Benozzo Gozzoli, Le triomphe de saint Thomas d'Aquin, 1471

dimanche 21 novembre 2010

La riduzione dell'ente a possibile trascendentale in Giovanni Duns Scoto

            Cos’è lo ens per Giovanni Duns Scoto? Tutti sanno ch’egli difende, sia contro san Tommaso d’Aquino che contro Enrico di Gand, l’univocità dell’ente[1] nonché la sua distinzione formalis a parte rei dalle sue stesse proprietà trascendentali convertibili, tali l’uno, il vero ed il buono. Sebbene, però, queste due caratteristiche giochino un ruolo decisivo, e da sempre riconosciuto, nell’economia della scientia transcendens ch’è la metafisica, esse, tuttavia, vengono colte nello ens in quanto esso differisce da ciò a cui si riferisce, sia dal punto di vista della predicabilità (l’univocità) che da quello dalla formalità (la distinzione formale). Ci vorremmo invece chiedere oggi cos’è l’ente in sé stesso. A questo scopo, utilizzeremo due serie di distinzioni sistematiche, la prima desunta dalle Quæstiones quodlibetales, l’altra dall’Ordinatio.


1.         I tre significati dell’ens secondo la terza Quæstio quodlibetalis

            Per lo Scozzese, quindi, il concetto di ens si dice secondo tre significati distinti. La caratteristica comune a tutti e tre è la non-contraddittorietà, e definisce anche il primo senso:

‘Communissime’, prout se extendit ad quodcumque quod non est ‘nihil’ quod includit contradictionem, et solum illud, quia illud excludit omne esse extra intellectum et in intellectu […]. Ens ergo vel res isto primo modo accipitur omnino communissime, et extendit se ad quodcumque quod non includit contradictionem, sive sit ens rationis, hoc est praecise habens esse in intellectu considerante, sive sit ens reale, habens aliquam entitatem extra considerationem intellectus[2].

La clausola «quia illud excludit…» vuole dire che la nozione di ente viene considerata qua in tutta la sua estensione, anteriormente alla sua posizione fuori dell’intelletto oppure dentro l’intelletto, a seconda della distinzione classica nella scolastica tardo-medioevale fra l’ente che è posto in un predicamento oppure è l’ente divino, da una parte, e l’ente che non ha consistenza a di fuori dell’atto stesso dell’intelletto in atto secondo d’altra parte. Questo senso corrisponde all’ens primum cognitum:

Et isto intellectu communissimo, prout res vel ens dicitur quodlibet conceptibile quod non includit contradictionem (sive illa communitas sit analogiae sive univocationis, de qua non curo modo) posset poni ens primum obiectum intellectus, quid nihil potest esse intelligibile quod includit rationem entis isto modo, quia, ut dictum est prius, includens contradictionem non est intelligibile : et isto modo, quaecumque scientia, quae non solum vocatur realis, sed etiam quae vocatur rationis, est de re sive de ente[3].

Si deve già sottolineare che, per Scoto, l’ente primo conosciuto viene colto al di qua dell’essere reale delle cose, nella pura consistenza intelligibile di ciò che non racchiude in sé alcuna contraddizione.
            Il secondo senso restringe l’ente a ciò la cui entità può essere fuori dell’anima:

In secundo autem membro istius primi membri dicitur res quod habere potest entitatem extra animam. Et isto modo videtur loqui Avicenna I Metaphysicae, cap. 5 [melius cap. 6] quod ea quae sunt communia omnibus generibus sunt res et ens. […] [L’ente in questo secondo modo è quindi] illud quod habet vel habere potest proprium esse extra intellectum[4].

Si noti la divisione fra «quod habet» e «habere potest», che rieccheggia la distinzione fra l’ente in quanto esiste, e l’ente in quanto capace di esistere al di fuori dell’anima. L’ente in questo secondo senso non è quindi tanto l’ente reale quanto l’ente cui spetta una possibilità di realtà. Si precisa poi che questa possibilità appartiene solo a ciò che ha un’entità chiaramente distinguibile dalle altre, e questo lo restringe ulteriormente, nella sfera del finito, a tre primi predicamenti, sostanza, quantità, e qualità:

Boethius […] vult ergo distinguere rem contra circumstantiam, et sic, secundum eum, sola tria genera, substantia, qualitas et quantitas rem monstrant, alia vero rei circumstantias. Hoc ergo nomen ‘res’, in secundo membro acceptum, dicit aliquod ens absolutum, distinctum contra circumstantiam sive modum, qui dicit habitudinem unius ad alterum[5].

L’ente inteso in questo secondo significato si estende quindi ad ogni entità che sia, in primo luogo, suscettibile di realtà, e che, in secondo luogo, costituisca un’oggettività «assoluta», vale a dire intelligibile senza riferimento ad un altro. Si badi bene che la qualità e la quantità rispondono a questi criteri, perché sono distinti formaliter dalla sostanza in cui normalmente ineriscono.
            Il terzo significato esclude invece tutti gli accidenti, relativi o assoluti, e si concentra sulla sostanza:

Ens, ergo, sive simpliciter sive potissime dictum, et hoc sive sit analogum sive univocum, accipit ibi Philosophus pro ente cui per se et primo convenit esse, quod est substantia sola[6].

La proposizione «cui per se et primo convenit esse» deve intendersi, già dal contesto precedente, come una possibilità di essere, e non come un essere attuale. Il Dottore Sottile conclude la sua divisione dell’ente in questo modo:

Sic ergo sub primo membro, communissime, continentur ens rationis et ens quodcumque reale. Sub secundo, ens reale et absolutum. Et sub tertio, ens reale et absolutum et per se ens[7].

Questa prima tavola dei significati dello ens si articola dunque per modum inclusi et includentis, poiché il primo significato contiene il secondo, che contiene il terzo. Qualcosa, però, è rimasto inesplorato: la distinzione fra ciò che ha l’essere al di fuori dell’intelletto, e ciò che, soltanto, può averlo. Questo punto viene chiarito tramite un’altra nozione, quella dello ens ratum.


2.        Lo ens ratum e i suoi due significati

            Enrico di Gand faceva risalire il lemma res al verbo reor, reris, cioè «calcolare», «pensare». Una res è dunque un qualcosa che può essere pensato, vale a dire un oggetto che può essere in qualche modo oggettivato dall’intelletto. A questo significato di ratum, costruito a partire dalla pensabilità, Duns Scoto contrappone quello di ratitudo per la quale la res o lo ens, per lui equivalenti, sono costituiti in sé stessi, anteriormente alla stessa intelligibilità[8]. A questo scopo, egli distingue due tipi di consistenza (ratitudo) dello ens:

dico quod ‘ens ratum’ aut appellatur illud quod habet ex se firmum et verum esse, sive essentiae sive exsistentiae (quia unum non est sine altero, qualitercumque distinguantur), aut ‘ens ratum’ dicitur illud quod primo distinguitur a figmentis, cui scilicet non repugnat esse verum essentiae vel exsistentiae[9].

Nel primo senso, lo ens ratum si riferisce quindi a quell’ente reale che esiste, e che include perciò sia lo esse essentiae che lo esse exsistentiae, cioè la consistenza intelligibile e la posizione di esistenza, secondo la terminologia che Enrico ha lasciato in eredità alla scolastica a lui posteriore. Nel secondo senso, invece, lo ens ratum è ciò che distingue dagli oggetti immaginari senza vera consistenza intelligibile, e che, pertanto, possiede una non-ripugnanza ad un vero esse essentiae vel exsistentiae. Honnefelder osserva che, nel primo caso, la ratitudo è condizionata da un rapporto di fondazione alla causa che produce l’ente, mentre, nel secondo caso, essa è indipendente dalla causalità, di tal guisa che la cosa può allora essere definita ex se[10]. In questo senso, l’ente è ciò che, anteriormente all’essere reale, possiede una densità che già lo distingue dal nulla, indipendemente dal fatto che sia o non sia attualmente esistente:

Si secundo modo intelligatur ens ratum, dico quod homo est ex se ens ratum, quia formaliter ex se non repugnat sibi esse: sicut enim cuicumque aliquid repugnat, repugnat ei formaliter ex ratione eius, ita cui non repugnat formaliter, non repugnat propter rationem ipsius; et si homini de se repugnaret esse, per nullum respectum advenientem posset ei repugnare[11].

Si deve ammirare la straordinaria finezza con la quale il Doctor Subtilis procede, in questo testo, alla dissociazione fra la quiddità e lo esse nel quale essa veniva inserita nel sintagma aristotelico quod quid erat esse. Lo Stagirita si chiedeva, a proposito di un interlocutore concreto: che cosa è per te essere ? E rispondeva che, per te essere non è essere musico, bensì essere uomo, perché si cerca ciò che è essere per te stesso: ρα ϰατ σαυτόν[12]. Nell’interpretazione di Scoto, la quiddità diventa ciò a cui non ripugna l’essere, anteriormente all’essere stesso.


3.        L’ente possibile trascendentale

            Quale sarà il rapporto fra questo ens ratum secundo modo da una parte, e lo ens absolutum della classifica tripartita d’altra parte? Limitandoci al testo ed al contesto immediato, vediamo che lo ens ratum secundo modo sembra coincidere con lo ens che tiene qualche entitas al di fuori dell’intelletto, e che tale entitas consiste nel poter avere qualche esse extra intellectum. Questa coerenza o consistenza interna dell’ente precede tutti i suoi modi, sia infinito – finito che necessario - possibile[13]. Infatti Dio, che è l’ente infinito e necessario, viene descritto come «cui non repugnat esse, sed est ex se ipsum esse»[14], mentre l’ente possibile si coglie invece come «illud, cui non repugnat esse et quod non potest ex se esse necessario»[15]: ciò «cui non repugnat esse» è l’elemento comune a tutti i modi dell’ente. Di conseguenza la non-ripugnanza all’essere dello ens ratum secundo modo non si identifica con la possibilità logica, che è solo un membro di una delle sue passiones disiunctae. Lo stesso Scoto attesta che:

Nec est hic fingendum quod homini non repugnat quia est ens in potentia, et chimaerae repugnat quia non est ens in potentia, - immo magis e converso, quia homini non repugnat, ideo est possibile potentia logica, et chimaerae quia repugnat, ideo est impossibile impossibilitate opposita; et illam possibilitatem consequitur possibilitas obiectiva[16].

La non-ripugnanza precede quindi e fonda la possibiltà logica, la quale è solo un suo modo, l’altro essendo la necessità: ne risulta che tale non-ripugnanza non è altro che la condizione di possibilità trascendentale di tutti i modi dell’ente. Questa trascendenza non è ancora quella moderna, perché si impone al pensiero, e non proviene dallo «io penso»; però è già lontanissima da quella dell’Aquinate, sia perché non è più ancorata nell’actus essendi, che è totalmente sparito dalla speculazione scotista, sia perché si risolve nell’autoposizione del possibile, come lo vede bene Olivier Boulnois:

Mais qu’est-ce qui fonde l’intelligibilité du pensable ? Non pas la pure fiction, forgée par l’imagination ou l’opinion, mais une possibilité véritable, possédant un être ratum, consistant (res a ratitudo), et non purement pensé (res a reor) ? […] Mais cette non-contradiction à son tour est sans raison : il n’y a pas de règle universelle permettant de distinguer le possible de l’impossible, l’essence de la fiction. Le seul motif est particulier et réside à chaque fois dans la nature de la chose même : si la pierre peut être produite dans l’être intelligible, et non la chimère, cela n’a d’autre fondement que leur teneur formelle[17].

Si vede allora che l’autonomia ontologica della quiddità e del suo ens ratum rende impossibile una metafisica della partecipazione, giacché l’ente ha la sua ragione in sé, e non in un altro, neanche nell’esemplarità divina.


[1] Cf. Ioannes Duns Scotus, Lectura I, d. 3 p. 1 q. 1-2 n. 98-99.
[2] Ioannes Duns Scotus, Quaestiones quodlibetales, q. 3 n. 8-9.
[3] Loc. cit., n. 11.
[4] Loc. cit., n. 12-13.
[5] Loc. cit., n. 14.
[6] Loc. cit., n. 15.
[7] Loc. cit., n. 16.
[8] La nozione di ratitudo e la sua importanza nella metafisica du Duns Scoto è stata investigata da L. Honnefelder, in «Die Lehre von der doppelten ratitudo entis und Ihre Bedeutung für die Metaphysik des Johannes Duns Scotus» in Aa.Vv., Deus et Homo ad mentem I. Duns Scoti, Societas Internationalis Scotistica, Roma 1972, 661-671.
[9] Ioannes Duns Scotus, Ordinatio I, d. 36 q. un. n. 48.
[10] L. Honnefelder, art. cit., 666-667.
[11] Ioannes Duns Scotus, Ordinatio I, d. 36 q. un. n. 50.
[12] Cf. Aristotele, Metafisica Ζ, 4, 1029 b 12-16.
[13] Cf. L. Honnefelder, art. cit., 669: «[…] da in der ratio der non-repugnantia ad esse keinerlei Relation der Abhängigkeit enthalten ist, vielmehr diese non-repugnantia „formal aus sich“ besteht, kündigt sich hier eine „absolute“ Bedeutung von ens an, die auch der Unterscheidung in ens contingens und ens necessarium, ens finitum und ens infinitum noch voraufliegt».
[14] Cf. Ioannes Duns Scotus, Ordinatio I, d. 36 q. un. n. 50.
[15] Cf. Ioannes Duns Scotus, Ordinatio I, d. 43 a. un. n. 7.
[16] Ioannes Duns Scotus, Ordinatio I, d. 36 q. un. n. 61.
[17] O. Boulnois, Être et représentation, Une généalogie de la métaphysique moderne à l’époque de Duns Scot (XIIIe – XIVe siècle), Presses universitaires de France, Paris 1999, 441.

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