Nonostante
la familiarità che abbiamo con la nozione di res, o forse proprio per questo motivo, il suo preciso rapporto
alla ratio entis non è facile da
discernere. Certamente l’Aquinate la annovera esplicitamente fra i transcendentia in due luoghi ben noti ai
tomisti[1].
Però, è un fatto che molti elenchi delle proprietà dell’ente non fanno alcuna
menzione della res, e che nessun
testo chiarisce, neanche genericamente, il tipo di additio che la differenzierebbe, per noi, dallo ens. Ciò consentì a diversi studiosi,
come ad esempio il P. Abelardo Lobato, di ritenere che la res fosse un trascendentale solo in quanto è convertibile con
l’ente, ma che tuttavia non fosse, in senso rigoroso, un per se accidens entis, perché sarebbe un semplice sinonimo che non aggiungerebbe
alcuna relatio rationis alla nozione
di ente, e che dunque non manifesterebbe nulla di nuovo all’intelletto[2].
Dal punto di vista testuale, questa esegesi sembra un può forzata, giacché i
concetti di ens e di res si distinguono in virtù dai due
principi che, nell’ente per partecipazione, sono realmente diversi. Tommaso lo
afferma nella sua gioventù come nella sua maturità:
hoc nomen ens et res differunt secundum quod est duo
considerare in re, scilicet quidditatem et rationem ejus, et esse ipsius; et a
quidditate sumitur hoc nomen res[3]
hoc nomen Res imponitur a quidditate tantum ; hoc
vero nomen Ens imponitur ab actu essendi; et hoc nomen Unum, ab ordine vel
indivisione. […] Unde ista tria, res, ens, unum, significant omnino
idem, sed secundum diversas rationes[4].
Il senso ovvio del secondo brano appena citato è che la
cosa, l’ente, e anche l’uno, significano la stessa realtà, vale a dire ciò che
è, ma sotto diverse rationes, per cui
non possiamo negare che ci sia una diversità nozionale fra l’ente e la cosa. È
tuttavia vero che la res,
diversamente da tutti gli altri trascendentali, non fa appello ad alcuna nozione
che non sia già presente nella descrizione elementare e sintetica dello ens come id quod est:
‘ens’ nichil aliud est quam ‘quod
est’, et sic uidetur <et> rem significare, per hoc quod dico <‘quod’,
et esse, per hoc quod dico> ‘est’[5].
Il lemma |ens| significa
dunque la cosa insieme al suo essere in atto; però la derivazione stessa del
termine a partire dal verbo esse
(senza entrare nella controversia scolastica fra lo ens ut
nomen e lo ens ut participium) fa
sì che questo termine enfatizza lo est,
e lascia il quod in secondo piano. All’opposto,
il termine |res| esprime, anche nel
linguaggio comune, la quiddità ossia, in primo approccio, il contenuto dell’ente,
il quale è per definizione inseparabile dall’essere che ne è il contenente.
Perciò, il passaggio dall’ens alla res non si fa attraverso una terza
nozione, come avviene successivamente con la privatio divisionis che media l’ente e l’uno, poi a fortiori con l’intelligibilità e
l’appetibilità che costituiscono il vero e il bene: qui, occorre solo mostrare
che l’ente non può non avere una determinazione che indica ciò che esso è. In
questa prospettiva, la res appare
come il risultato della prima riflessione che si può istituire sull’ente,
quella che nel quod est oggettiva il quod dal quale l’ente riceve la sua
determinazione specifica[6].
Questo
ritorno sul contenuto dell’ente implica, o no, una vera additio rationis, che nella fattispecie deve essere una relatio rationis, poiché non si dà nulla
di negativo in questo caso? Siccome il legame fra la cosa e l’ente è totalmente
interno a questo ultimo, il modello più vicino al problema, nel corpus thomisticum, è quello della
relazione di identità, di cui l’Aquinate ci dice che è di ragione, perché risulta
dalla duplicazione, nella riflessione, di un oggetto in sé uno[7].
Così diciamo che qualcosa è lo stesso di sé stesso, considerando che l’ente è
una sola cosa con sé stesso, ed operando allora un paragone dell’ente con sé
grazie all’uno. Questa procedura sbocca sulla nozione di idem, nella quale il Dottore Comune vede, insieme al diversum, una proprietà disgiuntiva
dell’ente in quanto ente[8].
Il rapporto fra lo ens e la res ha una certa somiglianza con l’identità,
in quanto tutte e due le nozioni si lasciano analizzare come id quod est, cosicché i due estremi del
rapporto si risolvono nella stessa descrizione; però il loro rapporto non è
formalmente una relazione di identità, in quanto il passaggio dall’ente alla
cosa viene operato, nel primo articolo del De
veritate[9],
anteriormente alla nozione di uno, e quindi di quella di stesso, senza la quale
non c’è identità in senso stretto. Infatti, la res non fa che esplicitare il contenuto dello ens, manifestando che lo esse
di questo ultimo è determinato dalla propria essenza: il quod quid erat esse, che costituisce la sostanza, ma che può essere
analogicamente esteso agli accidenti, non è altro che la misura di essere per
ciò che è. Se operiamo una duplicazione, in seno all’unico id quod est, fra lo est
da una parte, e il quod d’altra parte[10],
possiamo considerare che la nozione di res
risulta dal respectus che collega l’ente
in quanto ente alla sua determinazione, cioè lo esse in actu dello ens al
suo quid est. Così la res andrebbe definita come ens quid, per analogia con l’unum, che è invece lo ens indivisum.
[1] Cf. Scriptum super libros Sententiarum I, d.
2 q. 1 a. 5 ad 2: «res est de transcendentibus, et ideo se habet communiter ad
absoluta et ad relata»; ST I, q. 39 a. 3 ad 3: «hoc nomen res est de
transcendentibus».
[2] Cf. Abelardo LOBATO, Ontologia, Pars Prima, Pontificia Università di San Tommaso, Roma
19912, 187-189.
[3] Scriptum super libros Sententiarum I, d. 25 q. 1 a. 4c. Cf. op. cit. I, d. 8 q. 1 a. 1c.
[4] Sententia super Metaphysicam IV, lc. 2 n. 6 (Marietti, n. 553).
[5] Expositio Libri Peryermenias I, lc. 5 l. 363-365. Abbiamo riportato
il testo esattamente come viene ricostituito dalla Leonina.
[6] Così va capita la nota formula
di Sententia super Metaphysicam IV,
lc. 2 n. 11 (Marietti, n. 558): «Esse enim rei quamvis sit aliud ab eius
essentia, non tamen est intelligendum quod sit aliquod superadditum ad modum
accidentis, sed quasi constituitur per
principia essentiae. Et ideo hoc nomen Ens quod imponitur ab ipso esse,
significat idem cum nomine quod imponitur ab ipsa essentia» (corsivo nostro).
[7] Cf. QD De potentia, q. 7 a. 11c: «Quandoque vero accipit unum ut duo,
et intelligit ea cum quodam ordine: sicut cum dicitur aliquid esse idem sibi;
et sic talis relatio est rationis tantum».
[8] Cf. Super Boetium De Trinitate, q. 4 a . 1 ad 3, già citato supra nella nota 9. Vedasi pure Sententia
super Metaphysicam X, lc. 4 n. 35 (Marietti, n. 2015): «Sed in omnibus
entibus dicitur idem aut diversum. Omne enim quod est ens et unum in se, comparatum alteri,
aut est unum ei, et sic est idem; aut non unum, aptum natum esse unum, et sic
est diversum».
[9] Cf. QD De veritate, q. 1 a. 1c: «non autem
inuenitur aliquid affirmatiue dictum absolute quod possit accipi in omni ente
nisi essentia eius secundum quam esse dicitur, et sic imponitur hoc nomen res,
quod in hoc differt ab ente, secundum Auicennam in principio Metaphysicae, quod
ens sumitur ab actu essendi sed nomen rei exprimit quidditatem uel essentiam
entis».
[10] Nello stesso senso,
cf. Ludger OEING-HANHOFF, «Res comme concept
transcendantal et sur-transcendantal», in M. FATTORI – M. BIANCHI (ED.), Res, III°
Colloquio Internazionale, Roma, 7-8 gennaio 1980, Edizioni dell’Ateneo, Roma
1982, 287: «Chez S. Thomas la signification exacte du terme ‘res’ est
inséparable de la conception originale de l’étant. Selon lui, le concept ‘étant’
exprime id quod est, c’est-à-dire une
essence individuelle en tant qu’elle est ou accomplit [ testo originale :
“accompie”] l’acte d’être. Du côté de l’acte d’être ce qui est, est appelé
‘étant’ (ens), du côté de l’essence
il est appelé ‘res’».