Qualche volta, gli studiosi cambiano parere, dopo aver nuovamente
ripreso un problema e riconsiderato la bibliografia ivi relativa. Ci è capitato
in questi giorni con la difficile nozione di aliquid, quel trascendentale che viene tematizzato soltanto del primo articolo
delle Quaestiones disputatae De veritate.
Offriamo ai nostri lettori questa versione modificata, sopratutto per quanto
riguarda l’additio rationis propria
di questo trascendentale, che ora ci appare come una negazione.
*****
Lo statuto
trascendentale dell’aliquid è ancora
più delicato di quello della res,
giacché san Tommaso lo tematizza in maniera esplicita fra le nozioni
convertibili con l’ente soltanto nell’articolo iniziale del De veritate:
Si autem
modus entis accipiatur secundo modo, scilicet secundum ordinem unius ad
alterum, hoc potest esse dupliciter. Uno modo secundum divisionem unius ab
altero et hoc exprimit hoc nomen aliquid: dicitur enim aliquid quasi aliud
quid, unde sicut ens dicitur unum in quantum est indivisum in se ita dicitur
aliquid in quantum est ab aliis divisum[1].
Colpisce il collegamento fra lo aliquid
e lo unum, che nasce dalla loro
comune matrice, cioè la nozione di divisione. Posto infatti che hoc ens non est illud ens, il primo ente
si rivela indiviso in sé, comme lo abbiamo visto, mentre il secondo viene
espressamente diviso dal primo. Aliquid
esprime quindi il rapporto di alterità che risulta, nell’ente, dal paragone con
altri enti.
Quale sarà lo statuto
epistemologico ed ontologico di questa divisio
ab altero? Visto il silenzio dell’Aquinate su questo preciso problema, è
opportuno consultare il parere dei suoi interpreti. In maniera analogicamente
simile a quella proposta per la res
che egli metteva in rapporto polare allo ens,
Jan Aertsen vede nello aliquid il
trascendentale correlativo dello unum,
in base ad una notazione molto interessante della Quaestio disputata De anima: «Vnumquodque enim in quantum est unum,
est in se indiuisum et ab aliis distinctum»[2]. Capito in
questa ottica, lo aliquid sembra
ridursi ad un’implicazione dell’unum,
benché l’autore preferisca non assumere una posizione chiara in merito. Anche
Stanislas Breton, in un saggio molto stimolante sulla genesi dei
trascendentali, suggerisce che l’aliquid
prende posto in una costellazione dove l’autonomia gli viene negata. Infatti,
esso sarebbe una conseguenza della diremtion
operata negli enti dall’essenza, la quale non può costituire un ente senza
distinguerlo dagli altri. Così l’aliquid
si ricollegherebbe al diversum, a sua
volta postulato dall’unum in seguito
alla res[3]. La difficoltà
comune, mutatis mutandis, a queste
due posizioni, risiede nel rifiuto di tenere conto della ratio propria che oppone comunque lo aliquid all’uno: essendo quest’ultimo una proprietà trascendentale,
perché non lo sarebbe quello, che vi si oppone in maniera polare come lo indivisum in se dal divisum ab aliis?
È proprio in questa
prospettiva che Philip Rosemann coglie l’aliquid
all’interno di una potente dialettica dell’identità e dell’alterità, che
sarebbe la cornice del «sistema» ontologico tomistico, sbaratto per
indicarne l’apertura trascendente. Per essere, l’ente deve sì essere sé stesso;
ma ciò passa attraverso il distinguersi dagli altri, e quindi attraverso l’essere
altro degli altri; pertanto, l’ente media sé stesso grazie al suo rapporto
all’altro che gli conferisce la sua propria identità. L’aliquid, speculativamente e non solo etimologicamente letto come aliud quid, diventa allora il perno di
tutta l’ontologia, giacché la verità dell’ente consiste, in ultima analisi, nel
suo essere in rapporto ad altro[4]. Da questa
ipotesi scaturisce una concezione fortemente dinamista dell’ente, che
costituisce sé stesso uscendo da sé. Ora sebbene troviamo dal Rosemann sviluppi
assai interessanti sulla necessaria connessione fra l’ente e la sua
operatività, egli ci sembra non sufficientemente onorare il principio secondo
il quale «esse est aliquid fixum et quietum in ente»[5], per cui le
proprietà dell’ente, in quanto consecutive al suo esse costitutivo, debbono trascendere la mutabilità: come l’unità,
la verità o la bontà di un ente qualunque, sostanziale o accidentale, non sono
assoggettate al cambiamento, così anche deve essere il «qualcosa».
Perciò altri autori
concedono allo aliquid una specifica additio rationis che lo
contraddistinguerebbe dall’ente senza compromettere la stabilità di
quest’ultimo. In un articolo monografico dedicato a questo problema, Heinz
Schmitz insisteva sull’originalità dell’aliquid
rispetto all’unum, nonché sulla sua
indipendenza rispetto alla molteplicità reale degli enti. Per questo studioso,
che riconosce il suo debito nei confronti di Jacques Maritain e di Giovanni di
San Tommaso, si deve accuratamente distinguere fra la nostra conoscenza dell’aliquid da una parte, e il suo
costitutivo formale d’altra parte. Nell’ordine della scoperta, la nozione di aliquid ci viene svelata a partire dal
giudizio hoc non est illud che
presuppone, a sua volta, la pluralità reale degli enti, e che ci conduce a intuire
in questo ente «qualcosa» di diverso di quell’altro ente. In questo modo,
arriviamo alla nozione di aliquid,
che comprende la nozione di ente e una negazione di identità rispetto ad ogni
«altro» ente. Però, nell’ordine dell’essere, questa alterità non presuppone
necessariamente l’esistenza reale di altri enti: infatti, se ci fosse un solo
ente, questo sarebbe ancora altro che tutti gli enti semplicemente possibili, e
di conseguenza non lascierebbe di essere un aliud
quid[6]. Tale alterità
si distingue quindi dall’unità, che riguarda l’ente in sé; ma essa appartiene
all’ente in virtù di sé stesso, perché è anteriore alla molteplicità reale
degli enti.
Questa posizione è
stata duramente contestata da Giovanni Ventimiglia, per il quale lo aliquid è precisamente il trascendentale
che esprime la necessaria diversità degli enti. A questo scopo, egli mette in
risalto i luoghi dove san Tommaso annovera il multum fra i trascendentali[7]. Ora la
molteplicità viene definita in termini simili a quelli usati per lo aliquid:
Patet ergo quod unum quod
convertitur cum ente, ponit quidem ipsum ens, sed nihil superaddit nisi
negationem divisionis. Multitudo autem ei correspondens addit supra res, quae
dicuntur multae, quod unaquaeque eraum sit una, et quod una eraum non sit altera,
in quod consistit ratio distinctionis. Et sic, cum unum addat supra ens unam
negationem, - secundum quod aliquid est indivisum in se, - multitudo addit duas
negationes, prout scilicet aliquid est in se indivisum, et prout est ab alio
divisum. Quod quidem dividi est unum eorum non esse alterum[8].
Alla luce di questo testo, lo aliquid
sembra essere l’uno che è parte di una molteplicità, e che si definisce, sotto
questo preciso aspetto, come ciò che è ab
alio divisum, il che equivale alla formula del De veritate. Il Ventimiglia ne trae in sostanza due conclusioni
legate fra di loro: in primo luogo, lo aliquid
deve essere interpretato come il diversum
che è consecutivo alla molteplicità[9]; in secondo
luogo, la trascendentalità dello aliquid,
così inteso, prova che la molteplicità è altrettanto intrinseca all’ente come
lo è la sua unità[10]. In ultima
analisi, questa coestensione dell’unità e della pluralità rimanda al mistero
trinitario, che appare allora come la chiave risolutiva della metafisica[11].
Una simile fondazione
trinitaria dello aliquid non può
essere recepita, perché toglierebbe alla metafisica il suo statuto di scienza
accessibile alla ragione naturale[12]. Ma, sul piano
propriamente filosofico, quale è il rapporto fra lo aliquid e il diversum? Se
si identificassero totalmente, come lo vuole Giovanni Ventimiglia, allora lo aliquid dipenderebbe dalla molteplicità
reale dell’ente. Ci pare che un segmento del Super Boetium De Trinitate illumini il problema. Ci si chiede se
l’alterità sia la causa della pluralità, vale a dire della molteplicità reale.
Per rispondere positivamente a questo quesito, l’Aquinate introduce una
distinzione fra la divisio, che
precede la pluralità, e la diversitas,
che è invece posteriore alla pluralità:
Et secundum hoc uerum est quod
Boetius dicit, quod alteritas est principium pluralitatis: ex hoc enim
alteritas in aliquibus inuenitur, quod eis diuersa insunt; quamuis autem
diuisio precedat pluralitatem pri(m)orum, non tamen diuersitas, quia diuisio
non requirit utrumque condiuisorum esse ens, cum sit diuisio per affirmationem
et negationem, set diuersitas requirit utrumque esse ens, unde presupponit
pluralitatem[13].
Il principio di soluzione del nostro problema si trova nella sequenza
abbozzata in queste righe. Prima si dà la divisione, che non richiede la realtà
delle sue parti; poi vi è la pluralità, che invece è reale; e finalmente viene
la diversità, che presuppone parimenti la realtà degli enti diversi.
Ovviamente, dobbiamo chiarire il discorso, che senza spiegazione rimarrebbe
esoterico. All’ente in quanto ente si oppone soltanto il non-ente; perciò, a
questo determinato ente si oppone originariamente la negazione che toglie anche
una sola determinazione formale di questo ente. Ad esempio, ad «animale
razionale», che è la definizione dell’uomo, si oppone l’«animale
non-razionale», prescindendo dall’esistenza di animali non razionali. A questo
stadio, abbiamo una semplice divisio
fra animale razionale ed animale non razionale, in virtù dell’affermazione e
della negazione, cioè di un’opposizione di contraddizione[14]. Se poi, come
è il caso, esistono animali sia razionali che non razionali, la contraddizione
fra razionale e non-razionale lascia il posto alla contrarietà fra animale
razionale ed animale non-razionale, la quale implica prima l’esistenza di
entrambi gli opposti, poi il loro rapporto di alterità. In questa fase, abbiamo
la diversità reale fra tutto ciò che è animale razionale e tutto ciò che è
invece animale non razionale, quindi fra uomo e bestia. Tornando sul registro trascendentale,
possiamo ora dire che l’opposizione fra hoc
ens e non hoc ens è una
divisione, la quale non richiede, in quanto tale, l’esistenza reale del «non
questo ente», mentre l’opposizione fra hoc
ens e illud ens connota invece
una diversità reale fra «questo ente» e «quello ente». Sotto il primo aspetto, hoc ens è un aliquid, perché è soltanto virtualmente diviso dagli altri enti;
sotto il secondo aspetto, per contro, hoc
ens è un diversum, perché è
attualmente opposto a illud ens, che
è anche reale. Così la divisione caratteristica dello aliquid precede la molteplicità, ed anche la causa[15], ma solo dal
punto di vista formale, giacché la pluralità effettiva degli enti dipende dalla
libera volontà del Creatore, e non può certamente essere dedotta dalla ratio entis. In questo modo, rispondiamo
a Giovanni Ventimiglia che le sue considerazioni valgono riguardo al molteplice
ed al diverso, ma che nondimeno il trascendentale aliquid rimane anteriore alla molteplicità reale degli enti,
cosicché può essere predicato di Dio prima dell’assenso di fede al mistero
della Santissima Trinità. Last but not
least, abbiamo anche evidenziato che l’additio
rationis costitutiva dello aliquid
è la negazione di ragione per la quale diciamo che «questo ente non è
non-questo ente».
[1] QD De veritate, q. 1 a . 1c.
[2] QD De anima, q. 3c. Cf. Jan Aertsen, Medieval Philosophy and the Transcendentals…, 223: «Every being is
a “thing”, for it has through its essence or quiddity a stable and determinate
mode of being. Every determination includes a negation. This being is not that
being: they are opposed, not as beings as such but insofar as they heve
determinate modes of being. Only if “being” is considered as “thing” can one
being be formally divides from another being. Our conclusion is that the
transition from the negation of being to the division in Thomas’s account of
the primary notions is only comprehensible if the transcendentals res and aliquid are taken into consideration».
[3] Cf. Stanislas Breton, «L’idée de transcendantal et la
genèse des transcendantaux chez saint Thomas d’Aquin», in AA.VV., Saint Thomas d’Aquin aujourd’hui,
Desclée de Brouwer, Paris 1963, 51: «L’essence, avons-nous dit, est la première
expression de l’être en tout ce qui est. Or l’essence ne constitue qu’en distinguant
et ne distingue qu’en constituant. Elle implique dès lors, et nécessairement,
une marge d’altérité, un horizon qui l’enrobe de tout ce qui n’est pas elle. La
négation, en tant que division, n’est donc pas simple privation. Elle fonde un
univers qui ne serait pas un dans le divers qu’elle introduit».
[4] Cf. Philipp W. Rosemann, Omne ens est aliquid, Introduction
à la lecture du «système» philosophique de saint Thomas d’Aquin, Éditions
Peeters, Louvain Paris 1996, 51: «Un étant est quelque chose ou une
chose (unum) seulement en étant “un
autre ‘quoi’”, une autre chose (aliud quid) – par quoi il faut entendre:
en étant une autre chose que les autres
choses, c’est-à-dire en n’étant pas autre qu’il n’est… Pour être, l’étant doit alors à la fois
rester lui-même et se distinguer par rapport aux autres. Or un étant ne peut se
distinguer par rapport aux autres que
s’il s’y rapporte, c’est-à-dire s’il
sort de son “en-soi”, s’éloigne pour ainsi dire de lui-même et s’aliène, voire
devient “autre” que lui-même».
[5] CG I, c. 20 n. 27 (Marietti, n. 179).
[6] Cf. Heinz Schmitz, «Un transcendantal méconnu», in Cahiers Jacques Maritain 2 (1981),
21-51. Leggiamo a p. 41 : «L’Aliquid
exprime l’être de chaque étant ;
non certes l’être comme présenté purement et simplement par le concept d’être,
mais l’être comme connotant la relation d’altérité. Cette relation que notre
esprit établit en comparant les êtres entre eux, doit être comprise comme une
condition requise du côté de notre pouvoir intellectif afin qu’il puisse saisir
l’être lui-même comme Aliquid. Dès
lors que cette condition est réalisée, l’être lui-même se manifeste comme une
perfection chaque fois originale et partout unique. Affirmer que l’être est
quelque chose, qu’il est Aliquid, ne
signifie nullement que la perfection d’être exige de soi une pluralité de
réalisations. S’il n’y avait qu’un seul être, il serait encore Aliquid, c’est-à-dire nécessairement
autre que tous les êtres possibles, et en ce sens nécessairement unique».
[7] Cf. ad esempio ST I, q. 30 a . 3c: «considerandum est
quod omnis pluralitas consequitur aliquam divisionem. Est autem duplex divisio.
[...] Alia est divisio formalis, quae fit per oppositas vel diversas formas: et
hanc divisionem sequitur multitudo quae non est aliquo genere, sed est de transcendentibus»;
q. 50 a .
3 ad 1: «multitudo est de transcendentibus»; QD De spiritualibus creaturis, a. 8 ad 15: «in substantiis
immaterialibus est multitudo que est de transcendentibus, secundum quod unum et
multa diuidunt ens».
[8] QD
De potentia, q. 9 a .
7c.
[9] In Sententia
super Metaphysicam V, lc. 11 n. 2 (Marietti, n. 907), Tommaso vede nel diversum il molteplice nel genere della
sostanza; ma si può ovviamente estendere analogicamente il significato di
questo termine ad ogni membro di una molteplicità.
[10] Cf. Giovanni Ventimiglia, Differenza
e contraddizione..., 245: «Ovunque
c’è essere, lì c’è anche – dice
Tommaso, dietro la cortina di quelle parole desuete e tecniche – nello stesso tempo, unità e distinzione, l’“uno”
e, insieme, l’“altro”: è il paradosso ed il mistero stesso dell’essere che ci
si presenta, in tutta la sua affascinante ed inquietante realtà, non appena
cerchiamo un poco di allontanare la caligine “in qua habitare dicitur”».
[11] Cf. Giovanni Ventimiglia, Differenza
e contraddizione..., 244, nota 106: «la divisio
espressa dal termine aliquid
corrisponde a quella proprietà per la quale Dio, essere unico ed individuale
per essenza, è nello stesso tempo, in forza della Trinità delle sue Persone, in
senso proprio e reale, internamente differenziato».
[12] Ricordiamo che il mistero trinitario esula
assolutamente, per l’Aquinate, dal perimetro della ragione filosofica, secondo
ST I, q. 32 a .
1c: «Per rationem igitur naturalem cognosci possunt de Deo ea quae pertinent ad
unitatem essentiae, non autem ea quae pertinent ad distinctionem Personarum».
[13] Super
Boetium De Trinitate, q. 4 a .
1c.
[14] Cf. Expositio
Libri Peryermenias I, lc. 9 n. 7: « Dicit ergo primo quod cum cuilibet
affirmationi opponatur negatio, et e converso, oppositioni huiusmodi imponatur
nomen hoc, quod dicatur contradictio».
[15] Cf. QD De potentia, q. 9
a . 7 ad 15: «divisio est causa multitudinis, et est
prior secundum intellectum quam multitudo […]. Quantumcumque enim aliqua intelligantur divisa, non
intelligetur multitudo, nisi quodlibet divisorum intelligatur esse unum». Ora,
l’essere uno presuppone l’essere ente; perciò la molteplicità non si dà mai a
priori, ma viene data con gli enti stessi. La trascendentalità del multum è quindi consecutiva alla
presenza attuale di una pluralità di enti. In questo caso, transcendens ha anzitutto il senso di sopracategoriale.
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