Benozzo Gozzoli, Le triomphe de saint Thomas d'Aquin, 1471

dimanche 6 février 2011

La triplice causalità divina sull'ente creato

            Per il Dottore Comune, la «processione delle creature da Dio»  -  un sintagma che non a caso rieccheggia le processioni trinitarie – si articola secondo le tre causalità efficiente, esemplare e finale, che sono tutte le causalità attuanti estrinseche. Esse giocano un ruolo strutturante nella dinamica di tutto il segmento della Ia pars dedicato alla creazione, come lo visse bene Ghislain Lafont[1], il che rivela l’importanza che assumono nell’ontologia tommasiano del creato.
            L’investigazione della causalità creatrice comincia quindi, nella questione 44 della Summa theologiae, con la causalità efficiente. C’è sicuramente un motivo teologico per questa scelta, giacché l’efficienza è appropriata alla prima Persona divina, quella del Padre[2]. Però non si può dimenticare che la creazione essendo l’istituzione di un ente che deve il suo essere a colui che ha l’Essere come nome proprio, l’Aquinate è coerente con la propria teoresi quando studia la causalità che dà lo esse prima delle due altre. Pertanto il primo articolo intende stabilire che Dio è causa efficiente di tutti gli enti. Il respondeo imposta la dimostrazione sul principio di partecipazione, che viene formulato qua in una proposizione condizionale:

Si enim aliquid invenitur in aliquo per participationem, necesse est quod causetur in ipso ab eo cui essentialiter convenit[3].

Ciò che è per partecipazione è necessariamente causato da ciò che è per essenza: il rapporto verticale di partecipante a partecipato presuppone nell’ordine reale un rapporto di causazione efficiente per cui ciò sui spetta per essenza la perfezione da partecipare la produce nel partecipante. L’evidenza di per sé immediata di questo assioma appare forse meglio grazie all’analogia secondo la quale il partecipante sta al partecipato come la potenza all’atto, perché è ovvio che ciò che è in potenza non può essere attuato, e quindi ricevere un atto partecipato, se non da ciò che possiede questo atto in maniera non partecipata[4]. Nel luogo che citiamo, il principio di partecipazione viene adoperato in via iudicii, giacché si ha già provato che Dio è l’essere sussistente, e che quest’ultimo può essere uno solo, di tal guisa che la minore può sussumere che l’ente che non è Dio ha l’essere per partecipazione[5]. Quindi la conclusione pone che tutto l’ente graduato secondo il più o il meno essere viene causato dall’ente che è al massimo della perfezione, cioè dell’essere stesso, percorrendo in senso opposto l’itinerario della quarta via:

Ostensum est autem supra cum de divina simplicitate ageretur, quod Deus est ipsum esse per se subsistens. Et iterum ostensum est quod esse subsistens non potest esse nisi unum [...]. Relinquitur ergo quod omnia alia a Deo non sint suum esse, sed participant esse. Necesse est igitur omnia quae diversificantur secundum diversam participationem essendi, ut sint perfectius vel minus perfecte, causari ab uno primo ente, quod perfectissime est[6].

Dio è dunque causa efficiente dell’ente creato in quanto gli conferisce uno esse partecipato[7]. Ma Dio, come abbiamo appena ricordato, è Essere per essenza; ora, secondo un altro assioma omne agens agit simile sibi, giacché l’agire transitivo consiste nel comunicare qualcosa della sua forma; di conseguenza, il dono dello esse al di fuori di sé non è soltanto un effetto di Dio, ma ne è l’effetto sia proprio che esclusivo, perché nessun altro ente possiede l’essere come sua «forma» propria, come, secondo l’esempio utile della fisica antica che spesso usa Tommaso in questo contesto, il calore è l’effetto proprio ed esclusivo del fuoco[8]. Dal lato opposto del rapporto creaturale, l’ente per partecipazione deve tutta la sua perfezione ontologica al suo atto di essere partecipato, che è «actualitas omnium actuum et propter hoc est perfectio omnium perfectionum»[9]; perciò, non c’è nessuna attualità e nessuna formalità, nell’ente, che non sia causata da Dio tramite lo esse e quindi creata. La causalità efficiente divina, nel suo ordine, è totale, poiché raggiunge così ogni particolare dell’ente creato, ch’esso sia spirituale o materiale, nonostante la complessità delle forme accidentali o la dispersione delle sostanze naturali nell’estensione materiale[10].
Per caratterizzare questa universalità, estensiva e sopratutto intensiva, della causalità creatrice nonché del suo effetto proprio, Cornelio Fabro ha coniato le espressioni di «causalità trascendentale» e di «mediante transcendentale»:

come tutti gli atti e tutte le perfezioni dell’ente sono attuate dall’esse (partecipato) ch’è l’atto kat'™xoc»n, atto e sempre atto e soltanto in atto – sia pure per partecipazione – Dio, ch’è l’esse (per essenza) e quindi causa propria diretta e immediata dell’esse partecipato è causa propria diretta e immediata di tutti quegli atti e di tutte le perfezioni. Si ha quindi, e non sarà detto mai abbastanza, che l’esse è veramente il principio «mediante trascendentale» che fonda ed esige la causalità totale intensiva di Dio rispetto alla creatura[11].

In questa ottica, san Tommaso assume la tesi del Liber de causis per cui «prima rerum creatarum est esse», chiarificandone però il significato, giacché lo esse che Dio produce è soltanto l’oggetto della sua causalità, e non un soggetto che sussisterebbe da solo[12]. Con questa precisazione, si può affermare che la creazione verte sullo esse oppure sullo ens in quanto commune, e questa tesi è infatti indispensabile all’intelligibilità del sapere metafisico[13]; ma si tratta allora di un’oggettivazione del nostro pensiero, che non si riscontra come tale nella realtà[14]: nell’ambito del creato, lo esse non ha consistenza al di fuori dello ens in quanto hoc ens.
            Ora un ente reale è sempre un ente «tale», vogliamo dire un ente a proposito del quale si può chiedere «cos’è per questo l’essere?», cioè il quod quid erat esse o quiddità[15]. Per quanto concerne Dio stesso, la risposta non può essere, per Tommaso, che Qui est, al di là di ogni finitudine. Trattandosi invece del creato, ogni ente ha l’essere secondo una certa misura, che lo costringe entro limiti definitori. Dunque all’universalis modus essendi dello Esse subsistens si oppone il determinatus modus essendi dello ens per participationem[16]: l’Atto puro di essere coincide con la sua essenza, mentre l’atto partecipato di essere viene ristretto dalla sua essenza, che si comporta nei suoi confronti come una potenza determinante, nel doppio senso di specificazione e di limitazione. Così l’essenza gioca nell’ente per partecipazione il ruolo del modulo che fissa l’intensità del suo essere, e con essa la sua costituzione sostanziale. Pertanto, la creazione dell’atto di essere non può avvenire, da parte del Creatore, senza un’idea che ne predetermini quel modulo e che ne sia per così dire il modello increato. In breve, la causalità divina efficiente coinvolge sempre la causalità esemplare[17]. Nella Somma di teologia, quest’ultima viene ricondotta alle idee divine, la cui realtà non differisce poi dalla stessa essenza divina:

Haec autem formarum determinatio oportet quod reducatur, sicut in primum principium, in divinam sapientiam, quae ordinem universi excogitavit, qui in rerum distinctione consistit. Et ideo oportet dicere quod in divina sapientia sunt rationes omnium rerum, quas supra diximus ideas, id est formas exemplares in mente divina existentes. Quae quidem, licet multiplicentur secundum respectum ad res, tamen non sunt realiter aliud a divina essentia, prout eius similitudo a diversis participari potest diversimode[18].

L’ente creato risulta quindi misurato sui due piani ontologici ai quali è connesso. Sul livello immanente della propria consistenza creata, il suo atto di essere è proporzionato a quella potenza di essere che è la sua essenza[19]; e sul livello trascendente del suo esemplare increato, lo stesso ente trova il suo prototipo nell’idea divina, che è come la misura secondo la quale esso partecipa in maniera finita alla pienezza infinita dell’essenza divina.
            Partecipazione dell’ente creato all’Essere sussistente increato in virtù dell’efficienza divina mediata dallo esse inerente nella sostanza; partecipazione dell’ente creato all’Essenza increata in virtù dell’esemplarità divina oggettivata nell’idea divina e mediata dall’essenza e dalle forme concrete: la metafisica dell’exitus non può non chiedersi se le due causalità efficiente ed esemplare fondano una sola oppure due distinte linee di partecipazione fra la creatura ed il Creatore. Nella sua tesi del 1942, il Padre Louis-Bertrand Geiger O.P. sosteneva che san Tommaso mette a fuoco due sistemi di partecipazione, imperniati sui due coprincipi dell’ente, correlativi alle due causalità divine. Rispetto all’efficienza creatrice, la donazione di un atto di essere finito non può avvenire senza ch’esso venga «composto» (cum-positum) con un’essenza che ne misuri l’intensità, differenziandola ipso facto dall’infinità dell’Essere divino; così l’atto creatore istituisce un primo tipo di partecipazione, che il Geiger chiama «partecipazione per composizione». Ora quest’ultima non avviene senza l’essenza, la quale non è nulla; anzi, essa trova il suo modello nell’idea divina, che definisce a sua volta il modo in cui l’ente finito rispecchia qualcosa dello splendore proprio all’Essenza infinita. Ne consegue che la creazione implica un altro tipo di partecipazione, designata come «partecipazione per somiglianza». Nonostante il primato dell’atto di essere sull’essenza, questa partecipazione fondata sull’esemplarità pare al Geiger più originaria di quella derivata dall’efficienza, perché solo il rapporto di somiglianza indica la «parte» dell’Essere increato alla quale partecipa l’ente creato[20].
            Il P. Fabro respinge questa concezione di una doppia partecipazione[21]. In effetti, già la nozione stessa di partecipazione implica la convergenza di diversi soggetti nel ricevere una perfezione partecipata, e la loro divergenza nel possederla in maniera intrinsecamente  diversa e gerarchicamente ordinata a seconda della capacità propria dei partecipanti, cosicché la somiglianza, in quanto sintesi di identità e di differenza, non è un principio, ma un risultato, la cui causa è la composizione stessa fra il partecipato ed il partecipante: questo è simile al partecipato trascendente in virtù del partecipato immanente, e non in virtù di sé stesso, cioè come recipiente anteriore a ciò che riceve[22]. Formalizzando il rapporto, si potrebbe dire che il partecipante è tale solo in quanto sta sotto il partecipato che lo attua e ch’esso restringe entro i suoi limiti. Nella partecipazione per antonomasia che è quella dell’essere, bisogna quindi distinguere due momenti nella considerazione dell’essenza: in sé stessa, essa non è ancora simile a Dio, ma è come un grado, o una capacità di somiglianza; intuita invece in quanto sta sotto il proprio esse, essa somiglia allora in atto al suo esemplare increato. Postulare invece che l’essenza partecipi da sola all’Essenza divina porterebbe in fondo a distruggere ogni partecipazione, giacché da un lato la pluralità delle essenze diventerebbe un dato assoluto anziché una gerarchia nell’avere parte all’essere, mentre d’altro lato lo esse venirebbe omologato nella funzione di «far esistere» che non ammette gradi. Al contrario, derivando la somiglianza dalla composizione, si capisce che l’ente per partecipazione è tale nella misura stessa in cui riceve una «parte» dell’essere che, in Dio, sussiste nella sua pienezza infinita. Dunque l’ente creato procede sì dal Creatore secondo due linee causali, quella efficiente e quella esemplare[23]; però una sola è la relazione di partecipazione dell’ente finito all’Essere infinito, ed è la partecipazione che, risultando dalla composizione dello esse - atto di essere creato con la sua essentia - potenza di essere correlativa, fonda un rapporto di somiglianza fra questo ente e l’Essere da cui proviene. La riflessione speculativa non deve lasciarsi ingannare da una falsa simmetria fra le due coppie di causa efficiente / esse creato da una parte, e di causa esemplare / essentia creata d’altra parte, come se fossero autonome l’una rispetto all’altra. Infatti, né la potenza divina non produce alcunché al di fuori di Dio senza farlo secondo una idea, né l’atto di essere creato può essere tale senza un’essenza che lo limiti e lo specifichi, cosicché ciascuna di queste quattro istanze implica per sé le tre altre, nonostante la distinzione reale fra i due co-principi dell’ente creato e la distinzione nozionale delle due linee causali. Così la dipendenza creaturale subordina un ente in atto all’Essere che è il suo atto, di modo che il rapporto di somiglianza si dà fra ciò che ha l’essere per partecipazione e colui che è l’Essere per essenza, e non fra due essenze[24].
            Ma omne agens agit propter finem: per Tommaso, questa proposizione è assiomatica, giacché l’agere richiede necessariamente la predeterminazione dell’agendum, altrimenti il legame ontologico per se quarto fra l’agente e l’effetto venirebbe meno, di tal guisa che, da una parte l’agente non si muoverebbe, mentre d’altra parte l’«effetto» non sarebbe propriamente tale, ma diventerebbe un puro evento concomitante, legato solo per accidens a ciò che lo precederebbe[25]. Pertanto, pure la creazione degli enti risponde ad un fine; però Dio essendo atto puro, l’atto creatore non gli può ovviamente aggiungere alcuna attualità ulteriore, ma comunica gratuitamente qualcosa della sua bontà alla creatura, la quale trova invece la sua perfezione nel congiungersi al principio dal quale procede :

Est autem idem finis agentis et patientis, inquantum huiusmodi, sed aliter et aliter: unum enim et idem est quod agens intendit imprimere, et quod patiens intendit recipere. Sunt autem quaedam quae simul agunt et patiuntur, quae sunt agentia imperfecta; et hic convenit quod etiam in agendo intendant aliquid adquirere. Sed primo agenti, qui est agens tantum, non convenit agere propter acquisitionem alicuius finis ; sed intendit solum communicare suam perfectionem, quae est eius bonitas. Et unaquaeque creatura intendit consequi suam perfectionem, quae est similitudo perfectionis et bonitatis divinae. Sic ergo divina bonitas est finis rerum omnium[26].

Quindi lo exitus a principio porta con sé l’esigenza ontologica del reditus in finem[27]: la donazione dell’essere all’ente si compie nel ritorno del donatario al donatore attraverso la fecondità del dono, che spinge il supposito creato al proprio perfezionamento. Così, se la creatura si riferisce a Dio, secondo un nesso di provenienza, come un ente per partecipazione all’Essere per essenza, allora la stessa creatura sarà ordinata a Dio come un bene per partecipazione alla Bontà per essenza secondo un nesso di finalità. L’ente per partecipazione rimanda a Dio come primo efficiente in quanto il suo atto di essere viene composto con la sua essenza, ed a Dio come primo esemplare in quanto lo stesso esse viene misurato dall’essenza concreata; adesso il medesimo ente per partecipazione rimanda a Dio come ultimo fine in quanto la sua bontà particolareggiata perché partecipata è di per sé ordinata alla bontà per essenza dell’Essere sussistente[28]. Questa terza linea causale fonda un nuovo aspetto della partecipazione, che si palesa come assimilazione non più statica, ma dinamica della creatura al Creatore.
            Come si articola questa teleologia con la partecipazione costitutiva dell’ente creato, quella radicata nel plesso di essere e di essenza? Nella questione 44 dedicata alla triplice causalità creatrice, l’Angelico concepisce l’appetito di ogni cosa per il suo fine come un «partecipare la somiglianza divina», mediato dalla tensione verso il proprio bene, ricorrendo quindi alla nozione di partecipazione anche nell’ambito della finalità divina[29]. Premettendo che la ratio boni esplicita la ratio entis aggiungendovi l’appetibilità, che è proporzionale all’attualità[30], possiamo fondare l’ordo ad bonum della creatura nella sua ordinazione all’atto in quanto perfettivo. Ora, l’analisi metafisica ci consente di distinguere tre livelli di attualità effettiva nell’ente finito: quello che risulta dall’essenza sostanziale in atto; poi quello che integra successivamente le forme accidentali, e specialmente gli habitus, grazie ai quali la cosa è pienamente costituita in actu primo; e finalmente quello che viene raggiunto tramite le operazioni, ed in particolare quella più perfetta nella facoltà più elevata, in cui ogni sostanza creata trova la sua perfezione ultima in actu secundo. Il ritorno della creatura a Dio si scandisce quindi secondo i tre gradi sovrapposti dello esse sostanziale, dello esse superadditum degli accidenti, nonché dell’operari[31], oppure, in maniera più sintetica, secondo i due livelli di bontà creata, il cui primo corrisponde alla natura della cosa, ed il cui secondo corrisponde all’esercizio della sua virtù operativa[32]. Esseoperari: la partecipazione vista alla luce della causalità finale assume la dimensione della forma o essenza reale, ma la supera verso quella dell’attività, che sia transitiva oppure immanente, cosicché la somiglianza che unisce il partecipante creato al partecipato increato appartiene al registro dell’atto più che a quello del contenuto, a differenza della somiglianza istituita dal rapporto di esemplarità. Certamente, si tratta di momenti complementari, e non opposti, poiché la quiddità della cosa è subordinata al suo essere in atto, mentre viceversa l’operazione riceve comunque la sua qualificazione dal soggetto dal quale procede poi dall’oggetto ch’essa guarda. Nondimeno, la partecipazione vista alla luce dell’esemplarità evidenzia il rapporto che vige fra il «cos’è» dell’ente, e il suo archetipo divino, cosicché si tratta allora del contenuto dell’essere partecipato, mentre la partecipazione colta nella prospettiva del fine manifesta il «perché» dell’ente, mostrando ch’esso è per la sua operazione in cui trova la sua ultima bontà immanente, poi che entrambi, operante ed operare, sono per Dio, Bontà trascendente. Così disponiamo di un primo abbozzo di risposta al nostro quesito: componendo un atto di essere con un’essenza[33], la creazione istituisce un ente che, da un lato, è uno ed è identico à sé, perché la sua quiddità fa che il suo essere in atto sia un essere tale, ma che, d’altro lato, differisce dal proprio atto di essere, il quale tende ad espandersi in operatività, ovviamente nei limiti consentiti dalla propria essenza. La chiave del nostro problema sta quindi nell’«emergenza» dello esse al di sopra dello ens ch’esso fa essere. Ricevuto nell’essenza, questo l’atto di essere tiene una virtus o «energia» ontologica che non si esaurisce nell’attuazione di una determinata sostanza, ma  - sit venia uerbi – straripa, «emerge» appunto al di là dei limiti della quiddità sostanziale, ed è pertanto riemerge nelle operazioni del supposito.


[1] Cf. G. Lafont, Structures et méthodes dans la “Somme théologique” de saint Thomas d’Aquin, 2a ed., [Cogitatio fidei], Cerf, Paris 1996, in part. 151-171.
[2] Cf. ST I, q. 39 a. 8c, «secundum quartam considerationem». [?]
[3] ST I, q. 44 a. 1c.
[4] Per l’analogia fra participans / partipatum e potentia / actus, considerata all’interno dell’ente, cf. ST I, q. 75 a. 5 ad 4; Quaestiones de quolibet III, q. 8 a. 1c; De substantiis separatis, c. 3.
[5] In un precedente studio dedicata alla quarta via, abbiamo mostrato che il principio di partecipazione è pure valido in via inventionis proprio quando verte sullo esse, perché l’atto di essere fonda non soltanto l’intelligibilità dell’ente finito, ma appunto il suo ... essere. Cf. A. Contat, «La quarta via di san Tommaso d’Aquino e le prove di Dio di sant’Anselmo di Aosta secondo le tre configurazioni dell’ente tomistico», in Aa.Vv., Sant’Anselmo di Aosta, Doctor Magnificus, a cura di A. Aguilar, in stampa.
[6] ST I, q. 44 a. 1c. Lo stesso percorso dimostrativo si riscontra in Compendium theologiae I, c. 69: «Adhuc. Omne quod habet aliquid per participationem, reducitur in id quod habet illud per essentiam, sicut in principium et causam [...]. Ostensum est autem supra, quod Deus est ipsum suum esse, unde esse convenit ei per suam essentiam, omnibus autem aliis convenit per participationem: non enim alicuius alterius essentia est suum esse, quia esse absolutum et per se subsistens non potest esse nisi unum, ut supra ostensum est. Igitur oportet Deum esse causam existendi omnibus quae sunt».
[7] Cf. Lectura super Ioannem c. 1, lc. 5 n. 133: «Creare autem est dare esse rei creatae». Vedasi pure Scriptum  I, d. 37 q. 1 a. 1c. Per san Tommaso, è proprio l’essere che consente al teologo di pensare l’atto creatore come donazione, contrariamente a quanto postula Jean-Luc Marion.
[8] Cf. QD De potentia, q. 3 a. 4c: «Primus autem effectus est ipsum esse, quod omnibus aliis effectibus praesupponitur et ipsum non praesupponit aliquem alium effectum; et ideo oportet quod dare esse in quantum huiusmodi sit effectus primae causae solius secundum propriam virtutem». Vedasi anche CG III, c. 66 n. 4 e 7 (Marietti n. 2410 e 2413); ST I, q. 45 a. 5c; QD De potentia, q. 7 a. 2c; Quaestiones de quolibet XII, q. 5 a. 1c, nonché Super Librum De causis, lc. 4, dove san Tommaso commenta l’assioma neoplatonico «prima rerum creatarum est esse».
[9] È la notissima formula di QD De potentia, q. 7 a. 2 ad 9.
[10] Cf. CG III, c. 69 n. 9 (Marietti n. 2430): «Sed [Deus] immensitate suae virtutis attingit omnia quae sunt in loco: cum sit universalis causa essendi, ut dictum est».
[11] C. Fabro, Partecipazione e causalità, [Opere Complete, 19], Editrice del Verbo Incarnato, Segni 2010, 441.
[12] Cf. ST I, q. 45 a. 4 ad 1: «cum dicitur, prima rerum creatarum est esse, ly esse non importat subiectum creatum; sed importat propriam rationem obiecti creationis».
[13] Cf. ST I-II, q. 66 a. 5 ad 4: «ens commune est proprius effectus causae altissimae, scilicet Dei».
[14] Cf. CG I, c. 26 n. 5 (Marietti n. 241): «Quod est commune multis, non est aliquid praeter multa nisi sola ratione: sicut animal non est aliud prater Socratem et Platonem et alia animalia nisi in intellectu [...]. Multo igitur minus et ipsum esse commune est aliquid prater omnes res existentes nisi in intellectu solum».
[15] Su questa interpretazione del τὸ τί ἦν εἶναι aristotelico, cf. A. de Muralt in Aristote, Les Métaphysiques, Traduction analytique des livres Γ, Ζ, Θ, Ι, et Λ, Les Belles Lettres, Paris 2010, 410: «La célèbre expression to ti ên einai paraît obscure à beaucoup. Elle est pourtant d’une grande simplicité. Elle est, sous forme substantivée et dans les mêmes termes, la réponse à la question “qu’est ce que être (pour telles chose)”».
[16] Cf. De substantiis separatis, c. 8: «Sed considerandum est, quod ea quae a primo ente esse participant, non participant esse secundum universalem modum essendi, secundum quod est in primo principio, sed particulariter secundum quemdam determinatum essendi modum qui convenit vel huic generi vel huic speciei».
[17] Cf. Scriptum I, d. 3 q. 3 a. 1c: «In intellectu enim divino similitudo rei intellectae est ipsa divina essentia, quae est rerum causa exemplaris et efficiens».
[18] ST I, q. 44 a. 3c.
[19] Il sintagma «potentia essendi» si riscontra, a proposito dell’essenza, in Sententia super Physicam VIII, lc. 21 n. 13: «Omnis ergo substantia quae est post primam substantiam simplicem, participat esse. Omne autem participans componitur ex participante et participato, et participans est in potentia ad participatum. In omni ergo substantia quantumcumque simplici, post primam substantiam simplicem, est potentia essendi».
[20] Cf. L.-B. Geiger, La participation dans la philosophie de S. Thomas d’Aquin, Vrin, Paris 1942, 36-73, dove l’A. formula la posizione del problema, che ne comanda l’esito duale. Rileviamo a p. 65: «La limitation des formes est première dans son ordre, irréductible. On ne peut espérer en rendre raison par l’appel à une composition avec d’autres éléments, ou à l’inhérence dans quelque sujet, car ces éléments comme ce sujet doivent être eux-mêmes déterminés et limités pour être, et leur limitation demanderait à être expliquée à son tour». Questa obiezione cade nel momento in cui l’essenza viene considerata per ciò che è, cioè una potenza o capacità di essere, giacché il proprio di una potenza è di essere limitante, non limitata.
[21] Cf. C. Fabro, Partecipazione e causalità, 52-60; La nozione metafisica di partecipazione, [Opere Complete, 3], Editrice del Verbo Incarnato, Segni 2005, 26-29; «La determinazione dell’atto nella metafisica tomista», in Esegesi tomista, [Cathedra sancti Thomae, 11], Pontificia Università Lateranense, Roma 1969, 331.
[22] Cf. Scriptum I, d. 48 q. 1 a. 1c: «omne simile oportet esse compositum ex eo in quo convenit cum alio simili, et ex eo in quo differt ab ipso, cum similitudo non sit nisi differentium».
[23] Per san Tommaso, tutti gli attributi divini sono simultaneamente causa efficiente ed esemplare dello loro somiglianze create, cominciando ovviamente dallo Esse identico in Dio alla Essentia. Cf. Scriptum I, d. 10 q. 5 a. 1 ad 4: «omnia attributa divina sunt principium productionis per modum efficientis exemplaris; sicut bonitatem omnia bona imitantur, et essentiam omnia entia, et sic de aliis»; stessa dottrina in Scriptum I, d. 38 q. 1 a. 1c.
[24] Cf. Scriptum II, d. 16 q. 1 a. 1 ad 3: «convenientia potest esse dupliciter: aut duorum participantium aliquod unum, et talis convenientia non potest esse Creatoris et creaturae, ut objectum est; aut secundum quod unum per se est simpliciter, et alterum participat de similitudine ejus quantum potest; ut si poneremus calorem esse sine materia, et ignem convenire cum eo, ex hoc quod aliquid caloris participaret: et talis convenientia esse potest creaturae ad Deum, quid Deus dicitur ens hoc modo quod est ipsum suum esse; creatura vero non est ipsum suum esse, sed dicitur ens, quasi esse participans; et hoc sufficit ad rationem imaginis». Questo ragionamento evidenzia bene che il rapporto di somiglianza che unisce la creatura al Creatore si gioca sullo esse, e non primariamente sull’essenza ut sic come presupponeva il P. Geiger.
[25] Cf. al riguardo CG III, c. 2, in particolare n. 8 (Marietti n. 1825); ST I-II, q. 1 a. 2c; Expositio Libri Posteriorum I, lc. 10, n 7.
[26] ST I, q. 44 a. 4c.
[27] Cf. Scriptum I, d. 14 q. 2 a. 2c.
[28] Cf. ST I, q. 103 a. 3c: «Manifestum est enim quod bonum habet rationem finis. Unde finis particularis alicuius rei est quoddam bonum particulare: finis autem universalis rerum omnium est quoddam bonum universale. Bonum autem universale est quod est per se et per suam essentiam bonum, quod est ipsa essentia bonitatis: bonum autem particulare est quod est participative bonum. Manifestum est autem quod in tota universitate creaturarum nullum est bonum quod non sit participative bonum. Unde illud bonum quod est finis totius universi, oportet quod sit extrinsecum a toto universo».
[29] Cf. ST I, q. 44 a. 4 ad 3: «omnia appetunt Deum ut finem, appetendo quodcumque bonum, sive appetitu intelligibili, sive sensibili, sive naturali, quia est sine cognitione: quia nihil habet rationem boni et appetibilis, nisi secundum quod participat Dei similitudinem». Sottolineiamo la necessità del nesso fra la ratio boni e la partecipazione assimilativa a Dio.
[30] Cf. De divinis nominibus IV, lc. 1: «unumquodque enim bonum est, secundum quod est res actu».
[31] Cf. CG III, c. 20 n. 8 (Marietti n. 2016): «manifestum est enim quod res in Deum sicut in finem non solum secundum esse substantiale, sed etiam secundum ea quae ei accidunt pertinentia ad perfectionem; et etiam secundum propriam operationem, quae etiam pertinet ad perfectionem rei».
[32] Sulla duplex bonitas dell’ente creato, cf. la Expositio libri Boetii De ebdomadibus, lc. 4: «in bonis creatis est duplex bonitas, una quidem secundum quod dicuntur bona per relationem ad primum bonum, et secundum hoc et esse eorum et quicquid in eis est a primo bono est bonum; alia uero bonitas consideratur in eis absolute, prout scilicet unumquodque dicitur bonum in quantum est perfectum in esse et in operari, et hec quidem perfectio non competit bonis creatis secundum ipsum esse essenciale eorum, set secundum aliquid superadditum quod dicitur uirtus eorum». 
[33] Ricordiamo che l’efficienza divina non crea soltanto l’atto di essere, ma pure l’essenza che lo specifica. Cf. QD De potentia, q. 3 a. 5 ad 2: «ex hoc ipso quod quidditati esse attribuitur, non solum esse, sed ipsa quidditas creari dicitur: quia antequam esse habeat, nihil est, nisi forte in intellectu creantis, ubi non est creatura, sed creatrix essentia».

Aucun commentaire:

Enregistrer un commentaire

Remarque : Seul un membre de ce blog est autorisé à enregistrer un commentaire.