Benozzo Gozzoli, Le triomphe de saint Thomas d'Aquin, 1471

samedi 15 janvier 2011

Dimostrazione e scienza dell'ente in quanto ente

            Durante gli ultimi cinquant’anni, in particolare dopo il celebre studio di Pierre Aubenque, Le problème de l’être chez Aristote[1], si è contestato che l’epistemologia degli Analitici Secondi possa essere rilevante per la filosofia prima. In effetti, il discorso scientifico teoretizzato nell’Organon mira anzitutto ad evidenziare l’appartenenza di una proprietà ad un soggetto, partendo dalla definizione del medesimo, il che sembra presupporre che tale soggetto sia uno in maniera univoca, e sia definibile, due caratteristiche che si riscontrano nei generi categoriali. Ma l’ente, che è il «genere soggetto» della filosofia prima, non è un genere, e perciò non è definibile. Quindi sembra escluso che possa esserci una scienza, in senso aristotelico, dell’ente, per cui la celebre affermazione con la quale si apre il libro Γ della Metafisica, «c’è una scienza dell’ente in quanto ente e delle proprietà che gli appartengono per sé», cadrebbe nel vuoto.
            Quale sarebbe la risposta di san Tommaso a questa importante obiezione ? Per quanto riguarda l’unità del subiectum della metaphysica che è lo ens, la soluzione sta ovviamente nella sua analogicità, che lo Stagirita coglieva, nello stesso libro Γ, nel riferimento dello ν alla οσία, e che l’Aquinate fonda ulteriormente nello esse. Infatti, le operazioni e le forme accidentali sono per e nella sostanza, la quale, a sua volta, deve la sua attualità e la sua stessa sussistenza al proprio atto di essere partecipato[2]. Da questa unità analogica fondata sulla partecipazione dell’ente all'essere proviene la definibilità, ovviamente in senso trascendentale e non categoriale, dello stesso ente a partire dallo esse: «possumus dicere quod ens, sive id quod est, sit, inquantum participat actum essendi»[3].
            A queste due condizioni, una scienza dell’ente è possibile, che può, da un lato, risolvere l’ente nei suoi principi costitutivi, l’essenza e l’atto di essere, nonché, d’altro lato, investigarne le proprietà o passiones. Ricordiamo che, per quanto concerne quest’ultima procedura, la dimostrazione scientifica deve avere la seguente articolazione:

Sciendum autem est quod, cum in demonstratione probetur passio de subiecto per medium quod est diffinitio, oportet quod prima propositio, cuius predicatum est passio et subiectum diffinitio que continet principia passionis, sit per se in quarto modo ; secunda autem, cuius subiectum est ipsum subiectum et predicatum ipsa diffinitio, <in> primo modo ; conclusio uero, in qua predicatur passio de subiecto, est per se in secundo modo[4].

Applicando questa dottrina allo studio delle passiones entis, arriviamo alla seguente struttura argomentativa:

[maggiore per se quarto modo] L’atto di essere implica tale passio;
[minore per se primo modo] ora, l’ente è tale per il suo atto di essere;
[conclusione per se secundo modo] dunque l’ente implica tale passio.

In questo modo, i trascendentali vengono fondati nell’atto di essere, tramite una dimostrazione che si può caratterizzare come propter quid, in quanto il termine medio ossia lo stesso esse è il «principio e causa» in virtù del quale l’ente implica necessariamente i trascendentali come sue proprietà. Ovviamente, questo discursus dall’ente alle sue «passioni» attraverso l’atto di essere rimane avvolto in un certo chiaroscuro, giacché lo esse trascende doppiamente la capacità conoscitiva dell’intelletto in statu viae: in primo luogo, perché essendo un atto e non un contentuo, esso non è oggettivabile nello stesso modo in cui lo sono le nozioni categoriali; ed in secondo luogo, perché esso è un atto partecipato dallo Esse divino, la cui natura ci rimane sconosciuta, anche in sede di teologia filosofica. Ciò nonostante, l’intelletto può scostarsi, in una certa misura, dalla determinazione dell’ente per intravedere l’atto che attua questa determinazione, un può come l’occhio può considerare più la luce che illumina i colori che non i colori stessi. In questa maniera, il nesso fra l’ente ed i trascendentali viene illuminato dallo esse che fonda sia l’uno che gli altri.
            Quando è così giunto a cogliere, nei ragionamenti tommasiani, la luce dello esse, il lettore dell’Aquinate rimane colpito, nelle questioni della Summa theologiae che mettono a fuoco i trascendentali, dalla presenza della struttura argomentativa che abbiamo appena evidenziata. È particolarmente chiaro per il bene:

[analisi del bene] Ratio enim boni in hoc consistit, quod aliquid sit appetibile […]. Manifestum est autem quod unumquodque est appetibile secundum quod est perfectum: nam omnia appetunt suam perfectionem. Intantum autem est perfectum unumquodque, inquantum est actu:
[conclusione] unde manifestum est quod intantum est aliquid bonum, inquantum est ens:
[minore] esse enim est actualitas omnis rei[5].

L’iter è quindi quello della dimostrazione della passio:

[maggiore per se quarto] L’esse è l’attualità di ogni cosa; l’attualità è principio di perfezione; la perfezione è il fondamento dell’appetibilità; l’appetibilità è costitutiva della bontà; perciò l’esse fonda la bontà;
[minore per se primo] ora l’ente è in atto per il suo esse;
[conclusione per se secundo] dunque l’ente è, proporzionalmente alla sua attualità di essere, buono.

In maniera meno formale e meno esplicita, la dimostrazione della convertibilità fra l’ens e l’unum riposa sullo stesso fondamento:

omne ens aut est simplex, aut compositum.
Quod autem est simplex, est indivisum et actu et potentia.
Quod autem est compositum, non habet esse quandiu partes eius sunt divisae, sed postquam constituunt et componunt ipsum compositum.
Unde manifestum est quod esse cuiuslibet rei consistit in indivisione. Et inde est quod unumquodque, sicut custodit suum esse, custodit suam unitatem[6].

In questo caso, lo esse che funge da perno dell’argomentazione è lo esse in actu della realtà una più che lo esse ut actus che lo attua; ma siccome quello non si dà senza questo, siamo comunque rimandati all’atto di essere come alla ragione ultima che giustifica l’unità dell’ente. Passando al vero, non troveremo una spiegazione diversa:

Unumquodque autem inquantum habet de esse, intantum est cognoscibile. Et propter hoc dicitur in III De anima, quod anima est quodammodo omnia secundum sensum et intellectum. Et ideo, sicut bonum convertitur cum ente, ita et verum[7].

Di nuovo, si procede alla riduzione del trascendentale all’essere : trattandosi questa volta del vero, si ricorre alla conoscibilità che si misura sull’attualità di essere. Si potrebbe congiungere queste tre rationes in un argomento sintetico:

[minore per se primo modo] ogni ente è in atto a seconda che partecipa all’atto di essere;
[maggiore per se quarto modo] ora questa attualità di essere fonda l’indivisibilità dell’ente, la sua intelligibilità e la sua appetibilità;
[conclusione per se secundo modo] dunque ogni ente è uno, vero è buono a proporzione della sua partecipazione all’atto di essere.

Così abbiamo instaurato un discorso scientifico, nel senso aristotelico del termine, attorno alle passiones entis, senza per questo togliere il mistero dell’ente, anzi enfatizzandolo, indicandone la fonte.


[1] P. Aubenque, Le problème de l’être chez Aristote, Presses Universitaires de France, Paris 1962 (1997).
[2] Cf. Quaestiones de quolibet IX, q. 4 a. 1c : «invenimus in Angelo et substantiam sive quidditatem eius, quae subsistit, et esse eius, quo subsistit, quo scilicet actu essendi dicitur esse, sicut actu currendi dicimur currere»
[3] Expositio Libri de Ebdomabidus, lc. 2.
[4] Expositio Libri Posteriorum I, lct. 13, l. 60-69.
[5] ST I, q. 5 a. 1c.
[6] ST I, q. 11 a. 1c.
[7] ST I, q. 16 a. 3c.

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