Lo statuto
trascendentale dell’aliquid è ancora
più delicato di quello della res,
giacché san Tommaso lo tematizza in maniera esplicita fra le nozioni
convertibili con l’ente soltanto nell’articolo iniziale del De veritate:
Si autem
modus entis accipiatur secundo modo, scilicet secundum ordinem unius ad
alterum, hoc potest esse dupliciter. Uno modo secundum divisionem unius ab
altero et hoc exprimit hoc nomen aliquid: dicitur enim aliquid quasi aliud
quid, unde sicut ens dicitur unum in quantum est indivisum in se ita dicitur
aliquid in quantum est ab aliis divisum[1].
Colpisce il collegamento fra lo aliquid
e lo unum, che nasce dalla loro
comune matrice, cioè dalla nozione di divisione. Posto infatti che hoc ens non est illud ens, il primo ente
si rivela indiviso in sé, mentre il secondo viene
espressamente diviso dal primo. Aliquid
esprime quindi il rapporto di alterità che risulta, nell’ente, dal paragone con
altri enti.
Quale sarà lo statuto
epistemologico ed ontologico di questa divisio
ab altero? Visto il silenzio dell’Aquinate su questo preciso problema, è
opportuno consultare il parere dei suoi interpreti. In maniera analogicamente
simile a quella proposta per la res che
egli metteva in rapporto polare allo ens,
Jan Aertsen vede nello aliquid il
trascendentale correlativo dello unum,
in base ad una notazione molto interessante della Quaestio disputata De anima: «Unumquodque enim in quantum est unum,
est in se indiuisum et ab aliis distinctum»[2]. Capito in
questa ottica, lo aliquid sembra
ridursi ad un’implicazione dell’unum,
benché l’autore preferisca non assumere una posizione chiara in merito. Anche
Stanislas Breton, in un saggio molto stimolante sulla genesi dei
trascendentali, suggerisce che l’aliquid
prende posto in una costellazione dove l’autonomia gli viene negata. Infatti,
esso sarebbe una conseguenza della diremtion
operata negli enti dall’essenza, la quale non può costituire un ente senza
distinguerlo dagli altri. Così l’aliquid
si ricollegherebbe al diversum a sua
volta postulato dall’unum in seguito
alla res[3]. La difficoltà
comune, mutatis mutandis, a queste
due posizioni, risiede nel rifiuto di tenere conto della ratio propria che oppone comunque lo aliquid all’uno: essendo quest’ultimo una proprietà trascendentale,
perché non lo sarebbe quello, che vi si oppone in maniera polare come lo indivisum dal distinctum ab aliis?
È proprio in questa prospettiva
che Philip Rosemann coglie l’aliquid
all’interno di una potente dialettica dell’identità e dell’alterità, che
sarebbe la cornice del «sistema» ontologico tomistico, sbaratto per
indicarne l’apertura trascendente. Per essere, l’ente deve sì essere sé stesso;
ma ciò passa attraverso il distinguersi dagli altri, e quindi attraverso
l’essere altro degli altri; pertanto, l’ente media sé stesso grazie al suo
rapporto all’altro che gli conferisce la sua propria identità. L’aliquid, speculativamente e non solo
etimologicamente letto come aliud quid,
diventa allora il perno di tutta l’ontologia, giacché la verità dell’ente
consiste, in ultima analisi, nel suo essere in rapporto ad altro[4]. Da questa
ipotesi scaturisce una concezione fortemente dinamista dell’ente, che
costituisce sé stesso uscendo da sé. Ora sebbene troviamo dal Rosemann sviluppi
assai interessanti sulla necessaria connessione fra l’ente e la sua
operatività, egli ci sembra non sufficientemente onorare il principio secondo
il quale «esse est aliquid fixum et quietum in ente»[5], per cui le
proprietà dell’ente, in quanto consecutive al suo esse costitutivo, debbono trascendere la mutabilità: come l’unità,
la verità o la bontà di un ente qualunque, sostanziale o accidentale, non sono
assoggettate al cambiamento, così anche deve essere il «qualcosa».
Perciò altri autori
concedono allo aliquid una specifica additio rationis che lo contraddistinguerebbe
dall’ente senza compromettere la stabilità di quest’ultimo. In un articolo
monografico dedicato a questo problema, Heinz Schmitz insisteva
sull’originalità dell’aliquid
rispetto all’unum, nonché sulla sua
indipendenza rispetto alla molteplicità reale degli enti. Per questo studioso,
che riconosce il suo debito nei confronti di Jacques Maritain e di Giovanni di
San Tommaso, si deve accuratamente distinguere fra la nostra conoscenza dell’aliquid da una parte, e il suo
costitutivo formale d’altra parte. Nell’ordine della scoperta, la nozione di aliquid ci viene svelata a partire dal
giudizio hoc non est illud che
presuppone, a sua volta, la pluralità reale degli enti, e che ci conduce a
intuire in questo ente «qualcosa» di diverso di quell’altro ente. In questo
modo, arriviamo alla nozione di aliquid,
che comprende la nozione di ente e una relazione di ragione di alterità
rispetto ad ogni «altro» ente. Però, nell’ordine dell’essere, questa alterità
non presuppone necessariamente l’esistenza reale di altri enti: infatti, se ci
fosse un solo ente, questo sarebbe ancora altro che tutti gli enti
semplicemente possibili, e di conseguenza non lascierebbe di essere aliquid[6]. Questo respectus è quindi diverso dall’unità,
che riguarda l’ente in sé, e si aggiunge all’ente indipendentemente dalla
molteplicità effettiva degli enti. Lo Schmitz ci sembra aver giustamente colto
l’irriducibilità dell’aliquid
rispetto alle altre nozioni convertibili con l’ente, nonché aver visto bene il
suo radicamento nella singolarità dello esse
proprio di ente. Vorremmo tuttavia evitare il giro che fa la sua dimostrazione attraverso
il puro possibile, perché connotando l’ente un rapporto costitutivo allo esse che è atto, la giustificazione
delle passiones entis deve ugualmente
fondarsi sull’ente in atto.
Occorre ripartire
dalla caratterizzazione dell’aliquid
come ciò che è «ab aliis divisum». Questa separazione ci viene rivelata in un
giudizio negativo, mediante il quale l’intelletto coglie un rapporto di
alterità fra un ente a e un ente b. Siccome un tale rapporto di
non-identità non connota alcuna dipendenza di a rispetto a b, né di b rispetto a a, la relazione così stabilita è di pura ragione. Se i due estremi
sono reali, la relazione esprime la diversità nel possesso dell’essere da parte
di a e da parte di b: il modo in cui a è non è il modo in cui b,
da canto suo, è. Ciascuno è un quid,
cioè una res che riceve l’essere
secondo la sua propria misura; e ciascuno è per l’altro un aliud quid, cioè una res
la cui misura di essere non è quella dell’altro. Se togliamo uno degli estremi,
ogni ente rimane un quid virtualmente
altro di ogni altro quid, in virtù
della singolarità del suo essere. Questa proprietà riguarda sopratutto la
sostanza, giacché l’essenza reale che misura l’essere di ognuna è irripetibile:
nelle sostanze composte l’essenza è certamente universale in sé quanto alle sue
note costitutive, ma non si dà mai realmente senza l’individuazione materiale;
nelle sostanze separate, la forma sussistente è di per sé individuale; e in
Dio, lo Esse Subsistens non può
essere che unico. Perciò, già lo Stagirita caratterizzava la sostanza
individuale in atto come τόδε τι[7],
espressione che Guglielmo di Moerbeke tradusse con hoc aliquid, e che significa alcunché di determinato; ora essendo
questa determinazione, in ultima analisi, singolare nell’ente reale, si deve
dire che «secundum quod est hoc aliquid, unumquodque est ab alio distinctum»[8]. Successivamente,
si può estendere analogicamente la nozione di hoc aliquid alle categorie accidentali, sulla scia di una
indicazione offerta dallo stesso Aristotele che accenna chiaramente alla sua
trascendentalità[9]:
Hoc enim quod dixit aliquid, vel
significat « hoc », idest substantiam, aut quantum, aut quale, aut quando, vel
aliquod aliud praedicamentum[10].
Così, il trascendentale aliquid
si ricollega allo hoc aliquid, ed
evidenzia, in tomismo, la singolarità di ogni ente, grazie alla quale esso è
virtualmente altro di ogni altro ente. Se volessimo formalizzare questa passio entis, diremmo che si tratta
della relazione di ragione grazie alla quale ogni ente fonda virtualmente un
giudizio di distinzione rispetto ad ogni altro ente.
[1] QD De veritate, q. 1 a . 1c.
[2] QD De anima, q. 3c. Cf. Jan AERTSEN, Medieval Philosophy
and the Transcendentals…, 223: «Every being is a “thing”, for it has
through its essence or quiddity a stable and determinate mode of being. Every
determination includes a negation. This being is not that being: they are
opposed, not as beings as such but insofar as they heve determinate modes of
being. Only if “being” is considered as “thing” can one being be formally
divides from another being. Our conclusion is that the transition from the
negation of being to the division in Thomas’s account of the primary notions is
only comprehensible if the transcendentals res
and aliquid are taken into
consideration».
[3] Cf. Stanislas BRETON, «L’idée de transcendantal et la genèse des transcendantaux chez saint Thomas
d’Aquin», in AA.VV., Saint Thomas
d’Aquin aujourd’hui, Desclée de Brouwer, Paris 1963, 51: «L’essence,
avons-nous dit, est la première expression de l’être en tout ce qui est. Or
l’essence ne constitue qu’en distinguant et ne distingue qu’en constituant.
Elle implique dès lors, et nécessairement, une marge d’altérité, un horizon qui
l’enrobe de tout ce qui n’est pas elle. La négation, en tant que division,
n’est donc pas simple privation. Elle fonde un univers qui ne serait pas un dans le divers qu’elle introduit».
[4] Cf. Philipp W. ROSEMANN, Omne ens est
aliquid, Introduction à la lecture du
«système» philosophique de saint Thomas d’Aquin, Éditions Peeters, Louvain
Paris 1996, 51: «Un étant est quelque
chose ou une chose (unum) seulement en étant “un autre
‘quoi’”, une autre chose (aliud quid) – par quoi il faut entendre:
en étant une autre chose que les autres
choses, c’est-à-dire en n’étant pas autre qu’il n’est… Pour être, l’étant doit alors à la fois
rester lui-même et se distinguer par rapport aux autres. Or un étant ne peut se
distinguer par rapport aux autres que
s’il s’y rapporte, c’est-à-dire s’il
sort de son “en-soi”, s’éloigne pour ainsi dire de lui-même et s’aliène, voire
devient “autre” que lui-même».
[5] CG I, c. 20 n. 27 (Marietti, n. 179).
[6] Cf. Heinz SCHMITZ, «Un transcendantal méconnu», in Cahiers
Jacques Maritain 2 (1981), 21-51. Leggiamo a p. 41 : «L’Aliquid exprime l’être de chaque étant ; non certes l’être comme présenté
purement et simplement par le concept d’être, mais l’être comme connotant la
relation d’altérité. Cette relation que notre esprit établit en comparant les
êtres entre eux, doit être comprise comme une condition requise du côté de
notre pouvoir intellectif afin qu’il puisse saisir l’être lui-même comme Aliquid. Dès lors que cette condition
est réalisée, l’être lui-même se manifeste comme une perfection chaque fois
originale et partout unique. Affirmer que l’être est quelque chose, qu’il est Aliquid, ne signifie nullement que la
perfection d’être exige de soi une pluralité de réalisations. S’il n’y avait
qu’un seul être, il serait encore Aliquid,
c’est-à-dire nécessairement autre que tous les êtres possibles, et en ce sens
nécessairement unique».
[7] Cf. Aristotele,
Metafisica Ζ, 3, 1029 a 30.
[8] CG II, c. 21 n. 9 (Marietti, n. 977).
[9] Cf. Aristotele,
Metafisica Ζ, 7, 1032 a 14-15: « τὸ δε τὶ λέγω ϰαθ’
ἑϰάστην ϰατηγορίαν».
[10] Sententia
super Metaphysicam VII, lc. 6 n. 3 (Marietti, n. 1383).
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