Gli studiosi che abbiamo convocati nei tre messaggi precedenti concordano su un punto chiave: anche se i due santi dottori avviano una parte dei loro argomenti a partire dalle perfezioni trascendentali e dei loro gradi, l’ultimo fondamento sul quale riposa ogni dimostrazione di Dio, almeno implicitamente, consiste nell’ente e nel suo corretto dispiegamento metafisico. Perciò, un confronto filosoficamente rilevante fra le nostre tre ermeneutiche della quarta via deve evidenziare quale precisa nozione dell’ente e dello esse viene messa a fuoco da ciascuna di loro. A questo scopo, bisogna premettere la tavola dei significati dell’ente che l’Aquinate eredita dallo Stagirita e sulla base della quale egli non solo commenta la Metafisica ma innesca pure la propria riflessione:
Hic Philosophus distinguit quot modis dicitur ens. Et circa hoc tria facit. Primo distinguit ens in ens per se et per accidens. […] Deinde cum dicit «secundum se» distinguit modum entis per se : et circa hoc tria facit. Primo distinguit ens, quod est extra animam, per decem praedicamenta, quod est ens perfectum. Secundo ponit alium modum entis, secundum quod est tantum in mente […]. Tertio dividit ens per potentiam et actum[1].
Quindi i significati dell’ente si leggono a partire dall’enunciazione e dai suoi presupposti nella realtà e nel pensiero. Ora in un enunciato di percezione di tipo <questo è tale>, che costituisce l’operato più elementare del giudizio, possiamo distinguire quattro momenti. Dal punto di vista del nesso giudicativo, l’attribuzione può essere per sé, se il predicato scaturisce necessariamente dal soggetto, oppure per accidente, se vi si riferisce in maniera contingente. Lasciando da parte questa situazione, che non interessa la scienza, abito delle proposizioni dimostrabili necessarie, ci sono poi tre altre divisioni derivate dall’attribuzione per sé. La prima riguarda il contenuto del predicato in riferimento ad un soggetto – sostanza prima, e ci dà l’elenco delle dieci categorie o predicamenti. La seconda si prende dalla relazione di adeguazione che la copula dell’enunciazione istituisce fra l’intelletto giudicante e la cosa giudicata, e sbocca sulla coppia di vero e di falso, intesi come proprietà del conoscere, non dell’essere. La terza distingue finalmente fra l’ente dicibile in atto e in potenza, secondo che l’ente considerato emerge nel mondo (o anche nel pensiero), oppure si riduce ad una capacità di essere (o di essere pensato) più o meno prossima. Integrando questa tripartizione dei significati per sé dell’ente nella propria teoresi, san Tommaso la intensifica e, ad un tempo, la semplifica, di modo che diventa, se conserviamo lo stesso ordine, la sequenza di essenza, verità, ed atto di essere[2]. Queste tre nozioni di ente si combinano in tutta la metafisica, e specialmente nella sua ultima fase, propriamente sapienziale, quando si mostra che Dio, Atto sussistente di essere, si espande gratuitamente al di fuori di sé stesso creando degli enti composti di un atto partecipato di essere e di una essenza individuale, poi che tale plesso entitativo può a sua volta manifestarsi all’intelletto umano mediante l’adeguazione del predicato al soggetto nel plesso intenzionale che risulta dall’attribuzione. I disaccordi fra tomisti si riscontrano nella spiegazione del costitutivo e del ruolo precisi che appartengono a ciascuno di questi tre significati, nonché della loro successione epistemologica. Sotto questo duplice aspetto, l’ermeneutica della quarta via ha valore di carta tornasole, come mostrerà adesso l’analisi strutturale delle tre posizioni alle quali ci siamo interessati. Le riprendiamo in un ordine diverso, cominciando dall’interpretazione per la causalità, e seguendo così la scansione dei tre modi di essere per sé, come si vedrà subito.
[1] La riduzione della quarta via alla causalità e l’ente predicamentale
Nella prospettiva del tomismo «classico», l’ente graduato che serve di base alla quarta via presenta all’intelletto un doppio volto: da un lato, esso possiede una certa perfezione, che è appunto quella del suo grado di essere; d’altro lato, questa perfezione esiste. Il grado di perfezione viene all’ente attraverso la sua essenza concreta, che rileva dalla significazione categoriale dell’ente; invece, l’esistenza dello stesso ente risulta dallo esse, che si ricollega al significato dell’ente secondo l’atto e la potenza. Notiamo già, quindi, che questa impostazione della quarta via coinvolge i due significati estra-mentali dell’ente. Di per sé, l’essenza è univoca, e quindi non potrebbe ammettere una variazione delle sue note costituenti senza sparire. Aristotele l’aveva già notato, le quiddità sono come i numeri[3] che cambiano specie se vengono sottoposti ad addizione o sottrazione. Se l’ente si riferisce ad un massimo, non lo deve direttamente all’essenza, ma indirettamente, in quanto quest’ultima specifica lo esse e pertanto ne determina e ne limita l’intensità possibile. Considerato in sé stesso, lo esse non implicherebbe alcun limite di perfezione, cosicché potrebbe essere un Esistere illimitato ed infinito; ma, nella realtà osservabile, questo esse è misurato da «qualcosa», cioè l’essenza, che è altra da esso. Ne risulta il principio sul quale il P. de Couesnongle impernia la prova: lo esse in quanto misurato non è per sé, ed è quindi per un altro, intendendo con il «per» un rapporto di causalità efficiente. Siccome poi è ovvio che non si può risalire all’infinito nella gerarchia delle cause efficienti, occorre fermarsi ad un primo Esse, che non sia misurato da una essenza diversa da lui. Il motore dell’argomento si trova quindi nel passaggio dallo esse misurato allo esse causato, e quindi nella loro distinzione, che riecheggia quella della perfezione e dell’esistenza. Questa, lo esse causato, fa sì che ciò che è, esista; quella, l’essenza specificante lo esse, fa sì che ciò che è, realizzi un certo grado di nobiltà ontologica. In questa coppia, lo esse è il principio più formale in assoluto, perché senza di esso l’ente nemmeno sarebbe; però, l’essenza gode di un primato derivato sul piano della specificazione, perché è il principio al quale l’ente deve il suo posto nella gerarchia degli esseri. In totale, lo esse dà all’ente la sua realtà, ed è così il mediatore formale dell’efficienza divina, mentre l’essenza dà allo stesso la sua specificazione, attraverso quella dello esse, ed è pertanto il mediatore formale della somiglianza a Dio, secondo il più e il meno. Sottolineiamo che, in questo sistema, l’ente finito consta di due atti: quello originario dello esse, e quello formale dell’essenza. Dal punto di vista dell’efficienza, l’essenza è in potenza allo esse, senza il quale semplicemente non sarebbe; ma dal punto di vista della specificazione, l’essenza attua, in un certo senso, lo esse, comunicandogli la taleità che lo fissa in un determinato grado. Sintetizzando i due punti di vista, si potrebbe dire che, nello stesso istante, lo esse attua l’essenza nell’ordine reale, e le consente ipso facto di specificarlo nell’ordine formale[4]. Ci sono pertanto due linee di dipendenza che, dall’ente finito, risalgono a Dio: la prima è quella dell’esemplarità che si fonda sull’essenza, non direttamente in quanto tale o tale, ma in quanto misura di essere secondo il più o il meno, il che implica un massimo; la seconda linea è poi quella dell’efficienza che si basa sullo esse, il quanto il suo essere misurato, nell’ente finito, richiede una causa trascendente. Nella quarta via, l’esemplarità è necessaria, ma serve solo a stabilire la possibilità di un maxime ens la cui essenza non limiterebbe lo esse, il quale sarebbe allora il massimo di perfezione. Per arrivare alla necessità del maxime ens, è indispensabile il ricorso all’efficienza, grazie alla quale si dimostra l’esistenza dello Esse infinito, dal quale proviene, per via di causalità, ogni esse finito.
Se trascriviamo questo dualismo della perfezione formale e della causalità efficiente all’interno della tripartizione dei significati per sé dell’ente, vediamo che, in questo tipo di tomismo, la quarta via procede dall’ente, atto esistenziale specificato dall’ente categoriale, fino all’Ente massimo, atto puro di esistere che non è specificato da nient’altro che da sé stesso. Alla base della prova, lo esse e l’essenza sono uniti, ma ciascuno gode di una consistenza propria; al vertice, l’essenza e l’essere si fondono nell’Essere divino: quindi il passaggio in via inventionis si effettua dall’atto esistenziale finito all’Atto di esistere puro che lo causa, e non dalla perfezione finita alla perfezione infinita dello Esse illimitato. Questo ultimo rapporto non viene negato, ma la sua esplorazione viene riservata alla via iudicii. Siccome la partecipazione sembra connotare principalmente una relazione di somiglianza deficiente fra il partecipante ed il partecipato[5], che si dà quindi sul registro della perfezione più che su quello dell’atto, si capisce allora perché la quarta via passa formalmente attraverso la causalità, e non direttamente attraverso la partecipazione, e tantomeno attraverso la misura. Siamo ora in grado di trarre una conseguenza di grande importanza per il nostro studio: la simmetria fra le coppie di esse – essenza e di esistenza attuale – perfezione formale conduce ad interpretare la quarta via in termini di causalità, e non di partecipazione, perché quest’ultima non può superare, in via inventionis, la soglia del possibile.
Il giudizio che si formulerà sulle prove del Doctor Magnificus a partire da questa concezione non potrà essere che negativo. Se, infatti, il nesso causale fra atto esistenziale limitato ed Atto di esistere illimitato è il punto di passaggio obbligato della quarta via, allora tutto l’argomentare anselmiano finisce in un vicolo cieco, perché non esce dall’ambito dell’essenza. Questa valutazione riguarda in primo luogo il Proslogion, lo IQM non potendo oltrepassare lo statuto di un oggetto ideale; ma la stessa invalidità colpisce pure il Monologion, poiché, nonostante una certa vicinanza lessicale, le perfezioni trascendentali che servono di punto di partenza si colgono, per Anselmo, nell’essenza, imperfetta, delle cose, ed indicano, in ultima analisi, un Dio che è Somma Essenza. Fra la quarta via e gli argomenti anselmiani, si dà pertanto una divergenza totale.
[2] La riduzione della quarta via alla misura trascendentale e l’ente come copula
Il tomismo trascendentale, che sia belga o tedesco, imposta la quarta via su un’altra dualità, quella che oppone il contenuto di coscienza al suo orizzonte. Per poter oggettivare l’appartenenza, normalmente effettiva o addirittura necessaria, di un predicato ad un soggetto, l’intelletto deve «prima» anticipare la totalità delle attribuzioni possibili, che sarebbe il significato ultimo della copula <è>. Quindi la manifestazione alla coscienza giudicativa di un oggetto finito presuppone l’anticipazione di un orizzonte di apparizione infinito. Due significati per sé dell’ente stanno, mutatis mutandis, all’opera in questa coppia. L’oggetto essendo formalmente un certo quid, esso rientra nella tavola dei predicamenti, che divide l’ente «secondo gli schemi» dell’attribuzione; ma si tratta, inizialmente, del predicato pensato, o concetto (Begriff), e non subito della quiddità estra-mentale, come accadeva nella posizione precedente. L’orizzonte si riferisce invece alla funzione attributiva del giudizio, che si esplicita in tre strati di significazione: in primo luogo, lo <è> significa la composizione stessa fra il predicato ed il soggetto che è il frutto dell’atto giudicativo; in secondo luogo, la relazione di attribuzione rimanda alla verità dell’enunciato, intesa come adeguazione della forma significata dal predicato con la cosa denotata dal soggetto[6]; in terzo luogo, finalmente, lo <è> della copula deve, secondo questa scuola, essere ricondotto alla sua condizione di possibilità trascendentale, che sarebbe l’anticipazione (Vorgriff) dell’essere stesso, inteso come totalità di tutto ciò che potrebbe essere. La rilettura della quarta via avviene all’interno di questa tensione bipolare fra il contenuto oggettivato, da una parte, e la condizione trascendentale di oggettivazione, d’altra parte. Il primo viene detto essente (Seiendes), essendo ciò che è, almeno, in un primo tempo, di fronte alla soggettività, mentre il secondo è l’essere stesso (Sein selbst), perché è ciò che rende possibile ogni ente particolare. Fra gli essenti che appaiono alla coscienza, uno gode di un privilegio particolare: si tratta dell’atto stesso di coscienza oggettivato attraverso una riflessione sussequente, la cui esistenza non può essere messa in dubbio. Confrontando questa evidenza con quella dell’orizzonte trascendentale, il pensiero speculativo si trova davanti ad un chiasma ontologico, che esige una risoluzione. Infatti, la coscienza di sé oggettivata appare, da un lato, come un essente reale ma finito, mentre, d’altro lato, la sua condizione di possibilità, cioè l’essere stesso, viene posta come qualcosa di infinito, ma che sembra ancora soltanto possibile. A questo punto, basta sottomettere i dati del problema al principio secondo il quale il più non può provenire dal meno, cosicché lo statuto ontologico della condizione non può essere inferiore a quella del condizionato; ora l’essere infinito è la condizione di possibilità di quell’essente finito reale che è la coscienza di sé; dunque l’essere infinito non può essere soltanto possibile, ma deve essere reale, per fondare la realtà di ciò ch’esso condiziona[7]. In questo modo, si passa dall’essere infinito come orizzonte dell’intenzionalità all’Essere infinito sussistente come fondamento di tutto ciò che appare nonché di tutto ciò che è; e si è inoltre riusciti a superare l’opposizione dell’idealismo e del realismo, varcando la frontiera fra l’intenzionale e il reale.
Dal punto di vista dei significati per sé dell’ente, questa reinterpretazione della quarta via fa ricorso a due di loro. All’inizio, abbiamo l’ente come copula del giudizio, da una parte, che viene collegato all’ente come verità, poi l’autocoscienza giudicativa, d’altra parte, che viene collegata all’ente come atto, anche se finito. Alla fine, l’orizzonte dell’ente-copula viene assorbito nell’Attualità infinita di Dio. Schematicamente, l’argomento percorre tre stadi ontologici: l’essente finito attuale dello io; l’essere infinito potenziale del suo orizzonte; l’Essere infinito attuale di Dio. Il passaggio dalla prima tappa alla seconda si fa attraverso una dialettica trascendentale secondo la coppia di misurato e misura; e il passaggio dalla seconda alla terza tappa sottomette la condizione di possibilità trascendentale al principio di causalità, regolato a sua volta dal principio di non contraddizione. In estrema analisi, l’intero procedimento dipende da due tesi: ciò che si potrebbe chiamare il principio di misura, in virtù del quale il finito è possibile soltanto grazie all’infinito; poi la riformulazione ad hoc del principio di causalità, per cui la condizione di possibilità deve essere in atto se il condizionato lo è. Il momento cruciale, in questo itinerario, sta nel rovesciamento dialettico che trasforma l’essere stesso, posto come totalità dei possibili relativa all’intenzionalità giudicativa, in Essere assoluto, posto come Attualità pura sussistente in sé stessa. All’opposto dell’interpretazione per la causalità, che risale all’Atto perfetto a partire dall’ente categoriale e dal suo essere in atto imperfetto, tutta l’ambizione del metodo trascendentale è di giungere allo stesso Atto divino a partire dall’ente come copula del giudizio, fondando la potenzialità di questo nell’attualità di quello. Una volta compiuta questa fondazione, il rapporto di misurazione intenzionale che riferisce l’essente limitato all’essere stesso diventa un rapporto di partecipazione ontologica, e si assume allora tutta la speculazione tommasiana al riguardo.
Nei confronti di Anselmo, possiamo caratterizzare questa posizione come convergenza trascendentale. Infatti, sia la quarta via che gli argomenti del Monologion vengono riletti alla luce di un maximum che non è un essente al di sopra degli altri, ma è invece lo stesso essere che, pur rendendo possibile tutti gli essenti, si differenzia da tutta la sfera degli essenti. Similmente, anche l’argomento del Proslogion viene recepito, ma non senza una profonda rielaborazione, che identifica lo IQM all’essere stesso, e ne legittima l’esistenza come garante della consistenza propria degli essenti. In sintesi, i cammini seguiti dai due dottori della Chiesa convergono, ma solo dopo una rifondazione trascendentale del maxime ens, che utilizza e supera la riflessione heideggeriana sulla differenza ontologica.
[3] La riduzione della quarta via alla partecipazione e l’essere come atto
Il «tomismo essenziale» di Cornelio Fabro, ai risultati del quale si avvicinò assai, per conto suo, Étienne Gilson, mette in discussione le due letture precendenti. È risaputa l’avversione di questi due tomisti per la confusione fra l’ente intenzionale del giudizio e l’ente reale dell’esperienza che, secondo loro, il tomismo trascendentale genera inevitabilmente[8]. Bisogna quindi tornare alle res sulle quali si basano tutte e cinque le vie dell’Aquinate. È pacifico, per tutti i discepoli dell’Aquinate, che una res, ossia un ens, consta di una essenza, che rientra nella tavola delle categorie, e dello esse, che le dà la sua attualità. L’originalità della terza scuola che abbiamo presentata sta nella suo modo di spiegare la composizione reale. Il tomismo classico, come abbiamo visto, interpreta la distinzione di essenza e di essere in termini di perfezione, da una parte, e di esistenza, d’altra parte, di tal guisa che l’essenza viene concepita come l’attualità formale che conferisce alla cosa il suo tipo di perfezione, vale a dire il suo essere tale o tale, mentre lo esse viene ridotto ad un principio di attualità esistenziale, senza il quale la cosa non sarebbe, ma che esaurisce il suo ruolo in questa posizione di realtà. Questa concezione si riscontra già nel contingentismo avicenniano ed inspira la distinzione tardo-medioevale fra lo esse essentiae e lo esse existentiae, contro la quale insorge il Fabro[9]. Bisogna opporle la coppia autenticamente tommasiana di esse e di essentia, nella quale l’atto di essere è l’unica fonte di attuazione dell’ente, che racchiude sia l’esistenza che la perfezione, cioè tutta la ricchezza ontologica della cosa, mentre l’essenza è la capacità recettiva potenziale che limita lo esse ad un determinato grado, e lo costituisce quindi essere di tale o tale ente. Prendendo quindi sul serio l’analisi dell’ente finito in potenza ed in atto di essere, si coglie in quest’ultimo il fondamento sia formale (ultimamente formale, se si preferisce) che quasi effettivo dell’ente, e non soltanto il suo principio esistenziale. Ne risulta una grande leggibilità della quarta via: l’ente graduato implica una composizione fra un principio limitante, l’essenza, ed un principio perfettivo, lo esse; ora questo, di per sé, connota soltanto perfezione, ma, di fatto, viene ristretto ad un certo grado; dunque lo esse finito rimanda, di per sé, ad un Esse infinito che ne è il fondamento separato, insieme esemplare ed efficiente, e questo Essere sussistente è Dio. Il realismo di questa prova viene assicurato da quello dell’ente sperimentato, poi dello esse grazie al quale esso è, nel senso intensivo del termine.
Il pensiero progredisce dunque dall’ente per partecipazione all’Essere per essenza, attraverso l’identificazione, nell’ente, di un esse ricevuto, quindi limitato da un lato, ma partecipante all’Essere illimitato d’altro lato, il quale esse funge da perno di tutto l’argomento. In virtù della convertibilità fra la coppia di partecipante – partecipato e quella di potenza – atto[10], possiamo dire che la quarta via procede allora dall’ente in atto all’atto per cui è in atto, cioè all’essere in quanto atto (esse ut actus), poi, staccando questo dalla potenza che lo limita nell’ente, allo Esse subsistens, che è immune da ogni potenzialità. Si opera così una doppia resolutio dell’ente finito (o graduato): secundum rationem dall’ente in atto all’atto di essere; poi secundum rem dall’atto di essere all’Essere puro. In una formulazione più elementare e più pedagogica, come quella della Summa theologiae scritta per gli incipientes, la prima resolutio prende la forma dell’osservazione dei gradi di nobiltà ontologica, che manifesta l’attualità più o meno intensa dell’ente, mentre la seconda resolutio si fa col riferimento al maxime ens. Ma per i novizi come per i maestri, il passaggio decisivo è quello che risale dall’atto limitato all’Atto puro di essere. Perciò, la quarta via riposa, in questa lettura, sull’ente inteso nel significato di atto, nonché sulla sua risoluzione intensiva.
Dividendo l’ente reale in perfezione formale ed in attuazione esistenziale, la prima interpretazione subordinava la partecipazione alla causalità ed eliminava la misura; dialettizzando l’ente pensato in contenuto oggettivato ed in orizzonte anticipato, la seconda interpretazione subordinava la partecipazione e la causalità - ridotta in fondo a coerenza - alla misura trascendentale; ora la terza interpretazione assume invece la misura, intesa in senso realistico, e la causalità, colta in senso integrale (esemplare ed efficiente), nella partecipazione, che diventa la chiave dell’intera scala argomentativa.
Rispetto agli argomenti anselmiani, questa metafisica centrata sull’actus essendi partecipato si presenta, per mutuare un ossimoro da Cornelio Fabro, come una «convergenza divergente». In effetti, si dà una convergenza iniziale fra la quarta via e le prove del Monologion, in quanto entrambi provano l’esistenza di Dio a partire dalla differenza fra la perfezione per partecipazione degli enti di questo mondo e la perfezione per essenza di Dio, quella includendo un riferimento positivo a questa, che l’intelletto può cogliere in un principio solo, che funge da maggiore della dimostrazione. Subito dopo, tuttavia, si verifica una profonda divergenza per quanto riguarda il costitutivo ontologico della perfezione partecipata attorno alla quale ruotano i due argomenti. Per Anselmo, i valori trascendentali si radicano nell’essenza, e per Tommaso nello esse: perciò le prove del primo non sono che postulati, mentre la quarta via si trova invece convalidata. Il divario fra le due ontologie si scava in contraddizione quando si tratta del Proslogion, giacché lo IQM svela la Somma Essenza divina per il Doctor Magnificus, mentre rimane in via inventionis un puro possibile per il Doctor Angelicus.
Le nostre tre interpretazioni della quarta via derivano quindi dalle tre configurazioni dell’ente tommasiano che scaturiscono dal modo in cui viene capito lo esse che gli dà il suo nome e la sua realtà.
[1] Nella prima figura, che possiamo chiamare duale, lo esse è la posizione di esistenza di un’essenza consistente in sé, e la quarta via risale a Dio attraverso la causa efficiente dello esse differenziato che non può essere causa a sé stesso. Siccome la causalità implica una dipendenza ontologica, mentre il massimo connota soltanto un rapporto nozionale, gli argomenti tommasiani divergono totalmente da quelli anselmiani.
[2] Per la seconda figura, che va detta trascendentale perché analizza le condizioni di possibilità dello ens in quanto pensato, lo esse è l’orizzonte di quest’ultimo, e si deve porre la sua coincidenza con Dio per non risolvere il pensiero nel nulla. In questa prospettiva, le prove anselmiane e la quarta via convergono verso la nozione di massimo-misura.
[3] Nella terza configurazione, lo esse partecipato è la fonte immanente di tutte le perfezioni riscontrabili nello ens preso nella sua integralità, per cui merita l’appellativo di figura intensiva, nella logica della quale si dimostra Dio col principio di partecipazione. Si dà allora una certa convergenza iniziale con le dimostrazioni del Monologion, perché ruotano attorno alla partecipazione, ma si rileva subito dopo una divergenza di fondo, in quanto Anselmo si regge sull’essenza, e Tommaso sullo esse.
Tante configurazioni della differenza ontologica fra lo esse e lo ens, quante interpretazioni della quarta via: un’altra volta, se era necessario, verifichiamo che il modo di pensare lo ens conduce a precise e necessarie conseguenze nell’intera scienza dell’ente in quanto ente, nella fattispecie nell’interpretazione della più metafisica fra le prove di Dio[11].
Ci sembra non inutile, al termine di questa resolutio strutturale, di sintetizzarne i risultati in una tavola sinottica.
Figura | <1> | <2> | <3> |
Analisi dello ens | atto esistenziale attuante un atto formale | orizzonte assoluto limitato da un contenuto formale | atto di essere limitato da una potenza di essere |
Punto di partenza della quarta via | lo esse esistenziale in quanto differenziato non da sé | lo esse trascendentale in quanto condizione di possibilità dell’ente | lo esse intensivo in quanto ricevuto in maniera partecipata |
Maggiore della quarta via | il differenziato è causato da un altro | la condizione è ontologicamente anteriore al condizionato | ciò che è per partecipazione è causato da ciò che è per essenza |
Perno della quarta via | il nesso di causalità efficiente fra lo esse differenziato e lo Esse per sé | il nesso di misura trascendentale fra lo ens limitato e lo Esse illimitato | il nesso di partecipazione ontologica fra lo ens per participationem e lo Esse per essentiam |
Rapporto fra la quarta via e gli argomenti di sant’Anselmo | divergenza totale sin dal punto di partenza fra l’esse causato e l’essenza misurata | convergenza fra la misura dello esse e quella dell’essenza | convergenza iniziale nel rapporto al massimo, divergenza successiva fra lo esse e l’essenza |
[1] Sententia super Metaphysicam V, lc. 9 n. 885 e 889. Vedasi anche op. cit. VI, lc. 2 n. 1171: «ens simpliciter, idest universaliter dictum, dicitur multipliciter […]. Uno modo dicitur aliquid ens secundum accidens. Alio modo dicitur ens, idem quod verum propositionis; et non ens, idem quod falsum. Tertio modo dicitur ens quod continet sub se figuras praedicamentorum. Quarto modo prater praedictos omnes, quod dividitur per potentiam et actum». I brani di Aristotele che vengono spiegati sono Metafisica Δ, 7, 1017 a 7-8; 22-23; 31-32; 1017 b 1-2, nonché Ε, 2, 1026 a 33 – b 2. Al riguardo, cf. C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo san Tommaso d’Aquino, [Opere Complete, 3], EDIVI, Segni 2005, 186-187.
[2] Cf. ad es. QD De potentia, q. 7 a . 2 ad 1: «ens et esse dicitur dupliciter, ut patet V Metaph. Quandoque enim significat essentiam rei, sive actum essendi; quandoque vero significat veritatem propositionis». Il dupliciter serve qua ad opporre l’ente estra-mentale da una parte, e l’ente intra-mentale consecutivo al giudizio vero d’altra parte; però il testo elenca effettivamente tre significati. Cf. anche Scriptum super libros Sententiarum I, d. 33 q. 1 a . 1 ad 1.
[3] Cf. Aristotele, Metafisica Η, 3, 1044 a 9-11; Sententia super Metaphysicam VIII, lc. 3 n. 1725-1726.
[4] Sulla dualità di esse e di essenza, cf. V. de Couesnongle, «Mesure et causalité dans la “quarta via”», 257: «Car l’esse d’une chose donnée est comme constitué par les principes de l’essence et, inversement, tout ce qui est dans un être existe, est en acte d’être. Aussi bien est-ce le couple puissance et acte qui rend le mieux les rapports entre essence et existence que nous voulons préciser. A considérer la réalité en toute sa profondeur, c’est l’existence qui se tient du côté de l’acte et l’essence du côté de la puissance. L’essence ne détermine, n’actue que dans l’ordre de la spécification, non pas dans celui de l’existence qui est le plus formel».
[5] Cf. V. de Couesnongle, «Mesure et causalité dans la “quarta via”», 258-259.
[6] Cf. Sententia super Metaphysicam V, lc. 9 n. 895: «Ponit alium modum entis, secundum quod esse et est, significant compositionem propositionis, quam facit intellectus componens et dividens. Unde dicit, quod esse significat veritatem rei. Vel sicut alia translatio melius habet “quod esse significat”, quia aliquod dictum est verum».
[7] Cf. J.B. Lotz, «Der im ontologischen Argument Gottesargument enthaltene Tiefsinn.», 123: «Wenn das Sein nicht letztlich das subsistierende, also unaufhebbar an das Seiende gebunden wäre, bliebe es immer und wesentlich mit den Grenzen des Seienden behaftet. Damit aber wäre es nicht die absolute Fülle, die allein das Sein selbst ist, sondern ein so oder so Sein-habendes, also nur ein Seiendes. Wenn daher das Sein nicht letztlich subsistiert, ist es nicht das Sein, steht es im Widerspruch zu sich selbst oder hebt sich selbst auf. Demnach impliziert die Erfahrung des Seins-selbst immer und notwendig die Erfahrung des subsistierenden Seins».
[8] Cf. É. Gilson, Réalisme thomiste et critique de la connaissance, Vrin, Paris 1939, in part. 212-239; C. Fabro, La svolta antropologica di Karl Rahner, Rusconi, Milano 1974, passim.
[9] Cf. Avicenna, Metafisica I, sez. 5, n. 31, trad. it. di O. Lizzini – P. Porro, Bompiani, Milano 2002, 73: «è evidente che per ogni cosa vi è una realtà propria che è la sua quiddità e la realtà propria di ogni cosa – è noto – è diversa dall’esistenza, che è sinonimo del fatto che ne sia stabilita [l’esistenza]». Per la critica alla coppia esse essentiae – esse existentiae, cf. C. Fabro, Participation et causalité selon S. Thomas d’Aquin, Publications universitaires de Louvain – Béatrice Nauwelaerts, Louvain – Paris 1961, 283: «Esse essentiae – esse (actualis) existentiae : c’est la terminologie (d’inspiration avicennienne) dans laquelle esse signifie “réalité” au sens le plus vague (esse essentiae, esse existentiae, esse generis, esse speciei…) où déjà apparaît l’équivoque qui fait prendre l’esse essentiae pour l’“essence en elle-même” (l’essence possible ou l’essence abstraction faite de sa possibilité comme de son actualisation) en sorte que l’essence n’est pas considérée comme le quid creatum ut potentia, actualisé par le quid creatum ut actus qu’est l’esse-actus essendi participé».
[10] Cf. Quaestiones de quolibet III, q. 8 a . un. c: «Omne autem participans se habet ad participatum, sicut potentia ad actum; unde substantia cuiuslibet rei creatae se habet ad suum esse, sicut potentia ad actum. Sic ergo omnis substantia creata est composita ex potentia et actu, id est ex eo quod est et esse».
[11] I risultati della nostra analisi vengono a confermare quelli che abbiamo raggiunti in due studi anteriori. Cf. A. Contat, «Il confronto con Heidegger nel tomismo contemporaneo», in Aa.Vv., A dieci anni dalla Fides et ratio, ART, Roma 2010 (in stampa), nonché ID., «Le figure della differenza ontologica nel tomismo del Novecento», Alpha Omega 11 (2008) 226-233, riscontrabile anche in J. Villagrasa, ed., Creazione e actus essendi, Originalità e interpretazioni della metafisica di Tommaso d’Aquino, [Atti di congresso, 11], ART, Roma 2008, 249-255.
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