Benozzo Gozzoli, Le triomphe de saint Thomas d'Aquin, 1471

samedi 5 mars 2011

San Tommaso, Aristotele, e la creazione

            Secondo san Tommaso, i due metafisici socratici sono pervenuti a porre una causa universale di tutti gli enti, oppure no? L’Aquinate, come è risaputo, non ha sempre dato la stessa risposta a questo problema. Le tappe le più importanti della sua riflessione al riguardo sono le seguenti.
            Nelle Quaestiones disputatae De potentia, che il P. Torrell fa risalire all’anno accademico romano 1265 – 1266[1], egli afferma che:

Posteriores vero philosophi ut Plato, Aristoteles et eorum sequaces, pervenerunt ad considerationem ipsius esse universalis; et ideo ipsi soli posuerunt aliquam universalem causam rerum, a qua omnia alia in esse prodirent, ut patet per Augustinum[2].

Si dà quindi credito a Platone ed Aristote di aver tematizzato l’ente nella sua universalità  - che sembra essere lo «ente in quanto ente» che funge da soggetto della Metafisica aristotelica -, e di essere di conseguenza giunti a porre una qualche causa universale delle cose. Si noti la restrizione aliquam, che allude probabilmente alla diversità, ed anche alla insufficienza, del Bene-Uno platonico o del primo motore aristotelico. Nondimeno, il rilievo tommasiano implica che i due massimi metafisici greci abbiano scoperto una causa universale dell’ente.
            Poco dopo, nella Ia pars, successiva al De potentia secondo il Torrell, lo sguardo appare diverso:

Ulterius vero procedentes, distinxerunt per intellectum inter formam substantialem et materiam, quam ponebant increatam; et perceperunt transmutationem fieri in corporibus secundum formas essentiales. Quarum transmutationum quasdam causas universaliores ponebant, ut obliquum circulum, secundum Aristotelem, vel ideas, secundum Platonem.
Sed considerandum est quod materia per formam contrahitur ad determinatam speciem; sicut substantia alicuius speciei per accidens ei adveniens contrahitur ad determinatum modum essendi, ut homo contrahitur per album. Utrique igitur consideraverunt ens particulari quadam consideratione, vel inquantum est hoc ens, vel inquantum est tale ens. Et sic rebus causas agentes particulares assignaverunt.
Et ulterius aliqui erexerunt se ad considerandum ens inquantum est ens: et consideraverunt causam rerum, non solum secundum quod sunt haec vel talia, sed secundum quod sunt entia. Hoc igitur quod est causa rerum inquantum sunt entia, oportet esse causam rerum, non solum secundum quod sunt talia per formas accidentales, nec secundum quod sunt haec per formas substantiales, sed etiam secundum omne illud quod pertinet ad esse illorum quocumque modo. Et sic oportet ponere etiam materiam primam creatam ab universali causa entium[3].

Da tempo, si è osservato che la posizione di Platone e di Aristotele sembra essere svalutata rispetto al De potentia. I due socratici maggiori sembrano essersi limitati alla resolutio dello ens inquanto è questo (hoc aliquid - τόδε τι), oppure inquanto è tale (tale), di tal guisa che non avrebbero superato la soglia dell’essenza o della forma in atto. Altri (ulterius aliqui), che non vengono nominati, sarebbero arrivati a risolvere l’ente propriamente in quanto è ente, ed a fondare in Dio tutto quanto sta nella loro realtà totale.
            Pare difficile negare che san Tommaso abbia quindi cambiato la sua valutazione della metafisica greca, anche se il testo della Summa theologiae è molto più articolato di quello del De potentia. In quest’ultimo, si attribuisce a Platone ed a Aristotele la considerazione dello esse universale e della causa dalla quale omnia in esse prodirent; in quello, invece, si afferma che loro si sono limitati allo hoc ens / tale ens, al quale hanno assegnato della causae agentes particulares.
            Un terzo testo, forse un può meno citato, rappresenta l’ultima riflessione dell’Aquinate su questo problema. Si tratta del capitolo 9 del De substantiis separatis, che il Torrell vede posteriore alla prima metà del 1271[4], e ci offre proprio una mediazione fra le due posizioni antitetiche precendenti:

Paulatim enim humana ingenia processisse videntur ad investigandam rerum originem […].
Posteriores vero philosophi ulterius processerunt, resolventes sensibiles substantias in partes essentiae, quae sunt materia et forma: et sic fieri rerum naturalium in quadam transmutatione posuerunt, secundum quod materia alternatim diversis formis subiicitur.
Sed ultra hunc modum fiendi necesse est, secundum sententiam Platonis et Aristotelis, ponere alium altiorem. Cum enim necesse sit primum principium simplicissimum esse, necesse est quod non hoc modo esse ponatur quasi esse participans, sed quasi ipsum esse existens. Quia vero esse subsistens non potest esse nisi unum, sicut supra habitum est, necesse est omnia alia quae sub ipso sunt, sic esse quasi esse participantia. Oportet igitur communem quamdam resolutionem in omnibus huiusmodi fieri, secundum quod unumquodque eorum intellectu resolvitur in id quod est, et in suum esse. Oportet igitur supra modum fiendi quo aliquid fit, forma materiae adveniente, praeintelligere aliam rerum originem, secundum quod esse attribuitur toti universitati rerum a primo ente, quod est suum esse[5].

Questa volta, il giudizio su Platone ed Aristotele viene diviso in due momenti. Si attribuisce nuovamente a loro, come nella Summa theologiae, la resolutio delle sostanze sensibili nei loro co-principi essenziali, materia e forma. Poi si accede ad un modus fiendi superiore, che non è altro che la creazione, tramite la resolutio dell’ente nello id quod est e nello esse, cioè fra lo ens e lo esse grazie al quale lo ens è, sboccando quindi su ciò che dopo Heidegger, ma non in senso heideggeriano, chiamiamo «differenza ontologica». In effetti, l’ente è, ma non è uguale al proprio atto di essere, all’unica eccezione di Dio. Tale differenza viene fondata nella partecipazione, per la quale ogni ente che non è Dio partecipa all’Essere di Dio, che non può che essere unico. Ora questa seconda ed ultima resolutio, che è propria di san Tommaso, viene effettuata secundum sententiam Platonis et Aristotelis, vale a dire secondo i principi elaborati dai due socratici, anche se non si trova de facto nei loro testi. Questa formula spiazza in anticipo tante discussioni sull’aristotelismo di san Tommaso, ed adirittura su quello di Aristotele:

  • San Tommaso vede quindi la propria posizione metafisica in continuità speculativa con Aristotele e pure con Platone: «secundum sententiam Platonis et Aristotelis»; al contempo, egli era consapevole dei limiti storici dei due metafisici socratici, che alla fine non si spingono molto oltre l’analisi dell’essenza dell’ente sensibile. Quindi sia Platone che Aristotele professano dottrine aperte alla trascendenza dello ipsum esse subsistens: il primo grazie alla dottrina della partecipazione, ed il secondo a quella dell’atto, e pure anche dell’essenza che è la misura dello εναι, presente nella celebre formula τ τί ν εναι, ma non esplorato. Ma furono altri, ed in realtà soprattutto lo stesso Aquinate a percorrere la via che conduce alla piena elucidazione dell’ente.
  • Questa valutazione contiene pure un criterio semplice e cristallino per l’interpretazione dello Stagirita: la sua elaborazione filosofica non è racchiusa in una fisica / metafisica delle forme in atto, come sostengono molti esegeti, anche giustamente celebri[6], ma rimane intrinsecamente aperta allo esse, e quasi in attesa da questo sviluppo.

Ci sembra particolarmente urgente ed auspicabile che i metafisici ritrovino il senso profondo di questo aristotelismo speculativo proprio dell’Aquinate, che va oltre la lettera dello Stagirita, ma non lo contraddice mai in quello che afferma.


[1] Cf. J.-P. Torrell, Initiation à saint Thomas d’Aquin, Cerf – Éditions Universitaires de Fribourg, Paris – Fribourg (Suisse) 1993, 489.
[2] QD De potentia, q. 3 a. 5c.
[3] ST I, q. 44 a. 2c.
[4] Cf. J.-P. Torrel, op. cit., 510.
[5] De substantiis separatis, c. 9.
[6] Pensiamo per esempio al grande G. Reale, che scrive in Il concetto di filosofia prima e l’unità della Metafisica di Aristotele, 5a ed., Vita e Pensiero, Milano 1993, 444: «l’essere designa una originaria molteplicità. Al di fuori di questa molteplicità, l’essere perde significato: l’essere “puro” degli Eleati, e l’essere “in sé et per sé” dei Platonici, che dovrebbero concepirsi al di fuori o al di sopra, o comunque in antitesi alla molteplicità dei reali significati dell’ν, non significano nulla, proprio perché tali». Per san Tommaso invece, «esse significat aliquid completum et simplex sed non subsistens» (QD De potentia, q. 1 a. 1c).

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