Benozzo Gozzoli, Le triomphe de saint Thomas d'Aquin, 1471

lundi 14 avril 2014

Il passaggio dell’ente al trascendentale «qualcosa» (aliquid)

            Lo statuto trascendentale dell’aliquid è ancora più delicato di quello della res, giacché san Tommaso lo tematizza in maniera esplicita fra le nozioni convertibili con l’ente soltanto nell’articolo iniziale del De veritate:

Si autem modus entis accipiatur secundo modo, scilicet secundum ordinem unius ad alterum, hoc potest esse dupliciter. Uno modo secundum divisionem unius ab altero et hoc exprimit hoc nomen aliquid: dicitur enim aliquid quasi aliud quid, unde sicut ens dicitur unum in quantum est indivisum in se ita dicitur aliquid in quantum est ab aliis divisum[1].

Colpisce il collegamento fra lo aliquid e lo unum, che nasce dalla loro comune matrice, cioè dalla nozione di divisione. Posto infatti che hoc ens non est illud ens, il primo ente si rivela indiviso in sé, mentre il secondo viene espressamente diviso dal primo. Aliquid esprime quindi il rapporto di alterità che risulta, nell’ente, dal paragone con altri enti.
            Quale sarà lo statuto epistemologico ed ontologico di questa divisio ab altero? Visto il silenzio dell’Aquinate su questo preciso problema, è opportuno consultare il parere dei suoi interpreti. In maniera analogicamente simile a quella proposta per la res che egli metteva in rapporto polare allo ens, Jan Aertsen vede nello aliquid il trascendentale correlativo dello unum, in base ad una notazione molto interessante della Quaestio disputata De anima: «Unumquodque enim in quantum est unum, est in se indiuisum et ab aliis distinctum»[2]. Capito in questa ottica, lo aliquid sembra ridursi ad un’implicazione dell’unum, benché l’autore preferisca non assumere una posizione chiara in merito. Anche Stanislas Breton, in un saggio molto stimolante sulla genesi dei trascendentali, suggerisce che l’aliquid prende posto in una costellazione dove l’autonomia gli viene negata. Infatti, esso sarebbe una conseguenza della diremtion operata negli enti dall’essenza, la quale non può costituire un ente senza distinguerlo dagli altri. Così l’aliquid si ricollegherebbe al diversum a sua volta postulato dall’unum in seguito alla res[3]. La difficoltà comune, mutatis mutandis, a queste due posizioni, risiede nel rifiuto di tenere conto della ratio propria che oppone comunque lo aliquid all’uno: essendo quest’ultimo una proprietà trascendentale, perché non lo sarebbe quello, che vi si oppone in maniera polare come lo indivisum dal distinctum ab aliis?
            È proprio in questa prospettiva che Philip Rosemann coglie l’aliquid all’interno di una potente dialettica dell’identità e dell’alterità, che sarebbe la cornice del «sistema» ontologico tomistico, sbaratto per indicarne l’apertura trascendente. Per essere, l’ente deve sì essere sé stesso; ma ciò passa attraverso il distinguersi dagli altri, e quindi attraverso l’essere altro degli altri; pertanto, l’ente media sé stesso grazie al suo rapporto all’altro che gli conferisce la sua propria identità. L’aliquid, speculativamente e non solo etimologicamente letto come aliud quid, diventa allora il perno di tutta l’ontologia, giacché la verità dell’ente consiste, in ultima analisi, nel suo essere in rapporto ad altro[4]. Da questa ipotesi scaturisce una concezione fortemente dinamista dell’ente, che costituisce sé stesso uscendo da sé. Ora sebbene troviamo dal Rosemann sviluppi assai interessanti sulla necessaria connessione fra l’ente e la sua operatività, egli ci sembra non sufficientemente onorare il principio secondo il quale «esse est aliquid fixum et quietum in ente»[5], per cui le proprietà dell’ente, in quanto consecutive al suo esse costitutivo, debbono trascendere la mutabilità: come l’unità, la verità o la bontà di un ente qualunque, sostanziale o accidentale, non sono assoggettate al cambiamento, così anche deve essere il «qualcosa».
            Perciò altri autori concedono allo aliquid una specifica additio rationis che lo contraddistinguerebbe dall’ente senza compromettere la stabilità di quest’ultimo. In un articolo monografico dedicato a questo problema, Heinz Schmitz insisteva sull’originalità dell’aliquid rispetto all’unum, nonché sulla sua indipendenza rispetto alla molteplicità reale degli enti. Per questo studioso, che riconosce il suo debito nei confronti di Jacques Maritain e di Giovanni di San Tommaso, si deve accuratamente distinguere fra la nostra conoscenza dell’aliquid da una parte, e il suo costitutivo formale d’altra parte. Nell’ordine della scoperta, la nozione di aliquid ci viene svelata a partire dal giudizio hoc non est illud che presuppone, a sua volta, la pluralità reale degli enti, e che ci conduce a intuire in questo ente «qualcosa» di diverso di quell’altro ente. In questo modo, arriviamo alla nozione di aliquid, che comprende la nozione di ente e una relazione di ragione di alterità rispetto ad ogni «altro» ente. Però, nell’ordine dell’essere, questa alterità non presuppone necessariamente l’esistenza reale di altri enti: infatti, se ci fosse un solo ente, questo sarebbe ancora altro che tutti gli enti semplicemente possibili, e di conseguenza non lascierebbe di essere aliquid[6]. Questo respectus è quindi diverso dall’unità, che riguarda l’ente in sé, e si aggiunge all’ente indipendentemente dalla molteplicità effettiva degli enti. Lo Schmitz ci sembra aver giustamente colto l’irriducibilità dell’aliquid rispetto alle altre nozioni convertibili con l’ente, nonché aver visto bene il suo radicamento nella singolarità dello esse proprio di ente. Vorremmo tuttavia evitare il giro che fa la sua dimostrazione attraverso il puro possibile, perché connotando l’ente un rapporto costitutivo allo esse che è atto, la giustificazione delle passiones entis deve ugualmente fondarsi sull’ente in atto.
            Occorre ripartire dalla caratterizzazione dell’aliquid come ciò che è «ab aliis divisum». Questa separazione ci viene rivelata in un giudizio negativo, mediante il quale l’intelletto coglie un rapporto di alterità fra un ente a e un ente b. Siccome un tale rapporto di non-identità non connota alcuna dipendenza di a rispetto a b, né di b rispetto a a, la relazione così stabilita è di pura ragione. Se i due estremi sono reali, la relazione esprime la diversità nel possesso dell’essere da parte di a e da parte di b: il modo in cui a è non è il modo in cui b, da canto suo, è. Ciascuno è un quid, cioè una res che riceve l’essere secondo la sua propria misura; e ciascuno è per l’altro un aliud quid, cioè una res la cui misura di essere non è quella dell’altro. Se togliamo uno degli estremi, ogni ente rimane un quid virtualmente altro di ogni altro quid, in virtù della singolarità del suo essere. Questa proprietà riguarda sopratutto la sostanza, giacché l’essenza reale che misura l’essere di ognuna è irripetibile: nelle sostanze composte l’essenza è certamente universale in sé quanto alle sue note costitutive, ma non si dà mai realmente senza l’individuazione materiale; nelle sostanze separate, la forma sussistente è di per sé individuale; e in Dio, lo Esse Subsistens non può essere che unico. Perciò, già lo Stagirita caratterizzava la sostanza individuale in atto come τόδε τι[7], espressione che Guglielmo di Moerbeke tradusse con hoc aliquid, e che significa alcunché di determinato; ora essendo questa determinazione, in ultima analisi, singolare nell’ente reale, si deve dire che «secundum quod est hoc aliquid, unumquodque est ab alio distinctum»[8]. Successivamente, si può estendere analogicamente la nozione di hoc aliquid alle categorie accidentali, sulla scia di una indicazione offerta dallo stesso Aristotele che accenna chiaramente alla sua trascendentalità[9]:

Hoc enim quod dixit aliquid, vel significat « hoc », idest substantiam, aut quantum, aut quale, aut quando, vel aliquod aliud praedicamentum[10].

Così, il trascendentale aliquid si ricollega allo hoc aliquid, ed evidenzia, in tomismo, la singolarità di ogni ente, grazie alla quale esso è virtualmente altro di ogni altro ente. Se volessimo formalizzare questa passio entis, diremmo che si tratta della relazione di ragione grazie alla quale ogni ente fonda virtualmente un giudizio di distinzione rispetto ad ogni altro ente.





[1] QD De veritate, q. 1 a. 1c.
[2] QD De anima, q. 3c. Cf. Jan AERTSEN, Medieval Philosophy and the Transcendentals…, 223: «Every being is a “thing”, for it has through its essence or quiddity a stable and determinate mode of being. Every determination includes a negation. This being is not that being: they are opposed, not as beings as such but insofar as they heve determinate modes of being. Only if “being” is considered as “thing” can one being be formally divides from another being. Our conclusion is that the transition from the negation of being to the division in Thomas’s account of the primary notions is only comprehensible if the transcendentals res and aliquid are taken into consideration».
[3] Cf. Stanislas BRETON, «L’idée de transcendantal et la genèse des transcendantaux chez saint Thomas d’Aquin», in AA.VV., Saint Thomas d’Aquin aujourd’hui, Desclée de Brouwer, Paris 1963, 51: «L’essence, avons-nous dit, est la première expression de l’être en tout ce qui est. Or l’essence ne constitue qu’en distinguant et ne distingue qu’en constituant. Elle implique dès lors, et nécessairement, une marge d’altérité, un horizon qui l’enrobe de tout ce qui n’est pas elle. La négation, en tant que division, n’est donc pas simple privation. Elle fonde un univers qui ne serait pas un dans le divers qu’elle introduit».
[4] Cf. Philipp W. ROSEMANN, Omne ens est aliquid, Introduction à la lecture du «système» philosophique de saint Thomas d’Aquin, Éditions Peeters, Louvain Paris 1996, 51: «Un étant est quelque chose ou une chose (unum) seulement en étant “un autre ‘quoi’”, une autre chose (aliud quid) – par quoi il faut entendre: en étant une autre chose que les autres choses, c’est-à-dire en n’étant pas autre qu’il n’est… Pour être, l’étant doit alors à la fois rester lui-même et se distinguer par rapport aux autres. Or un étant ne peut se distinguer par rapport aux autres que s’il s’y rapporte, c’est-à-dire s’il sort de son “en-soi”, s’éloigne pour ainsi dire de lui-même et s’aliène, voire devient “autre” que lui-même».
[5] CG I, c. 20 n. 27 (Marietti, n. 179).
[6] Cf. Heinz SCHMITZ, «Un transcendantal méconnu», in Cahiers Jacques Maritain 2 (1981), 21-51. Leggiamo a p. 41 : «L’Aliquid exprime l’être de chaque étant ; non certes l’être comme présenté purement et simplement par le concept d’être, mais l’être comme connotant la relation d’altérité. Cette relation que notre esprit établit en comparant les êtres entre eux, doit être comprise comme une condition requise du côté de notre pouvoir intellectif afin qu’il puisse saisir l’être lui-même comme Aliquid. Dès lors que cette condition est réalisée, l’être lui-même se manifeste comme une perfection chaque fois originale et partout unique. Affirmer que l’être est quelque chose, qu’il est Aliquid, ne signifie nullement que la perfection d’être exige de soi une pluralité de réalisations. S’il n’y avait qu’un seul être, il serait encore Aliquid, c’est-à-dire nécessairement autre que tous les êtres possibles, et en ce sens nécessairement unique».
[7] Cf. Aristotele, Metafisica Ζ, 3, 1029 a 30.
[8] CG II, c. 21 n. 9 (Marietti, n. 977).
[9] Cf. Aristotele, Metafisica Ζ, 7, 1032 a 14-15: « τὸ δε τὶ λέγω ϰαθ’ ἑϰάστην ϰατηγορίαν».
[10] Sententia super Metaphysicam VII, lc. 6 n. 3 (Marietti, n. 1383).

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