlativi a tre tipi di potenze con le quali essi compogono tre coppie di atto e di potenza concatenate l’una nell’altra, ma irriducibili l’una all’altra: lo esse che attua la forma sostanziale, quello che attua ciascuna forma accidentale, e quello che si identifica con l’operare, atto delle potenze operative. Ne risulta che l’atto di essere, già nella sfera del creato, non può venire pensato al di fuori dell’analogia di proporzionalità per cui la forma sostanziale sta allo esse sostanziale come la forma accidentale allo esse accidentale, giacché non si dà alcun punto di convergenza di questi diversi esse che consentirebbe di inserirli in un’analogia di rapporto ad un primo. La lettura della metafisica tomista che si ricollega al Gaetano lascia trapelare qui la sua coerenza interna, che unisce l’irriducibilità dei diversi esse e l’insuperabilità della proporzionalità. Se questa contestazione dello esse emergente fosse valida, l’impresa del P. Fabro risulterebbe vana, come anche questo nostro modesto studio.
            La nostra risposta deve iniziare riconoscendo senza indugi che ci sono diversi piani di attualità nel supposito creato. Proprio rispetto alle facoltà operative del vivente, l’Aquinate dimostra infatti la loro reale distinzione dall’anima con il principio secondo cui l’atto e la potenza dividono le singole categorie dell’ente, cosicché una cosa è l’attualità della sostanza, ed un’altra cosa quella dell’operazione vitale[5]. Tutta la difficoltà sta dunque nell’alternativa fra l’impossibilità o la necessità di radicare questi livelli successivi di attualità in un atto originario fondante. Se confrontiamo questo problema con i luoghi tommasiani più pertinenti, accertiamo nuovamente due proposizioni che sono state già toccate nel presente studio, ma che conviene visualizzare insieme:

  1. Lo esse è anzitutto l’attualità di tutti gli atti, e per questo motivo la perfezione di tutte le perfezioni, come proclama ciò che forse sarà il locus princeps dell’Angelico su questa tematica[6].
  2. Lo esse designa anche l’attualità della sostanza, mentre la actio è l’attualità di una facoltà operativa: loro si oppongono come atto primo ed atto secondo, questo essendo il fine di quello[7].

Comme accade non di rado per le grandi tesi metafisiche o dogmatiche di san Tommaso, una ermeneutica fedele alla totalità del corpus thomisticum deve conciliare, in chiave teoretica, due asserti fra i quali la tradizione esegetica tende facilmente a privilegiare l’uno a dispetto dell’altro. Lo esse è quindi, in un senso, l’attualità di tutti gli atti, compresa allora quella dell’operazione [a]; in un altro senso, però, esso è l’attualità della sostanza, e non quella dell’operazione [b]: come accordare queste due tesi, entrambe autenticamente tommasiane? L’aporia sembra, di primo acchito, insuperabile. Infatti, o l’atto di essere dà l’essere a tutto ciò che si dà nell’ente, ed allora non è soltanto l’attualità della sostanza; oppure, all’opposto, lo esse deve intendersi solo come l’essere della sostanza, ad esclusione degli altri momenti riscontrabili nel supposito.
Per togliere l’apparente contraddizione, dobbiamo districare i rapporti di attualità e di potenzialità in seno al supposito creato. Conviene appoggiarsi, al riguardo, sulla finizione dello esse creato:

Omne igitur quod est post primum ens, cum non sit suum esse, habet esse in aliquo receptum, per quod ipsum esse contrahitur : et sic in quolibet creato aliud est natura que participat esse et aliud ipsum esse participatum[8].

Quindi lo esse della sostanza creata ha due caratteristiche: esso è, in primo luogo, atto, ed essendo l’atto di essere, è il suo atto fondante; ma, in secondo luogo, questo atto è «contratto», ossia ristretto entro i limiti della forma che lo riceve, ch’essa sia sussistente oppure che medi ulteriormente l’essere alla materia. Istituendo un ente finito, la «diremtion» della virtus essendi ad opera della potentia essendi contrappone, all’interno di esso, un atto di essere estrinsecamente finito dall’essenza, a questa essenza ormai in atto per questo atto di essere. Per la tradizione formalista, nella quale si iscrivono Giovanni di San Tommaso e Jean-Marie Henri-Rousseau, questi due poli dell’ente finito si ricoprono perfettamente, di modo che l’atto di essere non attua nientr’altro che l’essenza, e che l’essenza non ha alcuna attualità che non sia strettamente sua. Ma se una simile interpretazione rende materialmente conto della seconda delle tesi tommasiane in merito [b], essa nega la prima di loro [a], poiché l’atto di essere cesserebbe allora di essere l’atto di tutti gli atti e di tutte le perfezioni dell’ente. Inoltre, il misconoscimento dello esse non sarebbe soltanto esegetico, ma sopratutto teoretico, perché i coprincipi dell’ente creato verrebbero ridotti a due funzioni polari, come se fossero perfettamente correlativi. Qui, occorre capire bene ciò che implica la nozione di essere come atto o attualità. Premettendo che lo esse della creatura è sempre finito, si deve discernere in esso due valenze: l’atto finito di essere come atto, da una parte, e l’atto finito di essere come atto dell’essenza ch’esso fa essere e dalla quale riceve la sua specificazione, d’altra parte. Non si tratta esattamente dello stesso esse, giacché il primo non include l’essenza, pur essendone misurato, mentre il secondo comprende la stessa essenza ch’esso attua. Nel primo caso, l’atto di essere, senza lasciare di essere «contratto», viene considerato precisamente in quanto atto, ossia in quanto virtus essendi alla cui natura spetta di essere una fonte di energia ontologica protesa verso la propria espansione. Questa è la natura essendi dello esse, reduplicazione che esprime con altri termini ciò che Fabro intendeva con il sintagma «atto intensivo di essere» oppure esse ut actus[9], cioè il primo principio attuante di tutto l’ente, che non è ancora un contenuto, ma attua immediatamente o mediatamente tutto ciò ch’esso contiene. Nel secondo caso, invece, l’atto di essere viene colto come l’atto della sostanza e nella sostanza, vale a dire come ciò che tale essenza sostanziale o forma sussistente è attualmente, ma anche determinatamente, e quindi limitatemente ad essa. Si tratta allora dell’attualità dello esse in quanto posseduta dall’essenza, e pertanto dell’«essere in atto» o esse in actu della sostanza, diverso da quello superadditum dell’accidente e dell’operare[10]. Insomma, l’atto di essere è la virtus essendi dell’intero supposito, che emerge in un certo senso al di sopra del proprio limite essenziale, perché l’atto trascende il contenuto, mentre l’essere sostanziale è l’atto della sola essenza sostanziale, che coincide con l’essenza sostanziale in atto[11]
            La distinzione fra essere come atto ed essere in atto si ripercuote nella distinzione che san Tommaso introduce, nelle sostanze separate, fra soggetto e forma:

ratio forme opponitur rationi subiecti : nam omnis forma in quantum huiusmodi est actus, omne autem subiectum  comparatur ad id cuius est subiectum ut potentia ad actum. Si qua ergo forma est que sit actus tantum, ut diuina essentia, illa nullo modo potest esse subiectum [...] ; si autem aliqua forma sit, que secundum aliquid sit in actu et secundum aliquid in potentia, secundum hoc tantum erit subiectum, secundum quod est in potentia. Substantie autem spirituales, licet sint forme subsistentes, sunt tamen in potentia in quantum habent esse finitum et limitatum[12].

Considerando la sfera più elevata della creazione, vale a dire quella delle sostanze separate, ed alzandoci così al livello propriamente metafisico, discerniamo nella forma sussistente due caratteristiche ontologiche contrapposte, che saranno poi comuni a tutti gli enti creati. In quanto la forma sussistente è precisamente una forma, essa è un atto: e questo non è altro che il suo esse substantiale o essere in atto. Al contempo, però, questo essere in atto è limitato, e lo è da un principio potenziale diverso dall’atto stesso, in virtù del principio secondo cui l’atto non è mai limitato da sé stesso, cosicché la forma sussistente, anche se scevra di ogni materia, racchiude come sappiamo una composizione reale fra il suo atto di essere e l’essenza semplice che lo riceve. Sotto questo aspetto, la forma sussistente è in potenza, e si trova nella condizione di soggetto rispetto a ciò che la attua. Mutatis mutandis, questo vale pure dell’essenza composta, che da un lato è un certo essere in atto (mediato dalla sua forma), e d’altro lato ha ragione di soggetto a causa della potenzialità originaria della sua intera essenza (compresa la forma). Questa dimensione di soggetto ordinato ad una perfezione attuante si dispiega in due ordini concentrici. Nell’ordine trascendentale, costitutivo dell’ente per partecipazione, l’attualità è quindi lo esse intensivo, che attua ma non è in atto, mentre il soggetto di tale atto è l’essenza sostanziale composta, oppure la forma semplice, che è potenza determinata di essere, ma la cui determinazione non può essere colta al di fuori dell’essere ch’essa riceve. Ne risulta che il soggetto dell’atto di essere è sempre, nella realtà, in atto, perché è un partecipante che non ha consistenza al di qua del suo rapporto a ciò ch’esso partecipa. Perciò, l’ente una volta istituito si inserisce necessariamente in un secondo ordine, quello predicamentale, consecutivo dunque all’ente per partecipazione, nel quale il soggetto è la sostanza in atto primo, mentre l’attualità è quella, successiva, delle forme accidentali e delle operazioni, grazie alle quali la sostanza giunge al suo atto secondo perfettivo. All’incrocio fra i due ordini, c’è dunque la sostanza creata in atto finito: essa è, da una parte, in potenza al proprio perfezionamento a causa della limitazione che proviene dalla sua essenza; ma la stessa sostanza dispone con il suo atto di essere, d’altra parte, di una fonte di attualità proporzionata alle sue capacità. In questo modo la differenza dello esse, cioè la sua «caduta» ontologica nell’essenza porta l’ente creato a «riscattare» la sua finitudine nell’operatività[13].
Siamo ora in grado di scogliere l’aporia che opponeva l’unicità dello esse, atto di tutti gli atti, alla dualità fra lo esse della sostanza e la actio della potenza attiva.

  1. La costituzione trascendentale dell’ente pone nella realtà un ente creato, che viene composto da un atto di essere e di una potenza di essere correlativa. Quello è la fonte originaria  - virtus essendi -  di tutta l’attualità del supposito, questa ne misura l’intensità massimale. Ci troviamo nell’ordine supremo dei principi dell’ente, che precede i suoi contenuti, e supera perciò la sfera dell’esperienza[14].
  2. “Dopo” che abbia attuato la forma semplice, oppure l’essenza composta attraverso la forma, l’atto di essere viene da essa mediato in due grandi tappe successive: una prima volta, la forma sostanziale dà alla sostanza il suo essere in atto; poi, tramite quest’ultimo, la forma causa l’essere in atto degli accidenti, dal quale scaturisce finalmente l’operare. In breve, la forma trasmette alla cosa prima l’essere, poi l’operazione[15].

La chiave del rapporto fra [a] e [b] si trova nella differenza che la contrazione dello esse ad opera dell’essenza istituisce fra l’atto di essere da un parte, e l’essere in atto dell’ente d’altra parte. Lo ens, infatti, partecipando all’atto di essere che lo fa essere, è in atto, ma non è il suo atto. Ne risulta una serie di binomi soggetto / atto, che si incastonano l’uno nell’altro. Il primo binomio è interno all’essenza sostanziale, che è in qualche modo soggetto in quanto è potenza di essere, ed è atto in quanto, partecipando all’atto di essere, è costituita nella sua attualità formale. La sostanza, a sua volta, viene attuata dalle forme accidentali, ed in particolare, nel caso degli enti viventi, dalle sue potenze operative, di tal modo che si dà nel supposito reale un secondo binomio, il cui soggetto è l’essenza sostanziale in quanto il suo essere è finito, e il cui atto è lo esse superadditum dell’accidente che completa tale essere finito. Finalmente, la potenza attiva, che è una qualità di seconda specie, causa la propria operazione, producendo il terzo binomio, il cui atto è l’operare ossia l’atto secondo, e il cui soggetto in senso stretto è la sostanza già ordinata all’agire dalla sua potenza sovraggiunta, quest’ultima essendo il principio quo del proprio atto operativo[16]. Così si vede che l’atto intensivo di essere è certamente la actualitas omnium actuum [a], ma lo è attraverso una scala di mediazioni, di tal guisa ch’esso non si identifica pienamente con nessuno degli atti successivi [b], proprio a causa della sua «caduta» iniziale nell’essenza che lo riceve. Simmetricamente, quest’ultima va considerata sotto due aspetti: dal punto di vista trascendentale [a], l’essenza restringe lo esse ad una determinata intensità di essere, che il supposito non potrà superare, mentre, dal punto di vista predicamentale [b], essa specifica la sostanza, e si contradistingue dagli accidenti che vi ineriscono. La dinamica di partecipazione che cerchiamo di analizzare può allora essere considerata partendo da entrambi i principi costitutivi dell’ente. Nella linea “discendente”, rispetto allo stesso esse fondante, i partecipati successivi sono quindi l’essere in atto della sostanza, l’essere in atto delle forme accidentali, e l’operare in atto delle facoltà operative; nella linea “ascendente”, i partecipanti sono invece in ordine inverso l’essenza della sostanza come potenza di essere, l’essenza della sostanza come essere in atto limitato, ed il supposito costituito in atto primo per l’essere in atto dell’essenza e quello sovraggiunto delle forme accidentali. Si deve sottolineare, davanti a queste mediazioni successive della virtus essendi, che i livelli intermedi di attualità dipendono dallo actus essendi emergente, come i livelli intermedi di potenzialità rimandano alla potentia essendi originaria, coerentemente con il valore architettonico dei co-principi costitutivi dell’ente finito[17]. A questo punto, ci sembra che un prospetto sinottico aiuterà il lettore a visualizzare questa dinamica poco studiata dell’ente per partecipazione:

I
Principi trascendentali costituenti dell’ente per partecipazione

Potentia essendi: essentia
Actus essendi: esse ut actus
II
Piani successivamente costituiti di partecipazione allo esse
Livello
soggetti partecipanti
esse in actu partecipato
Sostanziale
essenza sostanziale
in quanto potenza specificante
esse substantiale
in quanto essere-in-atto della sostanza
Accidentale
essenza sostanziale
in quanto ente-in-atto formale limitato
esse accidentale
in quanto essere-in-atto degli accidenti
Operativo
supposito in atto primo
per l’essere-in-atto
della sostanza e degli accidenti
operari
in quanto essere-in-atto-secondo
dell’intero supposito

            Dal punto di vista logico-critico, conviene rilevare che questa espansione dell’essere nell’ente fa apparire tutte e due le forme dell’analogia, e non una sola. In primo luogo, constatiamo infatti che i rapporti di potenza ad atto che abbiamo identificati all’interno del supposito sono proporzionali l’uno all’altro: l’essenza sostanziale sta al suo essere in atto (esse substantiale) come la forma accidentale al suo essere accidentale (esse accidentale), e come la potenza operativa al suo operare (operari)[18]. In questa dimensione, che è quella dello esse in actu, l’unità dell’ente viene colta attraverso l’analogia di proporzionalità. Se ci si fermasse a questa figura dell’analogia, i diversi modi di attualità riscontrabili nell’ente finito non avrebbero in esso una fonte comune, cosicché la sua unità sarebbe soltanto proporzionale. Ma la resolutio progressiva dei diversi livelli di esse in actu avendo fondato l’operare dell’ente nel suo essere sostanziale, e quest’ultimo nell’atto di essere, la riflessione è in grado di gerarchizzare i diversi significati dell’ente secundum prius et posterius, in un rapporto di convergenza verticale che li riferisce tutti, in una prima fase ancora categoriale, alla sostanza in atto, poi in una seconda fase propriamente trascendentale, all’atto di essere[19]. Perciò, l’unità relativa dei diversi momenti ontologici dell’ente ordinati allo esse ut actus va letta secondo l’analogia di rapporto, detta anche di attribuzione[20]. In sintesi, l’analogia di proporzionalità implica, in ultima istanza, l’analogia di rapporto, perché la somiglianza fra le coppie di soggetto e di atto si risolve nell’identità dell’atto di essere partecipato, e da esso procede mediante l’essenza nei tre gradi differenziati che abbiamo evidenziati.
            L’integrazione delle due analogie nell’analisi integrale dell’ente in atto secondo ne mostra il dinamismo in spirale. In effetti, se l’atto di essere viene originariamente «contratto» dall’essenza, esso viene poi «dilatato» nei cerchi ascendenti successivi che procedono dal soggetto (sostanza / accidenti; potenze / operazioni). Questo processo segue quindi una dialettica di pienezza e di indigenza, i cui momenti sono: prima l’atto di essere, ricco di attualità, ma non in atto da solo; poi l’essenza, originariamente carente du attualità, e successivamente (sotto lo esse) in atto limitato, quindi sempre attuanda, costitutivamente o consecutivamente; e finalmente l’operazione, atto ed in atto, ma non da sé[21]. Così l’ente, sopratutto ma non esclusivamente quello vivente, si sviluppa secondo una progressiva Erfüllung, ovviamente ontologica e non fenomenologica, secondo la quale la virtus essendi dell’ente lo riempie con gli strati di attualità ch’essa racchiude virtualmente, nella misura consentita dalla potentia essendi che la specifica. Come l’Eros platonico, figlio di Poros e di Penia[22], l’ente tommasiano, considerato come desiderio del proprio compimento, nasce e cresce grazie all’abbondanza ed alla povertà: lo esse ut actus e l’essenza potenziale tendono, attivamente e passivamente, allo esse in actu della sostanza, delle sue proprietà, delle sue operazioni, anzitutto di quella più perfetta. Pertanto, la composizione reale instaura una teleologia nell’ente, che lo indirizza dall’interno verso il proprio fine. E siccome il raggiungimento di quest’ultimo passa attraverso le tappe dell’essere sostanziale poi dell’essere operante, la distinzione fra la bontà secundum quid della sostanza e la bontà simpliciter dell’operazione cessa di essere fattuale (quia) e trova la sua legittimità causale (propter quid): se è vero che «omne enim ens ordinatur in finem propter suam actionem»[23], non è soltanto perché l’agire perfeziona de facto l’ente, ma è sopratutto perché l’agire viene esatto dallo esse specificato dall’essenza come sua ultima espansione.


[1] Cf. ad es. QD De anima, q. 12c: «Potentia enim ad actum dicitur. Vnde secundum diuersitatem actuum oportet esse diuersitatem potentiarum».
[2] Cf. ad es. QD De spiritualibus creaturis, a. 11c: «hec positio est omnino impossibilis : primo quidem quia impossibile est quod alicuius substantie create sua essentia sit sua potentia operatiua. Manifestum est enim quod diuersi actus diuersorum sunt ; semper uero actus proportionatur ei cuius est actus. Sicut autem ipsum esse est actualitas quedam essentie, ita operari est actualitas operatiue potentie seu uirtutis : secundum enim hoc utrumque eorum est in actu, essentia quidem secundum esse, potentia uero secundum operari. Vnde cum in nulla creatura suum operari sit suum esse, set hoc sit proprium solius Dei, sequitur quod nullius creature operatiua potentia sit eius essentia ; set solius Dei proprium est ut sua essentia sit sua potentia».
[3] J.-M. Henri-Rousseau, «L’être et l’agir», in Revue thomiste 54 (1954), 286. Il saggio completo, di grande spessore teoretico, fu pubblicato in tre puntate della stessa rivista: 53 (1953), 488-531; 54 (1954), 267-297; 55 (1955), 85-118. Il lettore si ricordi che la lingua francese non usava, in questi tempi, il vocabolo “étant”, e ne esprimeva il significato con l’infinito sostantivato “être”, mentre soleva tradurre lo esse tomistico con “existence”. In senso chiaramente contraddittorio, cf. W. N. Clarke, «Action ad the Self-Revelation of Being: A Central Theme in the Thought of St. Thomas», 46: «The act of existence of any being (its to be” or esse) is its “first act”, its abiding inner act, which tends naturally, by the very innate dynamism of the act of existence itself, to overflow into a “second act”, which is called action or activity».
[4] Cf. la presa di posizione molto chiara, al riguardo, di J.-H. Nicolas, «Chronique de philosophie spéculative», in Revue thomiste 48 (1948), 550: «Agere sequitur esse, non pas en ce sens que l’acte d’être serait ordonné à l’acte d’agir, mais en ce sens que, pour être ordonné à l’acte d’agir et à tel acte d’agir, il faut d’abord être constitué dans l’être, c’est-à-dire actué par un acte déterminé (et sans que soit sacrifiée non plus l’universalité de l’esse, car cet acte d’agir est encore de l’être, mais c’est une participation originale, irréductible à celle de l’acte d’être, à l’ipsum esse subsistens, en lequel viennent confluer à leur sommet l’ordre de l’agir et l’ordre de l’esse)».
[5] Cf. ST I, q. 77 a. 1c: «cum potentia et actus dividant ens et quodlibet genus entis, oportet quod ad idem genus referatur potentia et actus. Et ideo, si actus non est in genere substantiae, potentia quae dicitur ad illum actum, non potest esse in genere substantiae. Operatio autem animae non est in genere substantiae; sed in solo Deo, cuius operatio est eius substantia. Unde Dei potentia, quae est operationis principium, est ipsa Dei essentia. Quod non potest esse verum neque in anima, neque in aliqua creatura».
[6] Cf. QD De potentia, q. 7 a. 2 ad 9, citato supra nota 61.
[7] Cf. ST I, q. 54 a. 1c: «Actio enim est proprie actualitas virtutis; sicut esse est actualitas substantiae vel essentiae»; q. 105 a. 5c: «forma, quae est actus primus, est propter suam operationem, quae est actus secundus».
[8] QD De spiritualibus creaturis, a. 1c. Cf. anche, ad es., ST I, q. 75 a. 5 ad 4: «Esse autem participatum finitur ad capacitatem participantis».
[9] Cf. ad es. C. Fabro, Partecipazione e causalità, 68: «L’esse è l’atto, senz’aggiunta; nelle cose finite, nella natura e nell’anima, l’esse è l’atto attuante e quindi il sempre presente e presentificante»; 234: «l’esse è l’atto κατ' ξοχήν, atto di ogni atto, e non un contenuto». Per la formula «natura essendi», cf. Quaestiones de quolibet III, q. 1 a. 1c.
[10] Cf. Su questa diremtion dello esse, cf. C. Fabro, Partecipazione e causalità, 201-202: «Possiamo quindi concludere che l’esse in actu corrisponde all’esse essentiae: come all’essenza sostanziale corrisponde un esse sostanziale, così all’essenza accidentale (la quantità, la qualità, la relazione...) corrisponde l’esse accidentale. Ma l’esse ut actus essendi è il principium subsistendi della sostanza, grazie al quale tanto l’essenza della sostanza come anche quella degli accidenti sono in atto e operano nella realtà: l’esse degli accidenti è l’esse in actu nel tutto ch’è la sostanza prima, è quindi un’esistenza secondaria derivata dalla sostanza reale come un tutto in atto»; 203-204: «se esse si può dire tanto dell’essenza come formalità caratteristica nella costituzione delle sostanze, quanto dell’ens ch’è la realtà completa in atto, esse in senso proprio è soltanto l’actus essendi; nella sfera dell’esse essentiae si distinguono l’ens (esse) substantiale e l’ens (accidentale) nel senso che si è detto: ma l’esse attualizzante ch’è l’actus essendi non divisibile, è perché indica la qualità di atto assoluta che fa la prima discriminazione del reale e il primo fondamento della verità, perché è inscindibile e semplicissima affermazione del suo atto ed ha per contrario semplicemente il non-essere. L’essenza invece è scissa già in sostanza e accidenti [...]».
[11] Cf. C. Fabro, «Il nuovo problema dell’essere e la fondazione della metafisica», Rivista di filosofia neo-scolastica 66 (1974), 506: «l’essenza è il principio come contenuto intrinseco realizzato e l’actus essendi è il principio come atto realizzante intrinseco». Ovviamente, l’essenza realizzata è l’essenza in atto.
[12] QD De spiritualibus creaturis, a. 1 ad 1.
[13] Cf. ad es. C. Fabro, La nozione metafisica de partecipazione secondo san Tommaso d’Aquino, 25: «occorre ben distinguere anche fra ordine trascendentale e predicamentale: nel primo, l’esse ha certamente il carattere di atto (per tutte le formalità) nel senso indicato, nel secondo è invece alla natura, come primo principio immanente dell’agire (Physic., B, 1, 192 b 20) che compete il carattere di nucleo dinamico e specificativo a un tempo dell’agire»; Id., Partecipazione e causalità, 207: «”Partecipare” non è più semplice sinonimo di “suscipere”, ma comporta una “discesa” della formalità verso una “caduta” della perfezione partecipata nel partecipante e quindi una “differenza ontologica” ed una dipendenza reale del partecipante dal partecipato nella propria sfera secondo il modo della partecipazione stessa».
[14] Cf. C. Fabro, Partecipazione e causalità, 233: «Se l’analisi o riduzione fenomenologica dell’esperienza ci porta quindi a distinguiere l’essenza (contenuto) e l’esistenza (fatto), la realtà e la sua realizzazione: la riflessione o riduzione metafisica scopre la distinzione o “Diremtion” fra l’essenza e l’esse, come potenza ed atto. Questa à la distinzione (e composizione) suprema per la fondazione del reale nella sua determinazione di “ente per partecipazione”; questa determinazione certamente non pretende di avere un riferimento immediato alla esperienza come quella di sostanza e accidenti, di essenza e di esistenza».
[15] Cf. lo scorcio di ST I, q. 42 a 1 ad 1, che si ricollega significativamente alla quantitas virtualis: «Secundo autem attenditur quantitas virtualis in effectibus formae. Primus autem effectus formae est esse: nam omnis res habet esse secundum suam formam. Secundus autem effectus est operatio : nam omne agens agit per suam formam. Attenditur igitur quantitas virtualis et secundum esse et secundum operationem : secundum esse quidem, inquantum ea quae sunt perfectioris naturae, sunt maioris durationis ; secundum operationem vero, inquantum ea quae sunt magis potentia ad agendum». Quindi la forma media l’essere alla sostanza, poi all’operazione, in modo proporzionato alla propria apertura.
[16] Cf. QD De anima, q. 12c: «sciendum est quod potentia nichil aliud est quam principium operationis alicuius, siue sit actio siue passio ; non quidem principium quod est subiectum agens aut patiens, set id quo agens agit aut patiens patitur».
[17] Perciò l’Aquinate poteva notare nello Scriptum I, d. 3 q. 4 a. 3 ad 2: «accidens ex seipso non habet virtutem producendi aliud accidens ; sed a substantia potest unum accidens procedere mediante alio, secundum quod illud praesupponitur in subjecto ; et ita etiam accidens non potest esse per se subjectum accidentis, sed subjectum mediante uno accidente subjicitur alteri».
[18] Per questa proporzionalità nello esse, cf. Scriptum III, d. 1 q. 1 a. 1c: «[...] unum analogia seu proportione, sicut substantia et qualitas in ente : quia sicut se habet substantia ad esse sibi debitum, ita et qualitas ad esse sui generis conveniens»; ST I, q. 79 a. 1c: «sicut enim potentia se habet ad operationem ut ad suum actum, ita se habet essentia ad esse».
[19] Cf. CG I, c. 34 n. 1 (Marietti, n. 297): «ens de substantia et accidente dicitur secundum quod accidens ad substantiam respectum habet»; QD De unione uerbi incarnati, a. 4c: «Esse enim proprie et vere dicitur de supposito subsistente. Accidentia enim et formae non subsistentes dicuntur esse, in quantum eis aliquid subsistit».
[20] Non possiamo entrare, in questa sede, nelle controversie relative alla terminologia da usare per designare i diversi tipi di analogia. «Proporzionalità» ci sembra molto chiaro, e «rapporto» presenta il vantaggio rispetto ad «attribuzione» di essere sullo stesso registro lessicale, di origine matematica e di significato onto-logico, e non meramente logico. La nostra scelta ci avvicina parzialmente, poi, a quella («proportion» e «rapport») di B. Montagnes, La doctrine de l’analogie de l’être d’après saint Thomas d’Aquin, Cerf, Paris 2008.
[21] Sui ruoli rispettivi dell’attualità e del limite nella genesi dell’agire creato, cf. D. Kambembo, «Essai d’une ontologie de l’agir», Revue philosophique de Louvain 65 (1967), 356-387; 497-538, in particolare 377-384; S. Breton, «Être et agir (réflexions sur un axiome)», Euntes Docete 3 (1950), 241-253; 317-344.
[22] Cf. Platone, Simposio, 203 a-c.
[23] CG III, c. 16 n. 1 (Marietti, n. 1985).