Ma che cosa è, per il filosofo, la
partecipazione di cui abbiamo evidenziato un capitale analogon magisteriale nel messaggio precedente? Cerchiamo ora di
offrirne una sintesi ai nostri lettori, che possa essere utile sia al metafisico che al teologo.
Partecipare, secondo la
ricostruzione etimologica dell’Aquinate, significa avere o prendere parte a
qualcosa: «Est autem participare quasi partem capere»[1]. Una partecipazione si dà pertanto quando un soggetto ha
qualche «parte» di una perfezione che non possiede in modo totale ed esclusivo.
Dunque si deve distinguere due estremi nella relazione di partecipazione, che
sono il soggetto partecipante e la perfezione partecipata. A questa ultima
spettano poi due stati, a seconda che viene considerata in sé stessa, come
totalità, oppure nel partecipante, appunto come «parte». Perciò un rapporto di partecipazione
richiede necessariamente tre istanze: il partecipante al quale si attribuisce
una formalità o un atto in maniera parziale; la perfezione partecipata in
quanto si dice intrinsecamente e quindi parzialmente del partecipante; e la
perfezione partecipata in quanto viene contemplata in sé in maniera totale ed
in qualche modo estrinseca al partecipante.
Ora le
perfezioni partecipabili si dividono in due classi assai differenti, a seconda
che vengono predicate dei singoli partecipanti univocamente o analogicamente. L’esistenza
stessa del primo tipo di partecipazione può destare qualche sorpresa. Sappiamo
infatti che una nozione univoca si attribuisce nello stesso modo a tutti i suoi
inferiori, sia che si tratti di una specie rispetto agli individui, oppure di
un genere rispetto alle sue specie. Quindi sembra che non si dà, in questo
caso, un vero rapporto di partecipazione fra il soggetto ed il predicato,
perché tutta la perfezione significata da questo viene ricevuta da quello, e
non soltanto un parte: che un singolare tiglio sia grande o piccolo, vecchio o
giovane, esso possiede la natura del tiglio né più né meno di un altro. In
realtà, questa stretta unità nei molteplici vale certamente per la ratio dell’universale univoco, ma non
completamente per le res alle quali esso
viene attribuito. Fra le specie di un genere, l’identità generica formale comporta
allo stesso tempo una gerarchia specifica reale, per cui le specie animali non
hanno tutte lo stesso spessore ontologico: «omnia animalia sunt aequaliter
animalia, non tamen sunt aequalia animalia, sed unum animal est altero maius et
perfectius»[2].
Mutatis mutandis, lo stesso accade
con il rapporto degli individui sussistenti alla loro specie[3].
Oltre questa giustificazione comune del ricorso alla partecipazione nell’ambito
delle formalità univoche, si deve poi ricordare che già lo Stagirita, nelle Categorie, sosteneva che certe categorie
o sottocategorie ammettono il più e il meno, senza lasciare di avere una ratio essenzialmente una: alcuni tipi di
relazione, la prima e la terza specie di qualità, l’azione e la passione[4].
Gli abiti e le qualità sensibili, in particolare, hanno sì la stessa essenza,
ma vengono ricevute dal soggetto in cui ineriscono secondo una intensità
maggiore o minore: perciò una superficie sarà più o meno bianca a seconda del
modo in cui la superficie partecipa alla bianchezza, e una persona sarà più o
meno temperante a secondo del modo in cui il suo concupiscibile partecipa alla
temperenza. A questa variazione della misura di partecipazione che proviene dal
soggetto, alcuni abiti, fra i quali le scienze, ne aggiungono un’altra che
deriva dal loro oggetto materiale. Per questa ragione, un matematico può essere
più o meno esperto di un altro sia perché il suo intelletto possibile è più o
meno ricettivo nei confronti della seconda scienza speculativa, sia anche
perché egli coglie un maggior o minor numero di conclusioni materiali a partire
dallo stesso oggetto formale della matematica[5].
Da
questo breve abbozzo risulta che una formalità colta attraverso una nozione
univoca può essere partecipata in maniera differenziata nelle cose in cui viene
realizzata in tre modi diversi ma non esclusivi: o perché, pur avendo
eventualmente la stessa intensità, la perfezione in causa viene comunque individualizzata
dai suoi soggetti; o perché la sua intensità varia a seconda dei suoi soggetti;
o ancora perché la sua intensità cambia anche a seconda dei suoi oggetti
materiali. Sottolineiamo che, in tutti questi casi, la perfezione partecipata
non esiste al di fuori dei soggetti partecipanti, cosicché il partecipato
estrinseco totale si dà soltanto nell’intelletto.
Le
categorie, e quindi tutte le formalità oggettivate in nozioni univoche, sono
delle contrazioni dello ens, che le
precede e le trascende, per cui appartiene ad un altro ordine, quello
trascendentale. Esso si distingue da quello predicamentale non soltanto a causa
della riduzione noetica di tutte le nozioni alla ratio entis, ma sopratutto a causa della fondazione metafisica di
tutte le perfezioni, formali e reali, nel principio risolutivo dell’ente che è
lo esse in senso forte, ossia l’atto
di essere[6].
Non potendo, in questa sede, percorrere tutta la via che porta a questa ultima resolutio dell’ente in quanto ente, ne
assumiamo i risultati più significativi per la nostra problematica, in un
prospetto dunque più sapienziale che scientifico[7].
Per
l’Aquinate, la frontiera ontologica primordiale non è più quella che separa il
mondo materiale da quello immateriale, come lo pensavano le metafisiche socratiche,
ma quella molto più radicale che stacca l’Essere per essenza, che è Dio, dagli
enti per partecipazione, che sono gli enti creati (i quali ovviamente si
dividono poi in corporei e spirituali). In questo quadro, lo statuto ontologico
fondamentale di un ente si definisce a partire dal suo rapporto all’atto di
essere, giacché «hoc vero nomen Ens, imponitur ab actu essendi»[8].
Quindi la partizione originaria della perfezione ossia dell’attualità si fa
ormai fra il maxime ens che è il suo
essere, e gli altri enti, che hanno parte all’essere, ma non sono il loro
essere. In un secondo momento, consecutivo alla creazione, si distingue negli
enti quelli che in senso forte hanno l’essere in sé stessi, e perciò sono
sostanze, e quelli che invece hanno l’essere in un altro, e sono allora
accidenti, fra i quali ci sono quelli formali statici e quelli operativi
dinamici. Più precisamente, il lemma ens
scomponendosi in id quod est[9],
possiamo cogliere in ognuna di queste tre parole una istanza della ratio entis integralmente considerata:
in quanto l’ente «è» (est), esso
implica una certa attualità, a sua volta fondata nell’atto di essere; in quanto
l’ente è un «che» (quod), esso
possiede una certa essenza, intesa come determinazione della sua attualità; e
in quanto l’ente è un «ciò» (id),
esso è il soggetto dell’essere in atto in causa, oppure rimanda ad un soggetto
in cui tale ente inerisce. Tornando sulla costituzione ontologica propria ad
ogni tipo di ente, ci troviamo allora di fronte a tre configurazioni diverse
delle tre istanze che abbiamo riperite.
• L’Essere sussistente puro
Nel corpus thomisticum, Dio viene
caratterizzato quattordici volte come ipsum
esse subsistens. Questi tre termini cumulati caratterizzano molto bene lo
statuto ontologico proprio a Dio. Egli è quindi esse, in tutta la sua virtus
essendi, senza alcuna contrazione o restrizione. Perciò, egli è pure ipsum esse, non avendo altra essenza o
quiddità che l’essere stesso:
Esse autem Dei, cum non sit in aliquo receptum, sed sit esse purum, non limitatur
ad aliquem modum perfectionis essendi, sed totum esse in se habet; et sic sicut
esse in universali acceptum ad infinita se potest extendere, ita divinum esse
infinitum est[10].
Questo Essere non essendo ricevuto in una essenza o in un
soggetto da lui diverso, egli è inoltre ipsum
esse subsistens, perché sussiste in sé stesso. In Dio vi è quindi una
totale identità ontologica fra l’essere, l’essenza e la sussistenza.
• L’ente per partecipazione sussistente
Lo esse subsistens non potendo essere che uno
solo, ogni altro ente è un ens per
participationem, nel quale vi è una differenza ontologica fra ciò che è, da
una parte, e l’essere grazie al quale è ciò che è, d’altra parte. In senso
forte, l’ente per partecipazione è la sostanza creata, che risulta dalla
composizione fra un atto di essere partecipato, da un lato, e una natura
partecipante d’altra parte:
Manifestum est enim quod primum ens, quod Deus est, est actus infinitus
utpote habens in se totam essendi plenitudinem, non contractatam ad aliquam naturam
generis uel speciei; unde oportet quod ipsum esse eius non sit esse quasi
inditum alicui nature que non sit suum esse, quia sic finiretur ad illam
naturam: unde dicimus quod Deus est ipsum suum esse. Hoc autem non potest dici
de aliquo alio: sicut enim impossibile est intelligere quod sint plures
albedines separatae – set si esset albedo separata ab omni subiecto et
recipiente, esset una tantum -, ita impossibile est quod sit ipsum esse
subsistens nisi unum tantum. Omne igitur quod est post primum ens, cum non sit
suum esse, habet esse in aliquo receptum, per quod ipsum esse contrahitur: et
sic in quolibet creato aliud est natura rei que participat esse et aliud ipsum
esse participatum. Et cum quelibet res participet per assimilationem primum
actum in quantum habet esse, necesse est quod esse participatum in unoquoque
comparetur ad naturam participantem ipsum sicut actus ad potentiam[11].
Lo esse della
sostanza categoriale viene dunque ricevuto e misurato da una essenza che
esercita la doppia mansione di soggetto recipiente e di principio di
specificazione. Perciò, l’essenza creata deve essere considerata da due punti
di vista diversi. In sé stessa, essa è una potentia
essendi correlativa allo actus
essendi, entrambi essendo i principi correlativi che fanno essere l’ente
sostanziale, ma che non sono enti. Se si considera invece l’essenza
attualizzata, allora essa non è più potenza, ma è già l’essenza reale alla
quale spetta la sua attualità formale propria. Questa essenza realizzata è
propriamente «id quod habet esse», e quindi sussiste perché ha l’essere in sé e
non in altro, senza che occorra postulare alcuna terza istanza a questo scopo.
• L’ente per partecipazione inerente
La
sostanza creata in atto è quindi la sintesi di un atto di essere e di una potenza
di essere, per cui essa si trova simultaneamente, ma non sotto lo stesso
rapporto, in atto e in potenza. Ora il proprio della potenza è di contrarre,
mentre quello dell’atto è di espandersi: «natura cuiuslibet actus est, quod
seipsum communicet quantum possibile est»[12].
Da questa polarità provengono necessariamente, nel supposito creato, gli
accidenti propri, di cui la sostanza è il principio attivo in quanto è in atto,
mentre ne è il principio passivo mentre è in potenza. Sebbene l’Aquinate non
operi esplicitamente questa riduzione dell’attualità accidentale a quella dello
esse fontale, egli vi si avvicina
tuttavia assai :
Actualitas per prius invenitur in subiecto formae accidentalis, quam in
forma accidentali: unde actualitas formae accidentalis causatur ab actualitate
subiecti. Ita quod subiectum, inquantum est in potentia, est susceptivus formae
accidentalis: inquantum autem est in actu, est eius productivum[13].
Infatti, se recepiamo la tesi secondo cui lo esse è l’attualità di tutti gli atti[14]
col dovuto rigore epistemologico, dobbiamo allora ricondurre apoditticamente
l’attualità del soggetto, che causa quella della forma accidentale, all’atto
originario di essere. Ne risulta che l’essere in atto dell’accidente è altro da
quello della sostanza, ma ne deriva; similmente, la forma accidentale
differisce dall’essenza sostanziale, ma inerisce nella sostanza.
L’ontologia
sommaria che abbiamo appena abbozzata fa apparire, nell’ente creato, due
rapporti di partecipazione analogica, diversi ma subordinati fra di loro. Il
primo fu esplicitamente insegnato dall’Aquinate dall’inizio alla fine della sua
carriera, e riguarda la dipendenza costitutiva che unisce la sostanza creata al
Creatore. Essa si compone di un partecipante, l’essenza sostanziale creata, e di
un partecipato ad essa immanente, l’atto di essere creato. Quest’ultimo viene
detto partecipato perché partecipa ad un partecipato estrinseco e trascendente,
che è l’Essere increato, secondo la misura specificante data dall’essenza. La
metafisica coglie questa rapporto di partecipazione estrinseca con la resolutio secundum rem, grazie alla
quale si raggiunge il principio trascendente dell’ente in quanto ente.
Il
secondo rapporto di partecipazione è meno esplicito nel corpus thomisticum, ma è coerente con il primato dell’atto di
essere partecipato. Infatti,
«ipsum esse est actus ultimus qui participabilis est ab omnibus ; ipsum
autem nichil participat»[15].
In questa ottica, i diversi livelli di attualità del supposito non sono
altro che delle partecipazioni all’atto originario di essere concatenate fra di
loro: l’atto di essere viene partecipato direttamente dalla sostanza in atto,
alla quale partecipano le forme accidentali ed in particolare le potenze
operative del vivente, all’attualità virtuale della quali, a sua volta,
partecipano le operazioni. La metafisica oggettiva questo rapporto di
partecipazione intrinseca con la resolutio
secundum rationem, nella quale si analizza i principi immanenti dell’ente
in quanto ente.
All’opposto
di quanto accade per le perfezioni esprimibili con una nozione univoca, la
partecipazione all’essere si radica nella realtà propria del partecipato
estrinseco, cioè dello Ipsum esse
subsistens, attraverso gli anelli dello esse
immanente, della sostanza, delle forme accidentali e delle operazioni. Questa
catena di partecipanti e di partecipati presuppone ciò che Cornelio Fabro
chiama il «principio di emergenza dell’atto»:
poiché l’atto in quanto tale sta in se stesso come affermazione semplice ed
“emerge” perciò sulla potenza alla quale può andar unito, l’esse che è l’atto di essere, atto di
ogni atto e di ogni forma emerge su tutto l’ordine formale, su qualsiasi
essenza[16].
L’atto di essere supera quindi il piano delle forme, e
per questa ragione esso non viene assorbita dall’essenza che esso attua, ma
trapela per così dire al di là della sostanza, nelle proprietà accidentali
ordinate all’agire. La partecipazione manifesta così la generosità dello esse, che si fonda sulla sua
trascendenza relativa rispetto all’essenza, e che è proporzionale a questa
ultima. Tanto più aperta è l’essenza all’attuare dello esse, quanto più nobile sarà l’agire del soggetto così costituito: l’angelo
conosce ed ama Dio e sé stesso, mentre la rosa si limita a nutrirsi ed a
emanare il suo profumo. Ma qualunque sia il grado che l’ente occupa nella scala
degli enti, il suo atto di essere tenderà sempre a diffondersi in qualche
attività consecutiva alla sostanza e da essa misurata. Infatti, «agere autem,
quod nihil est aliud quam facere aliquid in actu, et per se proprium actus,
inquantum est actus»[17],
e questa proprietà concerne in primo luogo lo esse che è atto per antonomasia.
A questo
punto, si intuisce già che le diverse novità dottrinali che abbiamo elencate
nel Vaticano II troveranno nella metafisica della partecipazione, sopratutto
analogica, uno strumento particolarmente atto ad offrirne un’ermeneutica che ne
faccia capire l’armonia interna nonché il loro radicamento nel mistero di
Cristo in cui abita ogni pienezza[18].
Ma siccome abbiamo pure rilevato che il corpus
conciliare è stato non di rado oggetto di letture deformanti, conviene pure che
identifichiamo le possibili negazioni della partecipazione, che logicamente
conducono a tradire lettera e spirito dell’ultimo Concilio.
In
quanto tale, il partecipante si definisce per il suo rapporto al partecipato
estrinseco, che deve pertanto essere la perfezione partecipata al grado
massimo, realmente come l’Essere sussistente, o perlomeno intenzionalmente come
l’essenza universale e per sé univoca. Quindi se, lungi dall’emergere sopra i
partecipanti, il partecipato venisse intrinsecamente storicizzato, la
partecipazione perderebbe il suo fulcro e sparirebbe. Di conseguenza, i
partecipanti smetterebbero di essere tali, e lascerebbero il posto ad una molteplicità
sprovvista di principio di ordine ad essa superiore. Le singole componenti di
un tale tutto an-archico starebbero fra di loro in un rapporto di alterità
pura, che già Platone, nell’ottava ipotesi del Parmenide, riteneva autocontraddittorio:
Ancora una volta torniamo all’inizio per dire che cosa deve risultare se
l’Uno non è mentre gli Altri dall’Uno sono. – Diciamolo. – Dunque, gli Altri
non saranno Uno. – In effetti, come lo potrebbero? – Ma nemmeno molti: in
quelli che sono molti, deve esserci anche l’Uno. Se infatti nessuno di questi è
Uno, il totale è niente, e quindi non sono nemmeno molti. – Vero. – Se quindi
l’Uno non è negli Altri, gli Altri non sono né molti né uno. – Infatti, non lo
sono[19].
Per evitare questa implicazione, si potrebbe postulare
che gli elementi del tutto non distinguendosi più gli uni dagli altri in virtù
di riferimenti differenziati ad un primo emergente, essi convergano tuttavia
verso un medesimo «orizzonte», che fungerebbe allora da sostituto del
fondamento trascendente. È ciò che accade nel pensiero ermeneutico, là dove esso
si presenta come alternativo a quello metafisico. Ma siccome l’orizzonte
interpretativo viene strettamente legato alla temporalità, cosicché viene
addirittura rielaborato da ogni rilettura che riesce a dominare la cultura del
suo evo[20],
esso non costituisce mai un vero principio architettonico. Pertanto, fra ciò
che per noi sarebbe la dissoluzione delle parti nello pseudo tutto ermeneutico
determinato dallo Zeitgeist, da un
lato, e ciò che consideriamo invece come la loro necessaria risoluzione nella
loro ἀρχή emergente e trascendente, d’altro lato,
vediamo alla fine dei conti una insuperabile opposizione di contraddizione,
anche se essa non ci impedisce di integrare alcuni aspetti valorizzati
dall’altra parte, però in una configurazione globale toto caelo diversa.
A questa
negazione immanentista della partecipazione si oppone un’altra, che muove da
una falsa comprensione della trascendenza. Se ciò che si impone alla coscienza venisse
primariamente inteso come essenza, e non come ente, allora ci troveremo dinanzi
ad un universo di oggetti specifici di cui ognuno è o non è, ma non ammette
alcuna variazione secondo il più e il meno. Infatti, le essenze sono come dei
numeri, i quali cambiano specie se si aggiunge o si sottrae qualcosa alle loro
note costituenti, come nota giustamente lo Stagirita[21].
Quindi un’essenza può ammettere tutt’al più una partecipazione univoca, che
lascia intatte tutte quante le sue note definitorie; ma non può essere
sottomessa ad una partecipazione analogica, proprio perché l’analogia implica
una somiglianza relativa in una diversità essenziale. Perciò, un’essenza
formalmente considerata in quanto essenza starà alle altre essenze come l’Uno
rispetto agli Altri nella quarta ipotesi del Parmenide:
Diciamo pure dall’inizio, se l’Uno è, quali affezioni devono avere gli
Altri dall’Uno. – Diciamolo pure. – Allora l’Uno non è forse separato dagli
Altri e gli Altri dall’Uno? – Perché? – Perché in qualche modo non c’è una
realtà oltre a queste due che sia ulteriore all’Uno e agli Altri: quando si è
detto l’Uno e gli Altri si è significato tutto. – Tutto infatti. – Non vi è
quindi nient’altro di diverso da questi, in cui l’Uno e gli Altri possano
trovarsi insieme. – No, infatti. – L’Uno e gli Altri non sono mai insieme. –
Sembra di no. – Sono dunque separati? – Sì[22].
Così come gli Altri appaiono in questa ottica come
semplicemente altri, quindi separati dall’Uno, così anche le essenze specifiche
b, c, d, saranno
semplicemente altre e separate dall’essenza a.
Perciò, una metafisica essenzialista come quella di Suárez non vede nulla di
comune fra gli enti, se non il puro possibile, che può essere colto o in sé,
come ciò che è capace di esistere, oppure a partire dalla sua causa prima, come
ciò che Dio può produrre realmente[23].
In entrambi i casi, l’ente non è più ciò che ha parte allo esse, ma si riduce a ciò la cui esistenza non sarebbe
contraddittoria.
Contro la dissoluzione del partecipato nel divenire dei
partecipanti, l’Aquinate afferma vigorosamente l’immutabilità dell’atto di
essere, non solo in Dio, ma in ogni ente sostanziale: «Esse autem est aliquid
fixum et quietum in ente»[24];
e contro l’impossibilità (o l’irrilevanza) della partecipazione, egli asserisce
che «secundum rei veritatem causa prima est supra ens in quantum est ipsum esse
infinitum, ens dicitur autem id quod finite participat esse»[25].
Costituito da un atto di essere fisso che partecipa all’Essere divino secondo
la misura determinata dalla sua essenza, l’ente dispone di una certa virtus essendi proporzionata alla sua forma[26],
nella quale si radicano tutte le partecipazioni posteriori a quella della
sostanza stessa. In questa luce, la partecipazione si rivela come la colonna
sulla quale si regge sia la realtà che la scienza dell’essere, une colonna che
sale oltre i confini del creato.
[1] Tommaso d’Aquino, Expositio libri Boetii De ebdomadibus, lc. 2.
[2] Tommaso d’Aquino, QD De malo, q. 2 a .
9 ad 16.
[3] Cf. Tommaso d’Aquino, Sententia super librum De caelo et mundo I, lc. 19 n. 14: «Singula
autem individua rerum naturalium quae sunt hic, sunt imperfecta; quia nullum
eorum comprehendit in se totum quod pertinet ad suam speciem».
[4] Cf. Aristotele, Categorie 7, 6 b 19-27 (relazione); 8, 10 b 26 – 11 a 14 (qualità); 9, 11 b 1-8
(azione e passione).
[5] Cf. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, Ia-IIae, q. 52 a . 1c: «cum habitus et
dispositiones dicantur secundum ordinem ad aliquid, ut dicitur in VII
Physicorum, dupliciter potest intensio et remissio in habitus et
dispositionibus considerari. Uno modo, secundum se: prout dicitur maior vel
minor sanitas; vel maior vel minor scientia, quae ad plura vel pauciora se
extendit. – Alio modo, secundum participationem subiecti: prout scilicet
aequalis scientia vel sanitas magis recipitur in uno quam in alio, secundum
diversam aptitudinem vel ex natura vel ex consuetudine». Su tutta la questione
della partecipazione predicamentale, cf. Cornelio Fabro, La nozione
metafisica di partecipazione secondo S. Tommaso d’Aquino, [Opere Complete,
3], Editrice del Verbo Incarnato, Segni 2005, 143-181.
[6] Cf. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae I, q. 8
a . 1c: «Esse autem est illud quod est magis intimum
cuilibet, et quod profundius omnibus inest: cum sit formale respectu omnium
quae in re sunt».
[7] Nel nostro studio
Alain Contat, «L’étant, l’esse et la participation selon Cornelio
Fabro», Revue thomiste 111 (2011),
357-403, abbiamo esaminato le tappe della resolutio
metafisica in modo sistematico; poi in Id.,
«Esse, essentia, ordo. Verso una
metafisica della partecipazione operativa», Espíritu
61/143 (2012), 9-71, abbiamo cercato di evidenziare le implicazioni operative
della partecipazione trascendentale.
[8] Tommaso d’Aquino, Sententia super Metaphysicam IV, lc. 2 n. 6 (Marietti, n.
553).
[9] Cf. Tommaso d’Aquino, Expositio libri Boetii De ebdomadibus, lc. 2: «Set id quod est siue
ens, …».
[10] Tommaso d’Aquino, QD De potentia, q. 1
a . 2c.
[11] Tommaso d’Aquino, QD De spiritualibus creaturis, a. 1c.
[12] Tommaso d’Aquino, QD De potentia, q. 2
a . 1c.
[13] Tommaso d’Aquino, Summa theologiae I, q. 77 a . 6c.
[14] Cf. il celebre
brano di Tommaso d’Aquino, QD De potentia, q. 7
a . 2 ad 9: «hoc quod dico esse est actualitas omnium
actuum, et propter hoc est perfectio omnium perfectionum».
[15] Tommaso d’Aquino, QD De anima, q. 6 ad 2.
[16] Cornelio Fabro, Partecipazione e causalità secondo S. Tommaso d’Aquino, [Opere
Complete, 19], EDIVI, Segni 2010, 43.
[17] Tommaso d’Aquino, Summa theologiae I, q. 115 a . 1c.
[18] Cf. Col. 1,
19-20: «Perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza, e per mezzo
di lui riconciliare a sé tutte le cose».
[19] Platone, Parmenide, 165 e. Seguiamo il modo di
elencare le ipotesi proposto da Giovanni Reale in Platone, Tutti gli
scritti, Rusconi, Milano 1991, 375-376. Auguste Diès, in Platon, Œuvres complètes, t. VIII – 1, Parménide,
Les Belles Lettres, Paris 1959, 39 e 114, classifica questa ipotesi come nona
(ed ultima).
[20] Cf. ad esempio
Hans-Georg Gadamer, Verità e metodo, trad. it. a cura di
Gianni Vattimo, Bompiani, Milano 2000, 633: «In realtà, l’orizzonte del
presente è sempre in atto di farsi, in quanto noi non possiamo far altro che
mettere continuamente alla prova i nostri pregiudizi».
[21] Cf. Aristotele, Metafisica Η, 3, 1044 a 9-11: «E come il
numero non ha il più e il meno, così neppure la sostanza intesa nel significato
di forma».
[22] Platone, Parmenide, 159 b-c. Per Auguste Diès, op. cit., 36 e 104, si tratta della
quinta ipotesi.
[23] Cf.
Francisco Suárez, Disputationes metaphysicae, II, sect. 4 n. 7: «[...]
dicimus essentiam esse realem, quae a Deo realiter produci potest, et constitui
in esse entis actualis. Per intrinsecam autem causam non potest proprie haec
ratio essentiae explicari, quia ipsa est prima causa vel ratio intrinseca
entis, et simplicissima, ut hoc communissimo conceptu essentiae concipitur;
unde solum dicere possumus, essentiam realem, eam esse quae ex se apta est
esse, seu realiter existere».
[24] Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles I, c. 20 n. 27 (Marietti, n.
179).
[25] Tommaso d’Aquino, Super Librum De Causis, lc. 6.
[26] Cf. Cf. Tommaso d’Aquino, Sententia super librum De caelo et mundo I, lc. 6 n. 5: «Unde
tantum et tamdiu habet unaquaeque res de esse, quanta est virtus formae eius.
Et sic non solum in corporibus caelestibus, sed etiam in substantiis separatis
est virtus essendi semper». L’importante tema della virtus essendi è stato trattato da Fran O’Rourke, «Virtus Essendi: Intensive Being in
Pseudo-Dionysius and Aquinas», Dionysius
15 (1991), 31-80.