Benozzo Gozzoli, Le triomphe de saint Thomas d'Aquin, 1471

jeudi 5 mai 2011

L’«emergenza» dell’atto di essere nel dinamismo dell’ente creato

            «Omnium autem perfectiones pertinent ad perfectionem essendi»[1]: nel corso della sua carriera metafisica, il Fabro insisterà sempre di più su ciò ch’egli chiama l’«emergenza» dello esse sopra tutte le perfezioni reali dell’ente. Secondo il filosofo Stimmatino, infatti, l’essenza sostanziale in atto, le forme accidentali, le operazioni, e la stessa esistenza della cosa, si radicano tutte nell’unico atto di essere creato, e quindi misurato, come abbiamo appunto evidenziato, dall’essenza vista come potenza di essere. Questa concezione si presenta come la riscoperta del significato genuino di quel «hoc quod dico esse»[2] in cui si racchiude tutta la grandezza speculativa dell’Aquinate. Per accedervi, occorre superare due interpretazioni di segno opposto che offuscano la luce dello esse.
            Il primo errore da evitare è quello di Avicenna, che legge la composizione entitativa come sovrapposizione accidentale di una «esistenza stabilita», che sarebbe l’essere, ad una «esistenza propria», quale sarebbe invece la quiddità, il che equivale, da una parte, a dotare l’essenza di una consistenza ontologica del tutto autonoma, ed a ridurre l’atto di essere, d’altra parte, al principio realizzante dell’essenza così intesa[3]. Fabro vede in questa posizione l’origine del binomio tardo-medioevale di esse existentiae e di esse essentiae, nel quale il primato dello esse viene annegato nella dualità della existentia e della essentia, e dove quindi l’essenza, proprio come nel Libro della Guarigione, acquista un essere a sé stante, che può essere oggettivato indipendentemente dall’atto di essere. Questo slittamento non solo semantico, ma sopratutto dottrinale inaugura un processo di «oblio dell’essere» in senno alla stessa scuola tomista domenicana, che arriva fino alla sostituzione del plesso di esse – essentia con quello di existentia – essentia, in particolare con Giovanni di San Tommaso, nonché, dopo di lui, in quasi tutto il tomismo barocco poi neoscolastico[4]. Mentre l’Aquinate vede nell’atto di essere la fonte di tutti i livelli di attualità del supposito, e nell’essenza la determinazione potenziale che costituisce strutturalmente lo stesso esse come lo esse di tale cosa[5], il maestro lusitano capisce l’esistenza come l’atto che pone la cosa fuori del nulla e delle sue cause, e l’essenza come un altro atto che, sebbene non sia nulla senza l’esistenza, conferisce però alla cosa la sua consistenza quidditativa. Sdoppiando in questo modo l’attualità originaria dell’ente creato, si fa dello esse ridotto ad existentia un principio assai esteriore a ciò che la cosa è in sé, di tal guisa che, volens nolens, il baricentro dell’ontologia si sposta verso l’essenza, anche se si sostiene la distinzione reale contro la scuola scotista o quella suareziana.  Perciò, si arriva pure a postulare una certa attuazione dell’essenza nei confronti dell’esistenza, rovesciando così, volens nolens, l’anteriorità assoluta dello esse tommasiano sull’essenza[6]. Per quanto rigarda lo specifico problema del presente studio, due implicazioni di questa flessione formalista sono particolarmente  notevoli. In primo luogo, l’esse essendo soltanto la posizione di una forma nell’esistenza, ci saranno nel supposito tanti atti di essere quante forme, cosicché ogni accidente avrà il proprio esse[7]. In secondo luogo, l’appetito naturale  della sostanza verso il proprio fine, cioè il suo ordo ad operationem, verrà fondato unicamente sulla sua essenza, all’esclusione esplicita dell’esistenza, giacché quest’ultima rimane del tutto esterna alla costituzione specifica della cosa, e dunque alla finalità inserita nella sua natura[8]. Il reditus della creatura procede allora soltanto dalla sua essenza, e non dal suo esse, che in questo tipo di ontologia formale ha cessato di essere la fonte degli accidenti e delle operazioni del supposito.
            All’opposto di un tale riduzionismo, il Fabro intende quindi stabilire che lo esse tommasiano emerge al di sopra di tutti i momenti dell’ente concreto[9]. A questo scopo, egli si ispira, fra tanti altri luoghi, ad un brano del Commento sul De divinis nominibus, che si scompone in due tappe (che evidenziamo tipograficamente):

Quod autem per se esse sit primum et dignius quam per se vita et per se sapientia, ostendit dupliciter:
primo quidem, per hoc quod quaecumque participant aliis participationibus, primo participant ipso esse: prius enim intelligitur aliquod ens quam unum, vivens, vel sapiens.
Secundo, quod ipsum esse comparatur ad vitam, et alia huiusmodi sicut participatum ad participans: nam etiam ipsa vita est ens quoddam et sic esse, prius et simplicius est quam vita et alia huiusmodi et comparatur ad ea ut actus eorum[10].

Ecco il commento fabriano:

[...] l’esse come tale esprime la perfezione assoluta e il plesso emergente di tutte le perfezioni le quali così si rivelano le participazioni dell’esse stesso. Questa nozione è il punto di arrivo e la conclusione di tutta la speculazione tomistica la quale determina la “natura metafisica” (l’essenza!) di Dio come esse puro (esse per essentiam, esse imparticipatum) e la creatura come ens (esse per participationem). Il commento tomista a Dionigi c’indica due momenti di questa esaltazione suprema dell’esse:
a) la “riduzione formale” mediante la nozione di partecipazione, di tutte le perfezioni all’esse, in quanto son dette “partecipanti” alla perfezione suprema ch’è l’esse [...];
b) la “riduzione reale”, mediante la coppia aristotelica di atto e potenza, di tutte le perfezioni a “potenza” rispetto all’esse ch’è l’atto per eccellenza. È all’interno di questa riduzione che si elabora la metafisica nella sua caratteristica originaria e differenziale: essa infatti rappresenta il momento della “mutua assimilazione” e penetrazione nel Tomismo del principio platonico e di quello aristotelico[11].

La «riduzione formale» significa che, nel supposito, tutti i contenuti ivi realizzati sono anzitutto un «qualcosa che è», cioè uno ens. L’essere-tale non avrebbe alcun senso se non fosse fondamentalmente un tale-essere: in Socrate, l’umanità, la bianchezza, la sapienza non sono altro che modi di essere. Quindi già un’analisi sommaria della taleità o quiddità lascia trapelare il suo radicamento nell’essere, inteso come perfezione originaria di cui le perfezioni formali sono delle partecipazioni. Però, se rimanesse su questo piano, la resolutio dell’ente potrebbe anche accontentarsi di una metafisica delle essenze, mentre l’istanza decisiva è qui la seconda tappa, quella cioè cella «riduzione reale», che coglie nello esse l’atto fondante, e nelle perfezioni stesse di tale o tale ente concreto, delle forme o delle operazioni attuate[12]. Una formulazione particolarmente chiara dell’attualità che spetta allo esse si legge nella Quæstio disputata De anima: «ipsum esse est actus ultimus qui participabilis est omnibus ; ipsum autem nichil participat»[13]. Quindi lo esse emerge in seno all’ente ch’esso fonda precisamente in quanto è la fonte alla quale tutti i livelli della realtà concreta attingono, e dalla quale essi ricevono la loro attualità propria. In questa prospettiva, è impossibile ridurre l’atto di essere a mera funzione realizzante di un’essenza sostanziale, che avrebbe da canto suo una sua consistenza in sé e per sé, sia perché l’attualità formale dell’essenza procede dall’attualità fondante dello esse, sia anche perché esso, coerentemente con la tesi appena formulata, attua successivamente, attraverso la sostanza, le forme accidentali e le attività dell’intero supposito. Questo dinamismo dello esse, mediato dall’essenza sostanziale, non è soltanto un fatto, che l’esperienza viene infatti verificare, ma esprime un’esigenza intrinseca allo stesso atto di essere: l’ente attuato dallo esse è operante perché implica un ordo ad operationem. I passaggi teoretici che giustificano questa necessità sono i seguenti:

  1. La resolutio dell’ente creato sbocca sulla coppia di essenza e di esse, dove quella è originariamente potenza di essere, e questo, atto emergente di essere.
  2. Attuata dallo esse, l’essenza acquista un’attualità formale che si può anche descrivere come il contenuto primario dell’ente.
  3. Ma l’atto emergente di essere trascende, per natura sua, il proprio contenuto primario.
  4. Di conseguenza, l’atto di essere tende a diffondersi nell’ente oltre l’essenza in atto, nella misura consentita da quest’ultima.

In questo modo, il Fabro riconduce al suo fondamento trascendentale il principio secondo cui «quamlibet formam sequitur aliqua inclinatio»[14], che rimarrebbe inintelligibile se lo esse esaurisse la sua attualità nel fare essere l’essenza, e che diventa invece luminoso quando la forma o essenza sostanziale viene fondata su un atto che la supera[15].
            Giunti a questo punto, siamo esposti al rischio di un fraintendimento che sarebbe assai pericoloso per la corretta interpretazione dello esse emergente. In effetti, se confrontiamo il primato dell’atto di essere con la mutabilità accidentale dell’ente finito, in particolare quello corporeo vivente che vediamo assoggettato alla varietà degli scambi biologici o psichici, possiamo essere tentati di capire lo esse come il principio radicale di essere la cui intensità varia a seconda della storia compiuta dal supposito ch’esso attua. Ora, in un congresso di filosofia nel quale intervenne il P. Fabro, un partecipante dichiarò effettivamente:

[...] andrebbe tenuto conto che anche lo stesso atto di essere, in quanto proprio dei singoli enti, è l’atto di un essere successivo, storico. Negli uomini poi è l’atto di un essere, l’uomo, che è ente storico in senso forte, in cui cioè la successività (la storicità) è anche consapevole e libera[16].

Nonostante lo stile orale, la replica del filosofo stimmatino espone un punto chiave della sua dottrina :

Una Sua espressione mi ha tutto traumatizzato dentro, secondo cui l’atto di essere viene concepito come continuamente variabile. Io qui resto anceps, fortemente anceps. Se questo atto di essere è l’atto dell’ente, l’atto della sostanza, è atto sostanziale, è atto costitutivo. In me, nella posizione di ente, costituisce più l’atto di essere che non l’umanità, perché la stessa umanità è tenuta in essere dall’atto di essere. Allora questo atto profondo intimo non varia; variano le attività esistenziali, varia il mio essere nel mondo non il mio essere nell’essere[17].

Nel «parmenidismo» metafisico che Fabro riconosce in san Tommaso, l’unico atto di essere partecipato che istituisce l’ente sussistente creato è sì intensivo, ma è pure immutabile, finché dura la sostanza alla quale esso conferisce l’essere. «Esse est aliquid fixum et quietum in ente»[18]: «dopo» - sit venia verbi – che la sua intensità sia stata delimitata dall’essenza sostanziale, l’atto di essere rimane per questo determinato ente il principio fontale di attualità che non può variare, anche se le sue successive espansioni accidentali od operative possono cambiare. La ragione di questa immutabilità sta nel legame strutturale che unisce l’actus essendi alla potentia essendi che lo misura e lo costituisce[19]. Malgrado la qualifica di existential thomism che si dà talvolta all’opera di Fabro nel mondo anglosassone, con intenti diversi, la sua posizione metafisica di fondo non ha nulla di esistenzialista.
            Lo esse tommasiano è dunque emergente, ma fisso. Quale è il suo preciso rapporto a tutto ciò di cui esso è l’attualità originaria? La risposta dipende dalla soluzione di un’aporia che si presenta anche come la difficoltà centrale della filosofia dell’essere. Da un lato, infatti, diciamo con san Tommaso che tutte le perfezioni di un ente derivano dallo esse: alla luce di questo principio, l’essere dell’operazione, e la bontà che ne risulta, procede dall’atto fondante di essere[20]. Però, d’altro lato, l’Aquinate afferma pure che l’essere dell’operazione viene aggiunto (superadditum) a quello costitutivo dell’essenza sostanziale[21]. Quindi sembra che l’attualità ontologica dell’operare sia simultaneamente sotto e sopra quella dell’essere sostanziale, partecipante da esso, e ad esso aggiunta. A Fabro va riconosciuto il grande merito di aver tematizzato e, pensiamo, risolto questo problema almeno in nuce, prima con il concetto di «diremtio», poi con la distinzione fra lo esse ut actus e lo esse in actu. Vediamo.
            Mentre Dio è la sua essenza e il suo essere, l’atto creatore istituisce una scissione fra ciò che ha l’essere e l’essere ch’esso ha, fra lo ens ed il suo esse, cosicché l’ente è per il suo essere, ma non è questo essere, mentre l’essere fa essere l’ente, ma in sé solo non è. La differenza onto-teologica provoca dunque una diremtion[22] o «spartizione» del supposito, per cui l’ente e l’atto di essere differiscono l’uno dall’altro, pur richiamandosi l’uno l’altro. Ne risulta un dislivello di attualità interno all’ente creato:

E l’esse, quando è puro e «separato», cioè l’esse subsistens, è certamente atto in se stesso e per se stesso e non ha bisogno di altro, è l’unico principio ch’è sufficiente in se stesso. Ma l’esse partecipato è «caduto» nella Diremtion della differenza ontologica e quindi non è più sufficiente in se stesso: se la forma delle cose materiali abbisogna della materia come soggetto, altrettanto – anzi di più – l’esse ha bisogno della forma ovvero dell’atto formale come sua potenza. Infatti con la Diremtion che fa cadere l’esse dalla sua semplice identità nella differenza ontologica, con l’intervallo del nulla (creazione), l’esse diventa partecipato e quindi commensurato e attribuito a «qualcosa»..., come «atto» della sostanza, spirito o corpo che sia: questo qualcosa, ch’è soggetto dell’esse, non è quindi la potenza pura della materia di Aristotele, ma un principio determinativo dell’esse senza il quale l’esse partecipato non potrebbe essere tale atto, partecipato per l’appunto[23].

La diremtion mette in risalto, nella fondazione ontologica del reale, un momento cruciale poco esplorato dai tomisti prima di Fabro. Quando consideriamo lo esse e l’essenza come principi di questo ente, ma «prima» dell’ente stesso, loro si corrispondono come atto e potenza in senso stretto, di tal guisa che l’essenza, pur essendo una tale quiddità e non un’altra, non ha alcuna attualità da sola: a questo punto, si sta al termine della resolutio metafisica e, simmetricamente, all’inizio della compositio trascendentale che Dio, Esse subsistens, effettua quando crea un ente finito[24]. Ma se invece consideriamo questi principi «dopo» e «dentro» lo stesso ente reale, è chiaro che l’essenza è ormai un’essenza in atto, nel duplice senso ch’essa è realmente e che ciò che in questo modo è, è secondo tale quiddità sostanziale (e individuale negli enti corporei). Tale essenza in atto è quindi in atto per l’atto di essere, ma il suo essere in atto non coincide con il suo atto di essere. Perciò, la diremtio dell’ente creato differenzia, in esso, l’atto di essere della sostanza, da un lato, dall’essere in atto della stessa sostanza, d’altro lato. Lo esse ut actus – o atto di essere - è ciò per cui la sostanza è, e ch’essa ha in sé (e non in altro); lo esse in actu – o fatto di essere - è ciò che la sostanza è attualmente, e che funge da soggetto dello esse ut actus. Quindi l’essere come atto è il principio attuante dell’ente, ed appartiene all’ordine trascendentale anteriore alla mediazione della forma, mentre l’essere in atto è il risultato della composizione entitativa, e sta nell’ordine predicamentale posteriore, per definizione, alla mediazione della forma. Per questa ragione, l’essere sostanziale può essere inteso in due sensi: o nella dimensione dell’atto intensivo e costitutivo di essere, oppure in quella dell’essere in atto dell’essenza. Nel primo significato, lo esse (ut actus) in quanto esse, e va riferito espressamente alla sostanza prima o supposito[25]; nel secondo significato, lo esse (in actu) è unico soltanto in quanto sostanziale-essenziale, ma non inquanto esse, perché esso viene allora messo a confronto con l’esse accidentale[26]. Dunque c’è un solo esse ut actus nel supposito creato, mentre ci sono diversi esse in actu, quello sostanziale, quelli delle forme accidentali, e quelli delle operazioni[27].
            Siamo ora in grado di scogliere l’aporia dello esse superadditum, che si tratti di una forma accidentale o di un’operazione. Rispetto all’atto di essere, l’essere dell’accidente o dell’operazione non aggiunge alcun nuovo esse ut actus contrariamente a quanto voleva il tomismo formalista, ma un’espansione ulteriore di quest’ultimo attraverso la sostanza, quindi un nuovo esse in actu, cosicché la perfezione aggiunta riguarda ciò a cui si aggiunge come il partecipante al partecipato: qui vale in tutto il suo rigore teoretico il principio secondo cui non c’è nulla di più formale dello esse in senso intensivo[28]. Per contro, la forma accidentale poi l’attività transitiva o immanente si riferiscono allo esse in actu dell’essenza o forma sostanziale come un supplemento di perfezione ontologica, di modo che l’accidente e l’operazione incrementano l’attualità della sostanza: qua la sostanza nuda sta a tutto ciò di cui essa è il soggetto come la potenza all’atto[29]. All’interno del quadro speculativo aperto dalla diremtion, e solo in questo modo, si conciliano le due valenze delle forme accidentali che, da una parte, promanano dalla sostanza, mentre, d’altra parte, ineriscono in essa:

actualitas per prius invenitur in subiecto formae accidentalis, quam in forma accidentali: unde actualitas formae accidentalis causatur ab actualitate subiecti. Ita quod subiectum, inquantum est in potentia, est susceptivum formae accidentalis: inquantum autem est in actu, est eius productivum. […] iam dictum est quod accidens causatur a subiecto secundum quod est actu, et recipitur in eo inquantum est in potentia[30].

Perché il soggetto degli accidenti propri sia simultaneamente in atto e in potenza nei loro confronti, deve esserlo sotto aspetti realmente diversi, altrimenti si infrangerebbe il principio di non-contraddizione. Ma grazie alla distinzione messa in risalto dal Fabro, si capisce che la sostanza, o più precisamente la forma sostanziale, dispone con il suo esse ut actus originario di un potenziale di attualità che le consente di produrre i suoi accidenti, mentre la stessa sostanza, se considerata secondo la realtà che spetta al suo stretto esse in actu, si trova in potenza ricettiva rispetto agli stessi accidenti[31].
            Se l’operazione ha in comune con gli altri accidenti la caratteristica di inserirsi fra l’ente simpliciter ed il suo atto di essere, essa tuttavia ha in proprio la necessità di procedere dalla propria potenza operativa. La ragione sta nella proporzione che deve unire l’atto alla potenza: come l’atto di essere non può attuare che la potenza correlativa di essere, cioè l’essenza sostanziale, così anche  - mutatis mutandis – l’atto operativo non può provenire che da una virtù operativa ad esso proporzionata; perciò, la sostanza non opera direttamente da sé, ma mediante le sue potenze (qualità di seconda specie)[32]. La posizione del supposito creato instaura così al suo interno una successione di rapporti di potenza ad atto: la sostanza, in atto per quanto riguarda la sua essenza, è in potenza alle sue potenze operative, le quali poi, una volta attuate come forme accidentali, sono in potenza alle loro operazioni. Nell’aristotelismo storico che si coglie negli scritti dello Stagirita, l’οσία è prima nell’ordine della causalità formale, cosicché tutti gli altri significati dello ν si dicono in riferimento noetico ed ontologico ad essa, mentre l’νέργεια, nel senso di operazione perfetta, è prima nell’ordine della causalità finale, cosicché tutte le altre coppie di potenza ed atto sono finalizzate a questo atto ultimo, specialmente nell’ente vivente. Finché lo εναι dello ν rimaneva inesplorato in sé stesso, l’investigazione metafisica sboccava, per quanto riguarda l’ente finito, su questa resolutio duale, dove la ricerca del «cos’è l’ente» e quella del «perché è l’ente» evidenziano principi che si implicano a vicenda in maniera irriducibile[33]: la sostanza è per l’operazione, ma l’operazione è un’affezione della sostanza (πάθη οσίας[34]). In Dio solo, sostanza ed atto coincidono totalmente, perché egli è atto puro di pensare sé stesso. Nell’aristotelismo speculativo di san Tommaso, invece, la coppia lineare di οσία – specificata dal τ τί ν εναι – e di νέργεια – finalizzata dall’ντελέχεια seconda[35] – viene assunta nel dinamismo che procede dallo esse ut actus originario e quiescens ai diversi momenti integrativi dello esse in actu protesi verso il conseguimento del fine ultimo di cui è capace questo determinato ente. Non solo, quindi, la sostanza in atto primo è ordinata alla sua operazione perfettiva in atto secondo, secondo un rapporto di potenza ad atto, ma  - e sopratutto -  l’atto di essere intensivo creato da Dio insieme alla sua misura ch’è l’essenza sostanziale, attua successivamente la stessa essenza, poi, mediante quest’ultima, le forme accidentali, nonché, mediante questa volta le potenze operative, le operazioni, di tal guisa ch’esso viene partecipato dall’ente attraverso queste mediazioni in modi formalmente differenziati, ma teleologicamente indirizzati all’ultima perfezione in atto.
            Si delinea allora nell’ente creato un circolo, o se si preferisce un’altra immagine geometrica, una parabola metafisica. Sul lato che inizia dallo esse ut actus e delimitato dall’essenza correlativa, si scende lungo la catena delle partecipazioni successive, in tal modo che ogni partecipante viene poi partecipato dal momento ontologico seguente, il che rivela l’emergenza dello esse sui diversi livelli di ente ch’esso fonda[36]. Contemporaneamente però - e questo mostra poi l’inadeguatezza della metafora – la discesa diventa, a partire dallo esse in actu dell’essenza sostanziale, un’ascesa verso il compimento qualitativo ed operativo dell’intero supposito:

Ed ecco il circolo o piuttosto la spirale ascendente dell’essere: le potenze operative (forme accidentali) che derivano ovvero escono dalla forma sostanziale, fanno ritorno alla medesima o piuttosto al composto con i propri atti e abiti che sono le sue perfezioni. I protagonisti di questo dramma metafisico, che apparve al suo tempo come una rivoluzione ed oggi più che mai si presenta nella propria originalità speculativa, sono i tre atti: l’esse, la forma sostanziale e la forma accidentale. Ciascuno è fondato da l’altro e ciascuno è per l’altro, proprio perchè l’uno non può essere l’altro ma lo precede e lo fonda in un rapporto fondamentale[37].

L’ente creato è dunque come destinato ad adempire le virtualità del proprio esse ut actus, attraverso l’integrale del suo esse in actu, da quello sostanziale a quello operativo, sedimentato, nel caso dell’uomo che è il più perfetto degli enti visibili, nel complesso delle sue virtù. All’interno della diremtion, la definizione dello habitus come «modus et determinatio subiecti in ordine ad naturam rei»[38] trova la sua ultima giustificazione teoretica: tramite i suoi abiti buoni, il soggetto umano arricchische sé stesso, attuando le capacità radicate, in ultima analisi, nello esse specificato dalla sua natura. Analogicamente, questo circolo si ritrova in tutte le sostanze finite. In questa prospettiva, possiamo quindi porre che la legge dell’ente creato ossia il suo compito dinamico consiste nel convertire il proprio esse ut actus nel massimo livello raggiungibile di esse in actu. Sulla scia di un’analogia usata qualche volta da san Tommaso, si può capire l’actus essendi come una quantitas virtualis di essere che, rimanendo sempre la stessa, dispiega tuttavia la sua energia nello sviluppo o nella storia dell’ente di cui è l’atto originario, fondandone ciò che sarebbe allora la sua «quantitas actualis»[39]. In questo processo, l’essere dell’ente fa ritorno su di sé, e lo stesso exitus dà avvio al reditus[40].


[1] ST I, q. 4 a. 2c.
[2] La formula torna tre volte nel celebre brano delle QD De potentia, q. 7 a. 2 ad 9: «hoc quod dico esse est inter omnia perfectissimum: quod ex hoc patet quia actus est semper perfectior potentia. Quaelibet autem forma signata non intelligitur in actu nisi per hoc quod esse ponitur. Nam humanitas vel igneitas potest considerari ut in potentia materiae existens, vel ut in virtute agentis, aut etiam ut in intellectu: sed hoc quod habet esse, efficitur actu existens. Unde patet quod hoc quod dico esse est actualitas omnium actuum, et propter hoc est perfectio omnium perfectionum. Nec intelligendum est, quod ei quod dico esse, aliquid addatur quod sit eo formalius, ipsum determinans, sicut actus potentiam: esse enim quod huiusmodi est, est aliud secundum essentiam ab eo cui additur determinandum» (corsivo nostro).
[3] Su questo punto, cf. Avicenna, Metafisica, Trat. I, sez. 5, [31], ed. it. a cura di O. Lizzini e P. Porro, Bompiani, Milano 2002, 73: «diciamo che l’intenzione dell’esistenza e l’intenzione della cosa sono rappresentate entrambe nelle anime, essendo due intenzioni: l’esistente, dunque, è ciò [la cui esistenza] è stabilita o ciò che è dato sono sinonimi secondo uno stesso significato; e non dubitiamo che i significati [di simili termini] siano già presenti a chi legge questo libro. Con “la cosa” e con quel che sta al posto di essa, si può indicare, tuttavia, anche un’altra intenzione, in tutte le lingue. Ogni cosa ha, infatti, una realtà in virtù della quale essa è quel che è: così, il triangolo ha una realtà per cui è triangolo, il bianco ha una realtà per cui è bianco; e questa è quanto potremmo chiamare “l’esistenza propria”, senza voler indicare con essa ciò che significa l’esistenza stabilita [...]; anche con il termine “esistenza”, infatti, si indicano molte intenzioni, e fra di esse vi è la “realtà secondo la quale è la cosa”, per cui è come se “ciò secondo cui [la cosa] è” fosse l’esistenza propria della cosa».
[4] C. Fabro analizza questo processo nel suo studio  «L’obscurcissement de l’“esse” dans l’école thomiste», Revue thomiste 58 (1958), 443-472, ripreso in Participation et causalité, Publications universitaires de Louvain – Éditions Béatrice Nauwelaerts, Louvain – Paris 1961, 280-315 e tradotto in Partecipazione e causalità, 601-628.
[5] Cf. Sententia super Metaphysicam IV, lc. 2 n. 558: «Esse enim rei quamvis sit aliud ab eius essentia, non tamen est intelligendum quod sit aliquod superadditum ad modum accidentis, sed quasi constituitur per principia essentiae».
[6] La dualità irriducibile degli atti originari e la riduzione dello esse alla posizione di esistenza appaiono chiaramente nel seguente brano di Giovanni di San Tommaso, Cursus theologici, ed. di Solesmnes, t. I, In q. 3 primæ partis, disp. 4 a. 4. n. 18, Desclée, Paris – Tournai – Roma 1931, 469a: «aliter se habet actualitas formæ, et actualitas esse seu exsistentiæ ; nam forma est actus constituens aliquid in determinato genere et specie, et sic ex sua propria ratione habet terminos  suæ determinatæ perfectionis ; at vero esse seu exsistentia, ex suo proprio et formali conceptu, non est forma constituens in specie vel genere determinato, sed rem constitutam extra causas ponens : quod quidem actualitas est, et consequenter perfectio ; sed quod sit tanta vel tanta perfectio, mensuranda est et desumenda ex ipsa natura et essentia cui alligatur : v. g. exsistentia hominis est perfectior quam exsistentia lapidis, perfectione et limitatione desumptâ ex natura cujus est exsistentia. De suo enim conceptu exsistentia solum dicit actualitatem removentem potentialitatem qua aliquid est intra causas : et sic ponit extra illas». Per quanto riguarda l’analisi dell’ente finito secondo i parametri del tomismo formalista, ci permettiamo di rimandare i lettori al nostro studio A. Contat, «Le figure della differenza ontologica nel tomismo del Novecento», in Alpha Omega 11 (2008), 77-129 e 213-250, in particolare 99-105, riscontrabile anche in Aa.Vv., Creazione e actus essendi, Originalità e interpretazioni della metafisica di Tommaso d’Aquino, a cura di J. Villagrasa, [Atti di congresso, 11], Edizioni ART, Roma 2008, 193-270 (in part. 212-217).
[7] Cf. Giovanni di San Tommaso, Cursus theologici, t. I, In q. 3 primæ partis, disp. 4 a. 3 n. 38, 462a-b.
[8] Cf. Giovanni di San Tommaso, Cursus theologici, t. III, In q. 19 primæ partis, disp. 24 a. 1 n. 8bis, Desclée, Paris – Tournai – Roma 1937, 63a: «quando S. Thomas dicit quod res naturalis habet esse per formam, sufficit quod intelligatur de esse specifico seu constitutivo, non de esse exsistentiæ : inclinationes enim rerum non sequuntur ad exsistentiam, ut exsistentia, sed ad formam constituentem naturam : quia secundum diversas naturas diversificantur et inclinationes ad diversos fines ; super hoc autem esse specificum et essentiale, quod dat forma, supervenit esse exsistentiæ, quo res non constituitur, sed deducitur extra causas».
[9] Cf. Partecipazione e causalità, 636: «San Tommaso, lui soltanto, proclama l’emergenza assoluta dell’esse come atto di tutti gli atti e di tutte le forme: forme ed atti i quali pertanto “cadono” nella condizione di potenza ovvero di “capacità” recettiva dell’atto di essere. Come la forma precede la materia e la trascende così l’esse ch’è atto e perfezione dell’essenza precede e trascende la forma e l’essenza di cui è atto» (corsivo nostro).
[10] De divinis nominibus V, lc. 1 n. 635. All’inizio, il testo citato da Fabro porta senius al posto di dignius.
[11] C. Fabro, «La problematica dello “esse” tomistico», in Tomismo e pensiero moderno, [Cathedra sancti Thomae, 12], Pontificia Università Lateranense 1969, 108-109. Sul tema dell’emergenza dello esse, cf. anche Partecipazione e causalità, 186-187; «L’emergenza dell’atto di essere in S. Tommaso e la rottura del formalismo scolastico», in Aa.Vv., Il concetto di ‘Sapientia’ in san Bonaventura e san Tommaso, Officina di Studi Medievali, Palermo 1983, 35-54, in part. 50-51; «L’emergenza dello esse tomistico sull’atto aristotelico: breve prologo», in Aa.Vv., L’atto aristotelico e le sue ermeneutiche, Atti del colloquio internazionale, Laterano 17-18-19 gennaio 1989, a cura di M. Sanchez Sorondo, Herder – Università Lateranense, Roma 1990, 149-177, in part. 170-177. 
[12] Cf. C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo san Tommaso d’Aquino, 197: «Il concetto di esse, come ho accennato di sopra, presenta una duplice convergenza: una come pienezza assoluta di tutte le forme e perfezioni, come esse intensivo formale (nozione a cui s’arresta la metafisica di tipo scotista o suareziano); un’altra come atto originario, atto di ogni atto, ecc., e che non si trova sulla linea retta di una mera potenziazione formale ma che esige il “passaggio ad altro”, all’ineffabile energia primordiale che ci fa emergere sul nulla [...]».
[13] QD De anima, q. 6 ad 2.
[14] ST I, q. 80 a. 1c.
[15] La differenza fra la concezione riduttiva dell’atto di essere e quella emergente è stata espressa in maniera anch’essa molto chiara, da J. de Finance, in Être et agir dans la philosophie de saint Thomas, 2a ed., Librairie éditrice de l’Université grégorienne, Roma 1960, 160: «Le principe de la limitation de l’acte, dont la “distinction réelle” est la plus fameuse application, se peut comprendre de deux façons. Concevons un acte tellement adéquat à la puissance qui le reçoit qu’il en sature toutes les possibilités : la composition d’acte et de puissance rendra raison des caractères statiques du composé ; elle n’en expliquera point le dynamisme ; les deux composants resteront absorbés tout entiers par leur fonction réciproque. Mais l’on peut aussi concevoir que l’acte, tout en satisfaisant la puissance sous un certain rapport, n’en épuise pas absolument toutes les aptitudes, permette, provoque même un enrichissement ultérieur».
[16] A. Di Giovanni in Aa.Vv., «Dibattito congressuale», Il problema del fondamento, Atti del IV. Convegno Nazionale dei docenti italiani di filosofia delle Facoltà, Seminari e Studentati religiosi d’Italia, Sapienza 26 (1973), 398. Una simile concezione evolutiva dello esse traspare in J.B. Lotz, Mensch Sein Mensch, Pontificia Università Gregoriana, Roma 1982, 172: «Nach unseren Darlegungen ist das Sein der Vollzug seiner selbst oder Selbst-vollzug».
[17] C. Fabro, in Aa.Vv., op. cit., 398.
[18] CG I, c. 20 n. 27 (Marietti, n. 179).
[19] Cf. C. Fabro, Partecipazione e causalità, 390: «Tutt’altra invece è la situazione rispetto all’esse, il quale essendo proporzionato all’essenza, non può trascendendere il grado formale dell’essenza stessa: “Esse autem est aliquid fixum et quietum in ente [...]”». Ci sembra interessante rilevare che, su questo problema come su diversi altri, É. Gilson sostiene la stessa posizione in «Virtus Essendi», Mediaeval Studies 26 (1964), 1-11, in particolare 9: «L’étant (ens) peut se mesurer ; il est plus ou moins selon les degrés de perfection de son essence, mais l’être (esse) en vertu duquel il est un étant, est ou n’est pas, sans degrés possibles. Pris en soi, comme acte formel de l’essence mais hors de l’essence, l’esse est étranger à la quantité, au plus et au moins, au mouvement et au temps, à plus forte raison au devenir ».
[20] Cf. ad es. C. Fabro, «L’esse tomistico e la ripresa della metafisica», in Tomismo e pensiero moderno, 403: «Per S. Tommaso, l’esse nel suo significato metafisico (come actuss entis, actus essendi...) è l’atto primo e non un astratto o un predicato (!): l’esse è il principio-fondamento (Grund, nel senso ontologico-metafisico) di ogni forma, essenza, perfezione, realtà... concreta in atto. L’esse è l’atto partecipato da ogni realtà in atto, è la partecipazione trascendentale per eccellenza».
[21] Cf. Expositio libri Boetii De ebdomadibus, lc. 4: «alia uero bonitas consideratur in eis absolute, prout scilicet unumquodque dicitur bonum in quantum est perfectum in esse et in operari, et hec quidem perfectio non competit bonis creatis secundum ipsum esse essenciale eorum, set secundum aliquid superadditum quod dicitur uirtus eorum ut supra dictum est»; De divinis nominibus IV, lc. 1: «res aliae, etsi inquantum sunt, bonae sint, tamen perfectam bonitatem consequuntur per aliquod superadditum supra eorum esse».
[22] alle volte diremptio, comunque dal verbo latino dirimere.
[23] C. Fabro, Partecipazione e causalità, 350.
[24] Cf. C. Fabro, Dall’essere all’esistente, 1a ed., Morcelliana, Brescia 1957, 41: «Per S. Tommaso (a differenza di tutta la tradizione patristica e scolastica, prima e dopo di lui) l’essenza va detta potenza e in potenza rispetto all’esse partecipatum ch’è l’atto primo metafisico, derivato da Dio, ch’è l’esse per essentiam. Così la creatura, ovvero il finito, perché fondata sull’essenza che di per sé è non-ens rispetto all’esse, ha in sé il nihil, è fondata sul nihil e di per sé tende al nihil: ma non è un nihil».
[25] Cf. ad es. ST I, q. 45 a. 4c: «Illi enim proprie convenit esse, quod habet esse; et hoc est subsistens in suo esse. Formae autem et accidentia, et alia huiusmodi, non dicuntur entia quasi ipsa sint, sed quia eis aliquid est».
[26] Cf. ad es. QD De unione uerbi incarnati, a. 3c: «Quia vero unum convertitur cum ente, sicut est esse accidentale et esse substantiale, ita dicitur aliquid esse unum vel multa vel secundum formam accidentalem, vel secundum substantialem».
[27] Cf. C. Fabro, Partecipazione e causalità, 199-200: «Una conferma ed un’applicazione dell’esse essentiae (l’essenza metafisica), è la divisione dell’esse in esse substantiale ed esse accidentale che non può riguardare direttamente l’esse come actus essendi, il quale è l’atto proprio della sostanza completa (substantia prima)». Il tema della distinzione fra esse ut actus ed esse in actu viene sviluppato anche in Id., «La problematica dello “esse” tomistico», 117-125.
[28] Cf. QD De anima, q. 1 ad 17m, che al primato dello esse associa la sua comunicabilità: «licet esse sit formalissimum inter omnia, tamen est maxime communicabile».
[29] Cf. l’opuscolo giovanile De principiis naturae, c. 1: «Sicut autem omne quod est in potentia potest dici materia, ita omne a quo aliquid habet esse, quodcumque esse sit sive substantiale, sive accidentale, potest dici forma; sicut homo cum sit potentia albus, fit actu albus per albedinem, et sperma, cum sit potentia homo, fit actu homo per animam. Et quia forma facit esse in actu, ideo forma dicitur esse actus. Quod autem facit actu esse substantiale, est forma substantialis, et quod facit actu esse accidentale, dicitur forma accidentalis». In questa spiegazione elementare, l’Aquinate si tiene al piano aristotelico degli atti formali.
[30] ST I, q. 77 a. 6c.
[31] Sul problema dell’emanazione degli accidenti propri, cf. lo studio ottimamente documentato di J. F. Wippel, The Metaphysical Thought of Thomas Aquinas, From Finite Being to Uncreated Being, The Catholic University of America Press, Washington D.C. 2000, 266-275. L’A. nota a p. 275: «One might wish that  Thomas had spelled more fully what it means for the soul or for a substantial subject to serve “in a certain way” as an active or productive or efficient cause of its proper accidents». Pensiamo che la dottrina fabriana che abbiamo brevemente riassunta offre, con la soluzione del quesito, la sua completa fondazione teoretica.
[32] Cf. ad es. QD De spiritualibus creaturis, a. 11c: «impossibile est quod alicuius substantie create sua essentia sit sua potentia operatiua. Manifestum est enim quod diuersi actus diuersorum sunt ; semper uero actus proportionatur ei cuius est actus. Sicut autem ipsum esse est actualitas quedam essentie, ita operari est actualitas operatiue potentie seu uirtutis : secundum enim hoc utrumque eorum est in actu, essentia quidem secundum esse, potentia uero secundum operari. Vnde cum in nulla creatura suum operari sit suum esse, set hoc sit proprium solius Dei, sequitur quod nullius creature operatiua potentia sit eius essentia ; set solius Dei proprium est ut sua essentia sit sua potentia».
[33] Cf. A. de Muralt in Aristote, Les Métaphysiques, Traduction analytique des livres Γ, Ζ, Θ, Ι, et Λ, 244: «Il apparaît ainsi que substance et acte sont des principes principiellement divers (primo diversa) de ce qui est en tant qu’il est, uns selon l’unité de ce qui est dit selon la proportion et selon l’unité de ce qui est dit par rapport à un premier, l’acte étant en l’occurrence le principe premier et final auquel est ordonnée la substance elle-même, comme à sa perfection d’être (entelecheia), de même que la substance est le principe formel premier auquel est ordonnée la matière».
[34] Aristotele, Metaphysica Γ, 2, 1003 b 7.
[35] Cf. Aristotele, De anima Β, 412 a 22-23.
[36] Cf. C. Fabro, Introduzione a san Tommaso, La metafisica tomista & il pensiero moderno, Ares, Milano 1997, 159: «iv. L’esse, cioè l’actus essendi partecipato che costituisce con l’essenza l’ente in atto come sinolo trascendentale, è pertanto l’atto primo sia del sinolo predicamentale di materia e forma nei corpi, sia del sinolo operativo di sostanza e accidenti negli enti finiti e del sinolo trascendentale di essenza e di esse (actus essendi)»; « vi. “Ente” è quindi il “semantema primario” sia nell’ordine statico (che implica la composizione dell’essenza reale con l’actus essendi), sia nell’ordine dinamico come primo fondamento della sostanza nell’operare, così che l’atto dell’operare è per partecipazione dell’atto di esse, quale atto primo della sostanza».
[37] C. Fabro, Partecipazione e causalità, 375.
[38] ST I-II, q. 49 a. 2c.
[39] Cf. ad es. QD De ueritate, q. 29 a. 3c: «Est autem duplex quantitas, scilicet dimensiva, quae secundum extensionem consideratur, et virtualis, quae attenditur secundum intensionem; virtus enim rei est eius perfectio secundum illud Philosophi in VII Physicorum “Unumquoque perfectum est quando attingit propriae virtuti”; et sic quantitas virtualis uniuscuiusque formae attenditur secundum modum suae perfectionis. […] ex hoc quod dicitur ens, consideratur in eo quantitas virtualis quantum ad perfectionem essendi». La quantità virtuale dell’ente proviene dalla sua forma in atto, e quindi dallo esse, al quale essa deve la propria attualità.
[40] Cf. C. Fabro, Partecipazione e causalità, 228: «Si potrebbe quasi dire, con terminologia hegeliana, che mentre la quantitas extensiva si manifesta come “rapporto ad altro”, la quantitas virtualis ed intensiva si attua come “rapporto a se stesso” nel ritorno completo su di sè, come il nuovo infinito positivo».

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