Benozzo Gozzoli, Le triomphe de saint Thomas d'Aquin, 1471

mardi 2 septembre 2014

Breve prospetto sulla nozione di partecipazione

            Ma che cosa è, per il filosofo, la partecipazione di cui abbiamo evidenziato un capitale analogon magisteriale nel messaggio precedente? Cerchiamo ora di offrirne una sintesi ai nostri lettori, che possa essere utile sia al metafisico che al teologo.
            Partecipare, secondo la ricostruzione etimologica dell’Aquinate, significa avere o prendere parte a qualcosa: «Est autem participare quasi partem capere»[1]. Una partecipazione si dà pertanto quando un soggetto ha qualche «parte» di una perfezione che non possiede in modo totale ed esclusivo. Dunque si deve distinguere due estremi nella relazione di partecipazione, che sono il soggetto partecipante e la perfezione partecipata. A questa ultima spettano poi due stati, a seconda che viene considerata in sé stessa, come totalità, oppure nel partecipante, appunto come «parte». Perciò un rapporto di partecipazione richiede necessariamente tre istanze: il partecipante al quale si attribuisce una formalità o un atto in maniera parziale; la perfezione partecipata in quanto si dice intrinsecamente e quindi parzialmente del partecipante; e la perfezione partecipata in quanto viene contemplata in sé in maniera totale ed in qualche modo estrinseca al partecipante.
            Ora le perfezioni partecipabili si dividono in due classi assai differenti, a seconda che vengono predicate dei singoli partecipanti univocamente o analogicamente. L’esistenza stessa del primo tipo di partecipazione può destare qualche sorpresa. Sappiamo infatti che una nozione univoca si attribuisce nello stesso modo a tutti i suoi inferiori, sia che si tratti di una specie rispetto agli individui, oppure di un genere rispetto alle sue specie. Quindi sembra che non si dà, in questo caso, un vero rapporto di partecipazione fra il soggetto ed il predicato, perché tutta la perfezione significata da questo viene ricevuta da quello, e non soltanto un parte: che un singolare tiglio sia grande o piccolo, vecchio o giovane, esso possiede la natura del tiglio né più né meno di un altro. In realtà, questa stretta unità nei molteplici vale certamente per la ratio dell’universale univoco, ma non completamente per le res alle quali esso viene attribuito. Fra le specie di un genere, l’identità generica formale comporta allo stesso tempo una gerarchia specifica reale, per cui le specie animali non hanno tutte lo stesso spessore ontologico: «omnia animalia sunt aequaliter animalia, non tamen sunt aequalia animalia, sed unum animal est altero maius et perfectius»[2]. Mutatis mutandis, lo stesso accade con il rapporto degli individui sussistenti alla loro specie[3]. Oltre questa giustificazione comune del ricorso alla partecipazione nell’ambito delle formalità univoche, si deve poi ricordare che già lo Stagirita, nelle Categorie, sosteneva che certe categorie o sottocategorie ammettono il più e il meno, senza lasciare di avere una ratio essenzialmente una: alcuni tipi di relazione, la prima e la terza specie di qualità, l’azione e la passione[4]. Gli abiti e le qualità sensibili, in particolare, hanno sì la stessa essenza, ma vengono ricevute dal soggetto in cui ineriscono secondo una intensità maggiore o minore: perciò una superficie sarà più o meno bianca a seconda del modo in cui la superficie partecipa alla bianchezza, e una persona sarà più o meno temperante a secondo del modo in cui il suo concupiscibile partecipa alla temperenza. A questa variazione della misura di partecipazione che proviene dal soggetto, alcuni abiti, fra i quali le scienze, ne aggiungono un’altra che deriva dal loro oggetto materiale. Per questa ragione, un matematico può essere più o meno esperto di un altro sia perché il suo intelletto possibile è più o meno ricettivo nei confronti della seconda scienza speculativa, sia anche perché egli coglie un maggior o minor numero di conclusioni materiali a partire dallo stesso oggetto formale della matematica[5].
            Da questo breve abbozzo risulta che una formalità colta attraverso una nozione univoca può essere partecipata in maniera differenziata nelle cose in cui viene realizzata in tre modi diversi ma non esclusivi: o perché, pur avendo eventualmente la stessa intensità, la perfezione in causa viene comunque individualizzata dai suoi soggetti; o perché la sua intensità varia a seconda dei suoi soggetti; o ancora perché la sua intensità cambia anche a seconda dei suoi oggetti materiali. Sottolineiamo che, in tutti questi casi, la perfezione partecipata non esiste al di fuori dei soggetti partecipanti, cosicché il partecipato estrinseco totale si dà soltanto nell’intelletto.
            Le categorie, e quindi tutte le formalità oggettivate in nozioni univoche, sono delle contrazioni dello ens, che le precede e le trascende, per cui appartiene ad un altro ordine, quello trascendentale. Esso si distingue da quello predicamentale non soltanto a causa della riduzione noetica di tutte le nozioni alla ratio entis, ma sopratutto a causa della fondazione metafisica di tutte le perfezioni, formali e reali, nel principio risolutivo dell’ente che è lo esse in senso forte, ossia l’atto di essere[6]. Non potendo, in questa sede, percorrere tutta la via che porta a questa ultima resolutio dell’ente in quanto ente, ne assumiamo i risultati più significativi per la nostra problematica, in un prospetto dunque più sapienziale che scientifico[7].
                        Per l’Aquinate, la frontiera ontologica primordiale non è più quella che separa il mondo materiale da quello immateriale, come lo pensavano le metafisiche socratiche, ma quella molto più radicale che stacca l’Essere per essenza, che è Dio, dagli enti per partecipazione, che sono gli enti creati (i quali ovviamente si dividono poi in corporei e spirituali). In questo quadro, lo statuto ontologico fondamentale di un ente si definisce a partire dal suo rapporto all’atto di essere, giacché «hoc vero nomen Ens, imponitur ab actu essendi»[8]. Quindi la partizione originaria della perfezione ossia dell’attualità si fa ormai fra il maxime ens che è il suo essere, e gli altri enti, che hanno parte all’essere, ma non sono il loro essere. In un secondo momento, consecutivo alla creazione, si distingue negli enti quelli che in senso forte hanno l’essere in sé stessi, e perciò sono sostanze, e quelli che invece hanno l’essere in un altro, e sono allora accidenti, fra i quali ci sono quelli formali statici e quelli operativi dinamici. Più precisamente, il lemma ens scomponendosi in id quod est[9], possiamo cogliere in ognuna di queste tre parole una istanza della ratio entis integralmente considerata: in quanto l’ente «è» (est), esso implica una certa attualità, a sua volta fondata nell’atto di essere; in quanto l’ente è un «che» (quod), esso possiede una certa essenza, intesa come determinazione della sua attualità; e in quanto l’ente è un «ciò» (id), esso è il soggetto dell’essere in atto in causa, oppure rimanda ad un soggetto in cui tale ente inerisce. Tornando sulla costituzione ontologica propria ad ogni tipo di ente, ci troviamo allora di fronte a tre configurazioni diverse delle tre istanze che abbiamo riperite.

•          L’Essere sussistente puro
            Nel corpus thomisticum, Dio viene caratterizzato quattordici volte come ipsum esse subsistens. Questi tre termini cumulati caratterizzano molto bene lo statuto ontologico proprio a Dio. Egli è quindi esse, in tutta la sua virtus essendi, senza alcuna contrazione o restrizione. Perciò, egli è pure ipsum esse, non avendo altra essenza o quiddità che l’essere stesso:

Esse autem Dei, cum non sit in aliquo receptum, sed sit esse purum, non limitatur ad aliquem modum perfectionis essendi, sed totum esse in se habet; et sic sicut esse in universali acceptum ad infinita se potest extendere, ita divinum esse infinitum est[10].

Questo Essere non essendo ricevuto in una essenza o in un soggetto da lui diverso, egli è inoltre ipsum esse subsistens, perché sussiste in sé stesso. In Dio vi è quindi una totale identità ontologica fra l’essere, l’essenza e la sussistenza.

•          L’ente per partecipazione sussistente
            Lo esse subsistens non potendo essere che uno solo, ogni altro ente è un ens per participationem, nel quale vi è una differenza ontologica fra ciò che è, da una parte, e l’essere grazie al quale è ciò che è, d’altra parte. In senso forte, l’ente per partecipazione è la sostanza creata, che risulta dalla composizione fra un atto di essere partecipato, da un lato, e una natura partecipante d’altra parte:

Manifestum est enim quod primum ens, quod Deus est, est actus infinitus utpote habens in se totam essendi plenitudinem, non contractatam ad aliquam naturam generis uel speciei; unde oportet quod ipsum esse eius non sit esse quasi inditum alicui nature que non sit suum esse, quia sic finiretur ad illam naturam: unde dicimus quod Deus est ipsum suum esse. Hoc autem non potest dici de aliquo alio: sicut enim impossibile est intelligere quod sint plures albedines separatae – set si esset albedo separata ab omni subiecto et recipiente, esset una tantum -, ita impossibile est quod sit ipsum esse subsistens nisi unum tantum. Omne igitur quod est post primum ens, cum non sit suum esse, habet esse in aliquo receptum, per quod ipsum esse contrahitur: et sic in quolibet creato aliud est natura rei que participat esse et aliud ipsum esse participatum. Et cum quelibet res participet per assimilationem primum actum in quantum habet esse, necesse est quod esse participatum in unoquoque comparetur ad naturam participantem ipsum sicut actus ad potentiam[11].

Lo esse della sostanza categoriale viene dunque ricevuto e misurato da una essenza che esercita la doppia mansione di soggetto recipiente e di principio di specificazione. Perciò, l’essenza creata deve essere considerata da due punti di vista diversi. In sé stessa, essa è una potentia essendi correlativa allo actus essendi, entrambi essendo i principi correlativi che fanno essere l’ente sostanziale, ma che non sono enti. Se si considera invece l’essenza attualizzata, allora essa non è più potenza, ma è già l’essenza reale alla quale spetta la sua attualità formale propria. Questa essenza realizzata è propriamente «id quod habet esse», e quindi sussiste perché ha l’essere in sé e non in altro, senza che occorra postulare alcuna terza istanza a questo scopo.

•          L’ente per partecipazione inerente
            La sostanza creata in atto è quindi la sintesi di un atto di essere e di una potenza di essere, per cui essa si trova simultaneamente, ma non sotto lo stesso rapporto, in atto e in potenza. Ora il proprio della potenza è di contrarre, mentre quello dell’atto è di espandersi: «natura cuiuslibet actus est, quod seipsum communicet quantum possibile est»[12]. Da questa polarità provengono necessariamente, nel supposito creato, gli accidenti propri, di cui la sostanza è il principio attivo in quanto è in atto, mentre ne è il principio passivo mentre è in potenza. Sebbene l’Aquinate non operi esplicitamente questa riduzione dell’attualità accidentale a quella dello esse fontale, egli vi si avvicina tuttavia assai :

Actualitas per prius invenitur in subiecto formae accidentalis, quam in forma accidentali: unde actualitas formae accidentalis causatur ab actualitate subiecti. Ita quod subiectum, inquantum est in potentia, est susceptivus formae accidentalis: inquantum autem est in actu, est eius productivum[13].

Infatti, se recepiamo la tesi secondo cui lo esse è l’attualità di tutti gli atti[14] col dovuto rigore epistemologico, dobbiamo allora ricondurre apoditticamente l’attualità del soggetto, che causa quella della forma accidentale, all’atto originario di essere. Ne risulta che l’essere in atto dell’accidente è altro da quello della sostanza, ma ne deriva; similmente, la forma accidentale differisce dall’essenza sostanziale, ma inerisce nella sostanza.


            L’ontologia sommaria che abbiamo appena abbozzata fa apparire, nell’ente creato, due rapporti di partecipazione analogica, diversi ma subordinati fra di loro. Il primo fu esplicitamente insegnato dall’Aquinate dall’inizio alla fine della sua carriera, e riguarda la dipendenza costitutiva che unisce la sostanza creata al Creatore. Essa si compone di un partecipante, l’essenza sostanziale creata, e di un partecipato ad essa immanente, l’atto di essere creato. Quest’ultimo viene detto partecipato perché partecipa ad un partecipato estrinseco e trascendente, che è l’Essere increato, secondo la misura specificante data dall’essenza. La metafisica coglie questa rapporto di partecipazione estrinseca con la resolutio secundum rem, grazie alla quale si raggiunge il principio trascendente dell’ente in quanto ente.
            Il secondo rapporto di partecipazione è meno esplicito nel corpus thomisticum, ma è coerente con il primato dell’atto di essere partecipato. Infatti, «ipsum esse est actus ultimus qui participabilis est ab omnibus ; ipsum autem nichil participat»[15]. In questa ottica, i diversi livelli di attualità del supposito non sono altro che delle partecipazioni all’atto originario di essere concatenate fra di loro: l’atto di essere viene partecipato direttamente dalla sostanza in atto, alla quale partecipano le forme accidentali ed in particolare le potenze operative del vivente, all’attualità virtuale della quali, a sua volta, partecipano le operazioni. La metafisica oggettiva questo rapporto di partecipazione intrinseca con la resolutio secundum rationem, nella quale si analizza i principi immanenti dell’ente in quanto ente.
            All’opposto di quanto accade per le perfezioni esprimibili con una nozione univoca, la partecipazione all’essere si radica nella realtà propria del partecipato estrinseco, cioè dello Ipsum esse subsistens, attraverso gli anelli dello esse immanente, della sostanza, delle forme accidentali e delle operazioni. Questa catena di partecipanti e di partecipati presuppone ciò che Cornelio Fabro chiama il «principio di emergenza dell’atto»:

poiché l’atto in quanto tale sta in se stesso come affermazione semplice ed “emerge” perciò sulla potenza alla quale può andar unito, l’esse che è l’atto di essere, atto di ogni atto e di ogni forma emerge su tutto l’ordine formale, su qualsiasi essenza[16].

L’atto di essere supera quindi il piano delle forme, e per questa ragione esso non viene assorbita dall’essenza che esso attua, ma trapela per così dire al di là della sostanza, nelle proprietà accidentali ordinate all’agire. La partecipazione manifesta così la generosità dello esse, che si fonda sulla sua trascendenza relativa rispetto all’essenza, e che è proporzionale a questa ultima. Tanto più aperta è l’essenza all’attuare dello esse, quanto più nobile sarà l’agire del soggetto così costituito: l’angelo conosce ed ama Dio e sé stesso, mentre la rosa si limita a nutrirsi ed a emanare il suo profumo. Ma qualunque sia il grado che l’ente occupa nella scala degli enti, il suo atto di essere tenderà sempre a diffondersi in qualche attività consecutiva alla sostanza e da essa misurata. Infatti, «agere autem, quod nihil est aliud quam facere aliquid in actu, et per se proprium actus, inquantum est actus»[17], e questa proprietà concerne in primo luogo lo esse che è atto per antonomasia.
            A questo punto, si intuisce già che le diverse novità dottrinali che abbiamo elencate nel Vaticano II troveranno nella metafisica della partecipazione, sopratutto analogica, uno strumento particolarmente atto ad offrirne un’ermeneutica che ne faccia capire l’armonia interna nonché il loro radicamento nel mistero di Cristo in cui abita ogni pienezza[18]. Ma siccome abbiamo pure rilevato che il corpus conciliare è stato non di rado oggetto di letture deformanti, conviene pure che identifichiamo le possibili negazioni della partecipazione, che logicamente conducono a tradire lettera e spirito dell’ultimo Concilio.
            In quanto tale, il partecipante si definisce per il suo rapporto al partecipato estrinseco, che deve pertanto essere la perfezione partecipata al grado massimo, realmente come l’Essere sussistente, o perlomeno intenzionalmente come l’essenza universale e per sé univoca. Quindi se, lungi dall’emergere sopra i partecipanti, il partecipato venisse intrinsecamente storicizzato, la partecipazione perderebbe il suo fulcro e sparirebbe. Di conseguenza, i partecipanti smetterebbero di essere tali, e lascerebbero il posto ad una molteplicità sprovvista di principio di ordine ad essa superiore. Le singole componenti di un tale tutto an-archico starebbero fra di loro in un rapporto di alterità pura, che già Platone, nell’ottava ipotesi del Parmenide, riteneva autocontraddittorio:

Ancora una volta torniamo all’inizio per dire che cosa deve risultare se l’Uno non è mentre gli Altri dall’Uno sono. – Diciamolo. – Dunque, gli Altri non saranno Uno. – In effetti, come lo potrebbero? – Ma nemmeno molti: in quelli che sono molti, deve esserci anche l’Uno. Se infatti nessuno di questi è Uno, il totale è niente, e quindi non sono nemmeno molti. – Vero. – Se quindi l’Uno non è negli Altri, gli Altri non sono né molti né uno. – Infatti, non lo sono[19].

Per evitare questa implicazione, si potrebbe postulare che gli elementi del tutto non distinguendosi più gli uni dagli altri in virtù di riferimenti differenziati ad un primo emergente, essi convergano tuttavia verso un medesimo «orizzonte», che fungerebbe allora da sostituto del fondamento trascendente. È ciò che accade nel pensiero ermeneutico, là dove esso si presenta come alternativo a quello metafisico. Ma siccome l’orizzonte interpretativo viene strettamente legato alla temporalità, cosicché viene addirittura rielaborato da ogni rilettura che riesce a dominare la cultura del suo evo[20], esso non costituisce mai un vero principio architettonico. Pertanto, fra ciò che per noi sarebbe la dissoluzione delle parti nello pseudo tutto ermeneutico determinato dallo Zeitgeist, da un lato, e ciò che consideriamo invece come la loro necessaria risoluzione nella loro ρχή emergente e trascendente, d’altro lato, vediamo alla fine dei conti una insuperabile opposizione di contraddizione, anche se essa non ci impedisce di integrare alcuni aspetti valorizzati dall’altra parte, però in una configurazione globale toto caelo diversa.
            A questa negazione immanentista della partecipazione si oppone un’altra, che muove da una falsa comprensione della trascendenza. Se ciò che si impone alla coscienza venisse primariamente inteso come essenza, e non come ente, allora ci troveremo dinanzi ad un universo di oggetti specifici di cui ognuno è o non è, ma non ammette alcuna variazione secondo il più e il meno. Infatti, le essenze sono come dei numeri, i quali cambiano specie se si aggiunge o si sottrae qualcosa alle loro note costituenti, come nota giustamente lo Stagirita[21]. Quindi un’essenza può ammettere tutt’al più una partecipazione univoca, che lascia intatte tutte quante le sue note definitorie; ma non può essere sottomessa ad una partecipazione analogica, proprio perché l’analogia implica una somiglianza relativa in una diversità essenziale. Perciò, un’essenza formalmente considerata in quanto essenza starà alle altre essenze come l’Uno rispetto agli Altri nella quarta ipotesi del Parmenide:

Diciamo pure dall’inizio, se l’Uno è, quali affezioni devono avere gli Altri dall’Uno. – Diciamolo pure. – Allora l’Uno non è forse separato dagli Altri e gli Altri dall’Uno? – Perché? – Perché in qualche modo non c’è una realtà oltre a queste due che sia ulteriore all’Uno e agli Altri: quando si è detto l’Uno e gli Altri si è significato tutto. – Tutto infatti. – Non vi è quindi nient’altro di diverso da questi, in cui l’Uno e gli Altri possano trovarsi insieme. – No, infatti. – L’Uno e gli Altri non sono mai insieme. – Sembra di no. – Sono dunque separati? – Sì[22].

Così come gli Altri appaiono in questa ottica come semplicemente altri, quindi separati dall’Uno, così anche le essenze specifiche b, c, d, saranno semplicemente altre e separate dall’essenza a. Perciò, una metafisica essenzialista come quella di Suárez non vede nulla di comune fra gli enti, se non il puro possibile, che può essere colto o in sé, come ciò che è capace di esistere, oppure a partire dalla sua causa prima, come ciò che Dio può produrre realmente[23]. In entrambi i casi, l’ente non è più ciò che ha parte allo esse, ma si riduce a ciò la cui esistenza non sarebbe contraddittoria.
            Contro la dissoluzione del partecipato nel divenire dei partecipanti, l’Aquinate afferma vigorosamente l’immutabilità dell’atto di essere, non solo in Dio, ma in ogni ente sostanziale: «Esse autem est aliquid fixum et quietum in ente»[24]; e contro l’impossibilità (o l’irrilevanza) della partecipazione, egli asserisce che «secundum rei veritatem causa prima est supra ens in quantum est ipsum esse infinitum, ens dicitur autem id quod finite participat esse»[25]. Costituito da un atto di essere fisso che partecipa all’Essere divino secondo la misura determinata dalla sua essenza, l’ente dispone di una certa virtus essendi proporzionata alla sua forma[26], nella quale si radicano tutte le partecipazioni posteriori a quella della sostanza stessa. In questa luce, la partecipazione si rivela come la colonna sulla quale si regge sia la realtà che la scienza dell’essere, une colonna che sale oltre i confini del creato.



[1] Tommaso d’Aquino, Expositio libri Boetii De ebdomadibus, lc. 2.
[2] Tommaso d’Aquino, QD De malo, q. 2 a. 9 ad 16.
[3] Cf. Tommaso d’Aquino, Sententia super librum De caelo et mundo I, lc. 19 n. 14: «Singula autem individua rerum naturalium quae sunt hic, sunt imperfecta; quia nullum eorum comprehendit in se totum quod pertinet ad suam speciem».
[4] Cf. Aristotele, Categorie 7, 6 b 19-27 (relazione); 8, 10 b 26 – 11 a 14 (qualità); 9, 11 b 1-8 (azione e passione).
[5] Cf. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, Ia-IIae, q. 52 a. 1c: «cum habitus et dispositiones dicantur secundum ordinem ad aliquid, ut dicitur in VII Physicorum, dupliciter potest intensio et remissio in habitus et dispositionibus considerari. Uno modo, secundum se: prout dicitur maior vel minor sanitas; vel maior vel minor scientia, quae ad plura vel pauciora se extendit. – Alio modo, secundum participationem subiecti: prout scilicet aequalis scientia vel sanitas magis recipitur in uno quam in alio, secundum diversam aptitudinem vel ex natura vel ex consuetudine». Su tutta la questione della partecipazione predicamentale, cf. Cornelio Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo S. Tommaso d’Aquino, [Opere Complete, 3], Editrice del Verbo Incarnato, Segni 2005, 143-181.
[6] Cf. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae I, q. 8 a. 1c: «Esse autem est illud quod est magis intimum cuilibet, et quod profundius omnibus inest: cum sit formale respectu omnium quae in re sunt».
[7] Nel nostro studio Alain Contat, «L’étant, l’esse et la participation selon Cornelio Fabro», Revue thomiste 111 (2011), 357-403, abbiamo esaminato le tappe della resolutio metafisica in modo sistematico; poi in Id., «Esse, essentia, ordo. Verso una metafisica della partecipazione operativa», Espíritu 61/143 (2012), 9-71, abbiamo cercato di evidenziare le implicazioni operative della partecipazione trascendentale.
[8] Tommaso d’Aquino, Sententia super Metaphysicam IV, lc. 2 n. 6 (Marietti, n. 553).
[9] Cf. Tommaso d’Aquino, Expositio libri Boetii De ebdomadibus, lc. 2: «Set id quod est siue ens, …».
[10] Tommaso d’Aquino, QD De potentia, q. 1 a. 2c.
[11] Tommaso d’Aquino, QD De spiritualibus creaturis, a. 1c.
[12] Tommaso d’Aquino, QD De potentia, q. 2 a. 1c.
[13] Tommaso d’Aquino, Summa theologiae I, q. 77 a. 6c.
[14] Cf. il celebre brano di Tommaso d’Aquino, QD De potentia, q. 7 a. 2 ad 9: «hoc quod dico esse est actualitas omnium actuum, et propter hoc est perfectio omnium perfectionum».
[15] Tommaso d’Aquino, QD De anima, q. 6 ad 2.
[16] Cornelio Fabro, Partecipazione e causalità secondo S. Tommaso d’Aquino, [Opere Complete, 19], EDIVI, Segni 2010, 43.
[17] Tommaso d’Aquino, Summa theologiae I, q. 115 a. 1c.
[18] Cf. Col. 1, 19-20: «Perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza, e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose».
[19] Platone, Parmenide, 165 e. Seguiamo il modo di elencare le ipotesi proposto da Giovanni Reale in Platone, Tutti gli scritti, Rusconi, Milano 1991, 375-376. Auguste Diès, in Platon, Œuvres complètes, t. VIII – 1, Parménide, Les Belles Lettres, Paris 1959, 39 e 114, classifica questa ipotesi come nona (ed ultima).
[20] Cf. ad esempio Hans-Georg Gadamer, Verità e metodo, trad. it. a cura di Gianni Vattimo, Bompiani, Milano 2000, 633: «In realtà, l’orizzonte del presente è sempre in atto di farsi, in quanto noi non possiamo far altro che mettere continuamente alla prova i nostri pregiudizi».
[21] Cf. Aristotele, Metafisica Η, 3, 1044 a 9-11: «E come il numero non ha il più e il meno, così neppure la sostanza intesa nel significato di forma».
[22] Platone, Parmenide, 159 b-c. Per Auguste Diès, op. cit., 36 e 104, si tratta della quinta ipotesi.
[23] Cf. Francisco Suárez, Disputationes metaphysicae, II, sect. 4 n. 7: «[...] dicimus essentiam esse realem, quae a Deo realiter produci potest, et constitui in esse entis actualis. Per intrinsecam autem causam non potest proprie haec ratio essentiae explicari, quia ipsa est prima causa vel ratio intrinseca entis, et simplicissima, ut hoc communissimo conceptu essentiae concipitur; unde solum dicere possumus, essentiam realem, eam esse quae ex se apta est esse, seu realiter existere».
[24] Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles I, c. 20 n. 27 (Marietti, n. 179).
[25] Tommaso d’Aquino, Super Librum De Causis, lc. 6.
[26] Cf. Cf. Tommaso d’Aquino, Sententia super librum De caelo et mundo I, lc. 6 n. 5: «Unde tantum et tamdiu habet unaquaeque res de esse, quanta est virtus formae eius. Et sic non solum in corporibus caelestibus, sed etiam in substantiis separatis est virtus essendi semper». L’importante tema della virtus essendi è stato trattato da Fran O’Rourke, «Virtus Essendi: Intensive Being in Pseudo-Dionysius and Aquinas», Dionysius 15 (1991), 31-80.

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