Benozzo Gozzoli, Le triomphe de saint Thomas d'Aquin, 1471

mardi 2 septembre 2014

La tematica della partecipazione in cinque luoghi cruciali del Vaticano II


            Questo blog è intitolato participatio, perché vediamo nella partecipazione sia la cifra della creazione dell’universo che della santificazione delle creature spirituali. Per questa ragione, ci sembra pure che il Concilio Vaticano II debbono essere lette in questa chiave. In questa nota, proponiamo un breve inventario delle novità conciliari che sollecitano l’attenzione del teologo in questa direzione.

a)        Il subsistit in della costituzione dogmatica Lumen Gentium ed altri documenti
Come è risaputo, la Costituzione dogmatica Lumen Gentium ha voluto superare la definizione bellarminiana della chiesa come società, con una visione più profonda, in cui la Chiesa viene contemplata, secondo una scansione trinitaria, come popolo di Dio (di Dio Padre), corpo di Cristo, e tempio dello Spirito. In questa concezione, la Chiesa cattolica viene considerata come ciò in cui sussiste la Chiesa di Cristo:

Haec Ecclesia, in hoc mundo ut societas constituta et ordinata, subsistit in Ecclesia catholica, a successore Petri et Episcopis in eius communione gubernata, licet extra eius compaginem elementa plura sanctificationis et veritatis inveniantur, quae ut dona Ecclesiae Christi propria, ad unitatem catholicam impellunt[1].

La stessa dottrina viene ribadita ben altre due volte nei documenti del Concilio: nel Decreto Unitatis Redintegratio sull’ecumenismo[2], poi nella dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa «Hanc unicam veram religionem subsistere credimus in catholica et apostolica Ecclesia»[3]. «Ecclesia [...] subsistit in Ecclesia catholica»: quale senso dobbiamo assegnare al verbo subsistit? Il significato comune, non ancora tecnico, del termine sarebbe «ha consistenza»; ma ciò che dà consistenza ontologica a qualcosa non essendo altro, per il teologo che sa di metafisica, che l’essere, non possiamo non tradurre questa celebre affermazione, nella presente ricerca, dicendo che «la Chiesa di Cristo ha propriamente l’essere nella Chiesa cattolica»[4]. Tale interpretazione ci permette di comprendere che, da un lato, la Chiesa di Cristo viene realizzata in pienezza solo nella Chiesa cattolica, e poi che, d’altro lato, ci sono elementi di santificazione e di verità al di fuori di quest’ultima. Questi elementi, come indica la stessa parola, sono per natura loro parziali, e dunque vanno interpretati come partecipazioni a ciò che sussiste nella Chiesa cattolica, sia dal punto di vista del loro essere che da quello del loro dinamismo, poiché essi «spingono all’unità cattolica».
            La nostra lettura può appoggiarsi su un importante documento della Congregazione per la Dottrina della Fede del 29 giugno 2007, approvato e confermato dal papa Benedetto XVI:

Dum secundum doctrinam catholicam recte dici potest, Ecclesiam Christi in Ecclesiis et communitatibus ecclesialibus nondum plenam communionem cum Ecclesia catholica habentibus ad esse et operari propter sanctificationis et veritatis elementa quae in illis sunt, verbum "subsistit" soli Ecclesiae catholicae ut singulare tantum attribuitur, quia refertur nempe ad notam unitatis in symbolis confessam (Credo…unam Ecclesiam); quae Ecclesia una subsistit in Ecclesia catholica[5].

Sebbene il verbo «partecipare» non venga usato né nel numero 8 della Lumen Gentium, né nella nota della C.D.F., questi documenti insegnano chiaramente che la Chiesa cattolica beneficia, in questo mondo, della totalità dei mezzi di salvezza, mentre le comunità acattoliche ne hanno solo una parte. Quando queste hanno conservato intatti il sacerdozio ministeriale e l’eucaristia, sono delle vere Chiese, mentre sono soltanto delle comunità ecclesiali quando ne sono private[6].

b)        I media salutis del decreto Unitatis Redintegratio
            Il decreto sull’ecumenismo elenca diversi mezzi di salvezza presenti ed operanti al di fuori dei confini visibili della Chiesa cattolica:

Nihilominus, iustificati ex fide in baptismate, Christo incorporantur, ideoque christiano nomine iure decorantur, et a filiis Ecclesiae catholicae ut fratres in Domino merito agnoscuntur. Insuper ex elementis seu bonis, quibus simul sumptis ipsa Ecclesia aedificatur et vivificatur, quaedam immo plurima et eximia exstare possunt extra visibilia Ecclesiae catholicae saepta: Verbum Dei scriptum, vita gratiae, fides, spes et caritas, aliaque interiora Spiritus Sancti dona ac visibilia elementa: haec omnia, quae a Christo proveniunt et ad Ipsum conducunt, ad unicam Christi Ecclesiam iure pertinent. [...] Proinde ipsae Ecclesiae et Communitates seiunctae, etsi defectus illas pati credimus, nequaquam in mysterio salutis significatione et pondere exutae sunt. Iis enim Spiritus Christi uti non renuit tamquam salutis mediis, quorum virtus derivatur ab ipsa plenitudine gratiae et veritatis quae Ecclesiae catholicae concredita est[7].

Il primo fondamento di questa comunione imperfetta non solo con gli altri singoli cristiani, ma anche con le altre comunità cristiane, si trova nel binomio di fede interiore e di battesimo esteriore, che già rispecchia la natura incarnata della Chiesa. Nel seguito del brano si elencano, nella stessa unità / dualità di interiorità e di esteriorità la vita della grazia con la fede, la speranza e la carità, da una parte, poi la Parola scritta di Dio, d’altra parte. Il documento sottolinea che questi doni interiori ed elementi visibili provengono da Cristo ed a Lui conducono; poi, un può più avanti, una formula molto bilanciata precisa che la virtù salvifica di questi mezzi di santificazione deriva dalla pienezza di grazia e di verità «quae Ecclesiae catholicae concredita est», che è stata affidata alla Chiesa cattolica. Il sintagma «plenitudo gratiae et veritatis» rieccheggia il prologo del IV. Vangelo, ed è una proprietà del Verbo Incarnato, «gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità»[8].
            Riguardo alla differenza fra la Chiesa cattolica e le Chiese o comunità non cattoliche, san Giovanni Paolo II precisò, nell’enciclica Ut unum sint! del 25 maggio 1995, quanto segue:

Elementa huius Ecclesiae iam datae exsistunt, in sua plenitudine coniuncta, in Ecclesia catholica et, sine hac plenitudine, in ceteris Communitatibus, ubi mysterii christiani quidam aspectus efficacius interdum sunt in luce positi[9].

I mezzi di santificazione che provengono da Cristo si trovano dunque nella loro pienezza nella Chiesa cattolica, e si riscontrano pure nelle altre comunità cristiane, ma senza questa pienezza. Poi Giovanni Paolo II riconosce che tali altre comunità, alle volte, mettono meglio in luce certi aspetti del mistero cristiano. È come dire che l’esercizio dei doni del Signore, non la loro natura, può essere anche più convincente in gruppi acattolici.
            Da quanto abbiamo, per il momento, semplicemente letto nel Concilio e nel Magistero postconciliare autentico, emerge già un quadro dottrinale assai chiaro: c’è una pienezza di salvezza che sta, di per sé, nell’umanità del Verbo Incarnato. Questa pienezza, in primo luogo, viene affidata, tramite l’organismo dei mezzi interni ed esterni di santificazione, alla Chiesa cattolica, in cui solo sussistono nella loro integralità. In secondo luogo, poi, una partecipazione più o meno intensa ai doni di Cristo, si riscontra fuori dei confini visibili della Chiesa cattolica, e ciò secondo due grandi modalità essenzialmente diverse: nelle Chiese separate, la nota di ecclesialità si trova realizzata grazie al settenario sacramentale, anche se manca il ministero petrino di unità; nelle altre comunità cristiane, principalmente nelle denominazioni provenienti dalla Riforma del Cinquecento, l’ecclesialità viene meno (o perlomeno è molto parziale), perché manca la successione apostolica, e con essa sopratutto il sacerdozio ministeriale e la santissima eucaristia.

c)         Il radium Veritatis della dichiarazione Nostra Ætate
            Un altro tipo di rapporto ontologico al mistero rivelato, assai più remoto, viene esposto nella dichiarazione Nostra Ætate sulle religioni non cristiane. Nel numero 2, questo documento tratta delle religioni anteriori alla rivelazione mosaico-cristiana, che si radicano nel senso religioso delle gentes, accennando all’induismo ed al buddismo. La dichiarazione nota al questo proposito:

Ecclesia catholica nihil eorum, quae in his religionibus vera et sancta sunt reicit. Sincera cum observantia considerat illos modos agendi et vivendi, illa praecepta et doctrinas, quae, quamvis ab iis quae ipsa tenet et proponit in multis discrepent, haud raro referunt tamen radium illius Veritatis, quae illuminat omnes homines[10].

Ci sembra che questo testo mette implicitamente a fuoco due coppie di distinzioni. La prima è quella che oppone l’oggettivo al soggettivo: soggettivamente, la Chiesa rispetta le espressioni del senso religioso che differiscono da ciò ch’essa promuove; oggettivamente, però, essa può accettare solo ciò che vi è di vero e di santo. Sotto questo aspetto, si coglie in quelle religioni « un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini», il che allude chiaramente ad un altro versetto del prologo di Giovanni: «Era la luce vera, quella che illumina ogni uomo»[11]. Ma di quale luce si tratta quando si applica questo versetto alle religioni estranee alla Rivelazione ? Di quella luce propria della fede teologale, o di quella che coinvolge primariamente l’apertura dinamica dello spirito creato verso il Trascendente? A questo quesito, troviamo una risposta nella dichiarazione Dominus Jesus emanata il 6 agosto 2000 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede:

Firmiter ergo tenenda est distinctio inter fidem theologalem et credulitatem quae invenitur in aliis religionibus. Dum enim fides acceptio est, vi gratiae, veritatis revelatae, quae una sinit “nos in mysterium ingredi intimum, cuius congruentem fovet intellectum”, credulitas aliarum religionum tributa in complexu illo innititur experientiae et cogitationis, qui divitiarum acervum sapientiae ac sensus religiosi efformat, mente conceptum ab hominibus veritatem quaerentibus ab eisque ad effectum deductum cum sese ad Divinum et Absolutum referunt[12].

Perciò, le religioni del mondo, in quanto espressioni del senso religioso e sacro dell’uomo, non sono di per sé in grado di mediare la fede teologale ovvero soprannaturale; ma esse si limitano ad attuare la tensione naturale dell’uomo verso la sfera del divino. Se questa precisione lascia intatta la libertà della ricerca teologica su ciò che può essere la virtù di fede allo stato implicito, che è  - come sappiamo -  necessaria per la salvezza eterna, essa tuttavia chiarisce che tale fede implicita sarà essenzialmente distinta dalla credulitas delle altre religioni. I due dinamismi, dello spirito che cerca di alzarsi al Trascendente, e della fede che ci fa aderire a Dio rivelatosi in Cristo, potranno essere fusi, fino ad un certo punto, nella coscienza del singolo; ma rimangono di natura intrinsecamente diversa. Lo stesso vale per un’altra metafora adoperata dal Concilio in un senso vicino, quella dei semina Verbi[13].
Da questa differenza risulta, per la nostra presente ricerca, un terzo livello, in ordine discendente, nella gerarchia di partecipazione che cerchiamo di evidenziare: quello dell’apertura sia costitutiva che operativa dello spirito creato rispetto alla salvezza, come plesso di rivelazione e di giustificazione. Qui non si dà ancora una vera e propria partecipazione stabile ed organica alla pienezza di grazia che è in Cristo, ma una predisposizione naturale ad essa, che la previene e, se si vuole, la anticipa, ma non può trasmetterla.

d)        La trascendenza degli atti religiosi nella dichiarazione Dignitatis Humanae
            Uno dei punti dove il carattere innovativo del Vaticano II rispetto al magistero ed alla prassi anteriori della Chiesa appare di più è la libertà religiosa, promossa dalla dichiarazione Dignitatis Humanae e successivamente assunta da tutti i Sommi Pontefici, in particolare da Giovanni Paolo II, a norma della «politica estera» della Santa Sede. Questa libertà consiste precisamente in una doppia imunità civile in materia religiosa, quella per cui il singolo non può essere costretto ad agire contro la sua coscienza, anche sbagliata, e quella per cui non può essere impedito di agire secondo coscienza:

Huiusmodi libertas in eo consistit, quod omnes homines debent immunes esse a coercitione ex parte sive singulorum sive coetuum socialium et cuiusvis potestatis humanae, et ita quidem ut in re religiosa neque aliquis cogatur ad agendum contra suam conscientiam neque impediatur, quominus iuxta suam conscientiam agat privatim et publice, vel solus vel aliis consociatus, intra debitos limites[14].

La lunga giustificazione di questo diritto, che si radica nella natura stessa della persona umana («in ipsa eius natura ius ad libertatem religiosam fundatur»[15]), si richiama alla trascendenza degli atti religiosi rispetto all’autorità politica:

Praeterea actus religiosi, quibus homines privatim et publice sese ad Deum ex animi sententia ordinant, natura sua terrestrem et temporalem rerum ordinem transcendunt. Potestas igitur civilis, cuius finis proprius est bonum commune temporale curare, religiosam quidem civium vitam agnoscere eique favere debet, sed limites suos excedere dicenda est, si actus religiosos dirigere vel impedire praesumat[16].

Questa tematica della trascendenza della persona umana è posta, nella costituzione pastorale Gaudium et Spes, a fondamento della riflessione antropologica ivi contenuta. Citiamo qua solo una breve formula particolarmente significativa:

Recte iudicat homo, divinae mentis lumen participans, se intellectu suo universitatem rerum superare[17].

È grazie alla partecipazione del suo intelletto alla luce della scienza divina, che la persona umana si colloca al di sopra delle cosmo materiale, e, di conseguenza, anche dell’ordine politico, in quanto esso è intrinsecamente legato ad uno spazio geografico e storico. Tale partecipazione, strettamente naturale, fonda, a sua volta, due caratteristiche strettamente correlative del soggetto umano dentro la tematica ecclesiologica del Concilio. Una è l’irriducibilità della sua dimensione religiosa all’ordine politico-sociale; l’altra è la sua capacità a ricevere le partecipazioni alla pienezza di grazia e di verità che in Cristo.

e)        Il duplice soggetto della potestà suprema sulla Chiesa
            nella Costituzione dogmatica Lumen Gentium
            Il Vaticano II si è pronunziato sulla Ecclesia Docens, completando l’insegnamento del Vaticano I. Questo ultimo aveva definito che il Romano Pontefice dispone di una potestà piena e suprema di giuridizione sulla Chiesa universale, in campo sia dottrinale che disciplinare[18]. Ora la Costituzione Lumen Gentium attribuisce anche al Collegio Episcopale questa pienezza della potestà gerarchica, il cui esercizio dipende però sempre dal consenso del Romano Pontefice:

Romanus enim Pontifex habet in Ecclesiam, vi muneris sui, Vicarii scilicet Christi et totius Ecclesiae Pastoris, plenam, supremam et universalem potestatem, quam semper exercere valet. Ordo autem Episcoporum, qui collegio Apostolorum in magisterio et regimine pastorali succedit, immo in quo corpus apostolicum continuo perseverat, una cum Capite suo Romano Pontifice, et numquam sine hoc Capite, subiectum quoque supremae ac plenae potestatis in universam Ecclesiam exsistit, quae quidem potestas nonnisi consentiente Romano Pontifice exerceri potest[19].

Subiectum quoque: ci sono dunque due soggetti della medesima potestas, che sono solo inadaguatamente distinti (in linguaggio scolastico, si direbbe per modum includentis et inclusi): il Romano Pontefice da solo, da una parte, e il Collegio Episcopale unito al Romano Pontefice, d’altra parte. La Nota explicativa praevia aggiunta alla Costituzione precisa chiaramente che il Collegio non è mai tale senza il Sommo Pontefice, a cui spetta da solo la determinazione e la promulgazione dell’attività collegiale[20]. Più formalmente ancora, la stessa Nota formula un’ulteriore distinzione fra l’esistere e l’agire del Collegio:

Collegium vero, licet semper exsistat, non propterea permanenter actione stricte collegiali agit, sicut ex Traditione Ecclesiae constat. A. v. non semper est « in actu pleno », immo nonnisi per intervalla actu stricte collegiali agit et nonnisi consentiente Capite[21].

Con questo dispositivo ecclesiologico, ci troviamo di fronte ad una configurazione ontologica assai originale. La stessa capacità operativa, analoga alla più alta potenza attiva di un supposito vivente, viene posseduta in atto primo da due soggetti, il cui secondo  - il Collegio – include il primo – il Romano Pontefice. A questo duplice soggetto corrispondono poi due modalità di attuazione: mentre la potestas del Sommo Pontefice passa all’atto secondo qualora egli lo vuole (ovviamente non in maniera arbitraria), quella dell’Ordine episcopale viene ultimamente attuata solo dal suo capo. Ne risulta che, in entrambi i casi, l’esercizio effetivo della potestà suprema non avviene mai contro il volere del Romano Pontefice[22]. Conviene notare che un simile ordinamento operativo non si riscontra al di fuori della Chiesa, né negli organismi biologici, né in quelli politici. Negli animali irrazionali, la testa è la sede dell’appetito sensitivo e l’origine della motricità, ma non può mai agire senza il corpo; e nell’uomo, è solo la volontà che può eleggere od imperare atti che siano veramente liberi, quindi umani. Per quanto riguarda i sistemi politici, le attuali costituzioni democratiche, che siano parlamentari o presidenziali, delegano solitamente il potere legislativo, fondato sulla sovranità popolare, ad una o due assemblee, la cui decisione maggoritaria costringe tutti, compreso il capo dello Stato; viceversa, la prassi e la dottrina dell’assolutismo attribuiva la sovranità al monarca in maniera esclusiva, anche se essa non era tirannica, perché era sottomessa al diritto naturale nonché alle leggi fondamentali del suo regno. Nella Chiesa invece, l’unica potestas suprema derivata da Cristo, e non dal popolo fedele, viene ricevuta, ed in questo preciso partecipata, dai due soggetti specificati dalla Lumen Gentium ed è sempre esercitata mediante la decisione o il consenso del successore di Pietro.


            Possiamo ora abbozzare un primo bilancio che farà apparire la rilevanza della nozione di partecipazione nella dottrina ecclesiologica del Vaticano II:

1.      Il subsistit ci indica che la Chiesa cattolica è, ed è sola, la Chiesa che dispone in pienezza dei mezzi di santificazione che provengono dal Signore. Diremo che la Chiesa cattolica, grazie alla partecipazione piena che riceve dai doni del Verbo Incarnato, è la Chiesa di Cristo per essenza.
2.     Gli elementi di santificazione presenti ed operanti nelle altre Chiese e comunità cristiane, godono soltanto di una partecipazione imperfetta ai mezzi di santificazione istituiti dal Signore. Perciò possiamo dire che tali Chiese e comunità realizzano la Chiesa di Cristo soltanto per partecipazione.
3.     I raggi di verità riscontrabili nelle religioni estrabibliche non partecipano in maniera stabile, di per sé, al mistero salvifico di Cristo e della sua Chiesa, ma vi possono disporre, e, nella misura in cui sono intrecciati con influssi ed appelli della grazia cristica, lo possono anticipare.
4.     La trascendenza della persona umana sull’universo temporale (Gaudium et Spes) e sull’ordinamento politico (Dignitatis Humanae) chiarisce lo statuto proprio del soggetto chiamato alle precedenti partecipazioni di fronte alla sua condizione terrestre, e quindi l’indole propria del partecipante.
5.      L’articolazione della suprema ed unica potestas magisteriale e giurisdizionale sulla Chiesa in due soggetti inadeguatamente distinti deve intendersi come due maniere di partecipare all’unica autorità profetica e regale del Signore.

Fra queste novità conciliari, le tre prime si scalano verticalmente, e per questa ragione possono essere ordinate in una gerarchia ontologica che scende dalla grazia capitale di Cristo fino ai semina Verbi, attraverso tre tipi essenzialmente diversi e disuguali di riferimento al corpo mistico dello stesso Cristo: partecipando alla pienezza di grazia del Signore, l’ecclesialità si trova per essenza nella Chiesa cattolica, per partecipazione più o meno intensa nelle chiese e comunità cristiane acattoliche, e solo per ordinazione estrinseca nelle verità professate nelle denominazioni religiose etniche. Il quarto insegnamento mostra che la dimensione religiosa della persona umana trascende, entro i dovuti limiti, il bene comune temporale. La quinta novità non riguarda più i membri, attuali o potenziali, del corpo mistico nella loro universalità, bensì la gerarchia apostolica, per evidenziare il modo del tutto sui generis in cui partecipa all’autorità di Cristo. Di fronte a questi dati, pensiamo che l’ecclesiologia debba chiedere alla metafisica dell’essere di aiutarla a cogliere l’intelligibilità specifica di questi rapporti differenziati di partecipazione.
            Contro questo tentativo, qualcuno potrebbe opporci l’intenzione stessa del Concilio. Sintetizzando quest’ultima in una formula assai concisa, Francesco ci dice infatti che «Il Vaticano II è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea»[23]. Ora la cultura del nostro tempo non è certamente attrata dall’ontologia né dalla teologia della partecipazione: quindi il nostro proposito sembrerà fuoriviante a più di uno. A questo genere di obiezione, è però facile dare una duplice risposta. Sul piano filosofico, per cominciare, non ci stancheremo mai di ribadire con l’Aquinate che «Intellectus autem omnino secundum suam naturam supra materiam elevatur»[24], cosicché l’anima umana, precisamente in quanto umana, emerge sopra la storicità e trascende i condizionamenti temporali. Posta questa premessa, il ricorso alla filosofia dell’essere diventa necessario per l’ermeneutica di qualunque concilio. Ma fu poi lo stesso Paolo VI, nel celebre discorso di chiusura del 7 dicembre 1965, a suggellare la preoccupazione antropologica del Concilio con una visione chiaramente meta-fisica:

Etenim ut nos hominem, hominem verum, hominem integrum penitus noscamus, Deum ipsum antea cognoscamus necesse est. Ad hoc probandum satis nunc sit haec recolere Sanctae Catharinae Senensis flammantia verba : « In tua natura, aeterne Deus, naturam meam cognoscam ». Tum catholica religio vita est, quia hominis naturam eiusque supremum finem ostendit, plenioremque sensum ei attribuit ; vita denique est, quia veluti suprema lex vitae est habenda, et quia vitae ipsi talem arcanam vim ei inicit, ut eam vere divinam efficiat[25].

Se la natura dell’uomo deve essere illuminata, in ultima analisi, da ciò che conosciamo della natura divina, allora possiamo a fortiori risolvere la dottrina del Vaticano II sulla Chiesa in una dialettica di partecipazione alla pienezza di grazia che si trova nell’anima del Verbo Incarnato.



[1] Lumen Gentium, n° 8, AAS 57/1 (1965), 12.
[2] Cf. Unitatis Redintegratio, n° 4, AAS 57/1 (1965), 95: «[...] in unius unicaeque Ecclesiae unitatem congregentur quam Christus ab initio Ecclesiae suae largitus est, quamque inamissibilem in Ecclesiae catholica subsistere credimus et usque ad consummationem saeculi in dies crescere speramus».
[3] Cf. Dignititatis Humanae, n° 1, AAS 58/14 (1966), 930: «Hanc unicam veram Religionem subsistere credimus in catholica et apostolica Ecclesia, cui Dominus Iesus munus concredidit eam ad universos homines diffundendi, dicens Apostolis: “Euntes ergo docete omnes gentes baptizantes eos in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti, docentes eos servare omnia quaecumque mandavi vobis” (Mt 28,19-20)».
[4] Sul tema del subsistit, segnaliamo l’investigazione storica di Alexandra von TEUFFENBACH, Die Bedeutung des subsistit in (LG 8) – Zum Selbstverständnis der katholischen Kirche, Herbert Utz Verlag, München 2002.
[5] Congregazione per la Dottrina della Fede, «Responsa ad quaestiones de aliquibus sententiis ad doctrinam de Ecclesia pertinentibus», n° 2, AAS 99/7 (2007), 606-607.
[6] Cf. Congregazione per la Dottrina della Fede, «Responsa ad quaestiones de aliquibus sententiis ad doctrinam de Ecclesia pertinentibus», n° 4-5, AAS 99/7 (2007), 607-608.
[7] Unitatis Redintegratio, n° 3, AAS 57/1 (1965), 93 (corsivo nostro).
[8] Giov. 1, 14.
[9] GIOVANNI PAOLO II, «Ut unum sint!», n° 14, AAS 87 (1995), 929.
[10] Nostra Ætate, n° 2, AAS 58/10 (1966), 741.
[11] Giov. 1, 9.
[12] Congregazione per la Dottrina della Fede, «Declaratio De Iesu Christi atque Ecclesiae unicitate et universalitate salvifica » [Dominus Iesus], n° 7, AAS 92/7 (2000), 748.
[13] Cf. Ad Gentes, n˚ 11, AAS 58/14 (1966), 959-960: «Ut ipsi hoc testimonium Christi fructuose dare possint, [...] laete et reverenter detegant semina Verbi in eis latentia»; n˚ 15, 963: «Spiritus Sanctus, qui omnes homines per semina Verbi praedicationemque Evangelii ad Christum vocat et in cordibus obsequium fidei suscitat [...]».
[14] Dignitatis Humanae, n° 2, AAS 58/14 (1966), 930.
[15] Ibid.
[16] Dignitatis Humanae, n° 3, AAS 58/14 (1966), 932.
[17] Gaudium et Spes, n° 15, AAS 58/15 (1966), 1036.
[18] Cf. Concilio Vaticano I, Constitutio dogmatica “Pastor Æternus” de Ecclesia Christi, cap. 3, canon, in Denzinger-Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum, Herder, Barcellona 1976, n˚ 3064: «Si quis itaque dixerit, Romanum Pontificem habere tantummodo officium inspectionis vel directionis, non autem plenam et supremam potestatem iurisdictionis in universam Ecclesiam, non solum in rebus, quae ad fidem et mores, sed etiam in iis, quae ad disciplinam et regimen Ecclesiae per totum orbem diffusae pertinent; aut eum habere tantum potiores partes, non vero totam plenitudinem huius supremae potestatis; aut hanc eius potestatem non esse ordinariam et immediatam sive in omnes ac singulas ecclesias sive in omnes et singulos pastores et fideles: anathema sit».
[19] Lumen Gentium, n˚ 22, AAS 57/1 (1965), 26.
[20] Cf. Nota explicativa praevia, n˚ 3, AAS 57/1 (1965), 74: «A. v. [aliis verbis] distinctio non est inter Romanum Pontificem et Episcopos collective sumptos, sed inter Romanum Pontificem seorsim et Romanum Pontificem simul cum Episcopis. [...] Romanus Pontifex ad collegiale exercitium ordinandum, promovendum, approbandum, intuitu boni Ecclesiae, secundum propriam discretionem procedit».
[21] Loc. cit., n˚ 4, 74. Le parole in corsivo sono quelle della Lumen Gentium.
[22] Perciò, Carlo Colombo potette osservare quanto segue in «Il significato della Collegialità episcopale nella Chiesa», Ius Canonicum 19/38 (1979), 17: «[...] i due soggetti non sono adeguatamente distinti, perchè il Romano Pontefice, oltre ad avere il suo potere personale in quanto Vicario di Cristo, appartiene anche al secondo, e ne è, anzi, parte essenziale. Più che a due soggetti ineguadatamente distinti, ci troviamo di fronte a due forme, personale e collegiale, di esercizio di un unico potere totale e universale, il potere di Cristo che viene da essi rappresentato».
[23] Antonio Spadaro, «Intervista a Papa Francesco», La Civiltà Cattolica 164/3918 (2013), 467.
[24] Tommaso d’Aquino, Compendium theologiae I, c. 84. Più esplicita ancora la Summa theologiae, I-II, q. 113 a. 7 ad 5: « Mens autem humana quae iustificatur, secundum se quidem est supra tempus, sed per accidens subditur tempori».
[25]  Paolo VI, «Homilia ad Patres Conciliares habita» [7 dicembre 1965], AAS 58/1 (1966), 58.

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