Benozzo Gozzoli, Le triomphe de saint Thomas d'Aquin, 1471

mardi 16 novembre 2010

L'interpretazione intensiva della quarta via

            Misura originariamente noetica contro causalità immediatamente ontologica: potrebbe essere superata questa dialettica che opponeva il tomismo «trascendentale» e quello «classico»? Il primo sembra allontanarsi molto dalla lettera e dallo spirito dell’Aquinate, giacché «quarta via proceditur ex gradibus qui in rebus inveniuntur»; ma il secondo, a sua volta, non dà molta retta alla formula in cui viene espresso il rapporto che unisce il più e il meno al massimo: «secundum quod appropinquant»[1]. Perciò vi è una terza scuola, che capisce questa metafora della vicinanza / lontananza in chiave direttamente realista, contro i discepoli del P. Maréchal, ma non immediatamente causale, diversamente da molti rappresentanti della neoscolastica. Infatti, un rapporto di distanza ontologica più o meno grande, ma sempre imperfetta, ci accosta senza termine medio alla nozione di partecipazione, come l’abbiamo già menzionato e come fa lo stesso san Tommaso nel De Potentia:

Secunda ratio est, quia, cum aliquid invenitur a pluribus diversimode participatum oportet quod ab eo in quo perfectissime invenitur, attribuatur omnibus illis in quibus imperfectius invenitur. Nam ea quae positive secundum magis et minus dicuntur, hoc habent ex accessu remotiori vel propinquiori ad aliquid unum[2].

Qua, lo accessus significa chiaramente una prossimità al participatum secondo una distanza più o meno grande. La quarta via viene allora impostata sul doppio rapporto di partecipazione che unisce prima l’ente al proprio atto di essere limitato, poi quest’ultimo all’Essere sussistente separato: è questa la lettura che propongono, indipendentemente l’uno dall’altro, Étienne Gilson (1884-1978) e Cornelio Fabro (1911-1995), poi i loro rispettivi seguaci. Precisiamo subito che questo approccio, lungi dal rifiutare la causalità, la integra pienamente[3], ma la ritiene posteriore alla partecipazione stessa, almeno in un certo senso. Per questa ragione, stiamo di fronte ad un’interpretazione specificamente diversa dalle due altre.
            In questa nuova ottica, l’espressione la più perfetta della quarta via diventa quella che era ritenuta la più problematica nella corrente precedente:

Quidam autem venerunt in cognitionem Dei ex dignitate ipsius Dei: et isti fuerunt Platonici. Consideraverunt enim quod omne illud quod est secundum participationem, reducitur ad aliquid quod sit illud per suam essentiam, sicut ad primum et ad summum; sicut omnia ignita per participationem reducuntur ad ignem, qui est per essentiam suam talis. Cum ergo omnia quae sunt, participent esse, et sint per participationem entia, necesse est esse aliquid in cacumine omnium rerum, quod sit ipsum esse per suam essentiam, idest quod sua essentia sit suum esse: et hoc est Deus, qui est sufficientissima, et dignissima, et perfectissima causa totius esse, a quo omnia quae sunt, participant esse[4].

Questo argomento viene esplicitamente attribuito ai «Platonici», il tema della partecipazione essendo il retaggio più evidente del Fedone che i diversi neoplatonismi hanno trasmesso al Medioevo latino[5]. In vista di un confronto preciso con sant’Anselmo, dobbiamo tuttavia sottolineare che l’esemplarismo acquista, nella metafisica di san Tommaso, un significato profondamente nuovo. In effetti, l’oggetto ultimo del rapporto verticale fra ciò che è per participationem e ciò che è per essentiam è lo stesso esse che, attuando lo ens, ne fonda in realtà tutte le perfezioni sia trascendentali che categoriali. Perciò, la partecipazione si dà sul piano reale, e non più su quello formale come accadeva presso il discepolo di Socrate. Ne risulta che essa, al livello dello ens, connota una dipendenza reale nei confronti del Partecipato, non solo secondo l’esemplarità, ma pure secondo l’efficienza[6].
            Tutta la difficoltà di questa terza linea interpretativa sta nella pertinenza del «principio di partecipazione» in via inventionis, che lasciò perplesso più di un tomista del Novecento. Ora fu proprio a questo problema che il P. Cornelio Fabro dedicò le sue prime ricerche, con la dissertazione pubblicata sotto il titolo La difesa critica del principio di causa[7], dove sostiene il valore assiomatico, in senso stretto, di questo principio, che lo stesso san Tommaso non esita ad usare:

«ex hoc quod aliquid est ens per participationem sequitur quod sit causatum ab alio»[8] è un principio per sé noto che sta saldo da sé, nella sua immediata evidenza ontologica[9].

Ricordiamo che una proposizione per sé nota è una enunciazione dotata di due caratteristiche epistemologiche cumulative: a) il nesso fra il predicato ed il soggetto è per sé, vale a dire che il significato del predicato scaturisce necessariamente da quello del soggetto come da sua causa; b) inoltre, questo nesso è accessibile all’intelletto umano senza termine medio, vale a dire che la sola esplicitazione delle note costituenti soggetto e predicato basta per rendere manifesta l’appartenenza di questo a quello[10]. Affinché il principio di partecipazione, nella formulazione citata da Fabro, possa valere come premessa di una dimostrazione dell’esistenza di Dio, è dunque necessario e sufficiente che:

a)     lo «essere causato da un altro» sia una proprietà per sé dello «ente per partecipazione», e ciò ovviamente senza che si debba presuppore l’esistenza dell’Essere per sé per capire ciò che è l’ente per partecipazione;
b)     questo nesso per sé sia accessibile all’intelletto umano, almeno apud sapientes, senza termine medio propriamente detto, cioè senza che si debba intercalare un concetto che non sia già contenuto nelle note definitorie del soggetto, cioè dell’ente per partecipazione.

Ricostituiamo ora la «mostrazione» del principio di partecipazione proposta da Fabro, che non deve quindi essere una dimostrazione in senso stretto. Con la locuzione «ente per partecipazione», si intende inizialmente qualsiasi ente, «id quod est», nel quale lo «est» rimanda ad un’attualità ontologica frammentaria e dunque limitata: questo fiore o questo soffio di vento, in cui lo «è» viene posseduto soltanto secondo una certa misura, indicata dallo «id quod». A questo punto, non sappiamo ancora se esiste un ente che sia essere infinito, ma siamo perfettamente in grado di rilevare il carattere determinato, cioè posto entro certi termini, di questo ente concreto: esso è, ma non è essere in pienezza, e perciò possiamo descriverlo, in questo preciso senso, come «ente per partecipazione». Se ora analizziamo questa locuzione, constatiamo che ciò che è per partecipazione si dice e si intellige a partire da ciò che è per sé, giacché la «parte» implica un riferimento per sé al «tutto» di cui essa è parte. Pertanto, l’ente per partecipazione connota un rapporto di misurazione all’ente, o meglio essere per essenza, e questo senza mediazione concettuale, giacché è l’essere presente solo in parte, cioè in modo limitato, nell’ente per partecipazione, che implica direttamente un rapporto all’essere per essenza, vale a dire senza limiti. Si potrebbe obiettare, come non mancarono di farlo i tomisti opposti al valore euristico della partecipazione, che tale rapporto rimane per noi, mentre ci limitiamo a spiegare una nozione, di tipo meramente ipotetico, finché l’esistenza del partecipato divino non venga dimostrata al termine di un’induzione causale[11]. A questa critica, Cornelio Fabro risponde sin dall’inizio della sua carriera che l’ente sul quale si fonda la quarta via è reale, e che lo è proprio per lo esse in virtù del quale l’ente viene detto tale, cosicché la dipendenza dell’ente per partecipazione rispetto all’ente per essenza rivela la sua portata ontologica nell’istante stesso in cui si manifesta sul piano intelligibile. Capire che l’intelligibilità dell’ente limitato rimanda all’essere illimitato implica subito che la realtà del primo dipende da quella del secondo, perché l’enunciato secondo cui «l’ente per partecipazione dipende dall’essere per essenza» non verte su un possibile astratto, bensì su ciò che sta alla radice dell’attualità e della perfezione della cosa[12].
            Questa lettura della quarta via rimane più vicina delle altre alla lettera del testo canonico della Summa theologiae, giacché segue lo stesso itinerario che va dalla densità ontologica limitata delle cose reali a quell’Essere che è massimamente tale, senza inquadrare l’argomento nell’orizzonte intenzionale o nell’efficienza causale come fanno le due interpretazioni precedenti. Nondimeno il Fabro procede comunque ad una intensificazione metafisica della dimostrazione, che una sinossi ci aiuterà a chiarire:

 

la quarta via nella Ia Pars
nostra ricostruzione dell’analisi fabriana
[min.] Invenitur enim in rebus aliquid magis et minus bonum, et verum, et nobile ; et sic de aliis huiusmodi.


[mai.] Sed magis et minus dicuntur de diversis secundum quod appropinquant diversimode ad aliquid quod maxime est : sicut magis calidum est, quod magis appropinquat maxime calido.



[c.] Est igitur aliquid quod est verissimum, et optimum, et nobilissimum, et per consequens maxime ens (…).
[min.] L’ente che scorgiamo nelle cose è per partecipazione, come lo rivelano pedagogicamente i gradi di perfezione ontologica che discerniamo in loro.

[mai.] Ora l’ente per partecipazione è intelligibile per riferimento all’essere per essenza; e siccome l’essere è, nell’ente, il suo principio di perfezione e di attualità reale, l’ente per partecipazione è, in senso forte, solo in virtù dell’essere per essenza.


[c.] Dunque esiste un Essere per essenza, che raccoglie in sé il massimo di perfezione ontologica.



  1. Il dato di esperienza sul quale si basa la minore della quarta via è l’osservazione del carattere frammentario, quindi parziale e pertanto partecipato, delle perfezioni trascendentali che il nostro intelletto scorge nelle cose, puntando sulla loro radice che è il loro stesso essere. Di per sé, il paragone fra il magis et minus di intensità trascendentale con il quale inizia il testo della Ia Pars non è un elemento costitutivo della prova, per l’integrità della quale basta giudicare che l’ente immediatamente accessibile a noi possiede un’attualità ontologica limitata[13]. Questo non impedisce che la dialettica dei gradi possa giocare un ruolo assai importante di manuductio, per aiutare la mente a cogliere nell’essere il punto di focalizzazione di tutte le perfezioni ontologiche presenti in una determinata cosa, poi a vedere la polarità, nell’ente finito, fra il suo essere, che implica perfezione, e il limite, principio di imperfezione, al quale si trova assoggettato questo essere[14].
  2. La maggiore enuncia il principio di partecipazione, considerato in via inventionis: «l’ente per partecipazione dipende ed ha per causa l’essere per essenza». Nel soggetto, si pone l’ente in quanto, da un lato, è, ma anche in quanto, d’altro lato, ha l’essere in maniera «parziale», cioè non secondo la pienezza di perfezione che, di per sé, spetta all’essere inteso senza limite. Dalla natura di questo ente che possiede l’essere soltanto, diciamo così, «secondo una parte», scaturisce per sé un rapporto di dipendenza nei confronti di quell’essere non posto entro alcun limite, giacché la parte, in quanto parte, include in sé un riferimento alla totalità dalla quale è stata staccata per diventare parte. Poiché questo rapporto riguarda l’essere stesso dell’ente, e non una formalità astratta, esso non è soltanto di tipo intelligibile, come quello del singolare (hic homo) all’universale formale (humanitas), ma è anche di tipo ontologico. In questo senso, la relazione di misura che unisce, nel testo della Summa, il magis et minus al maxime è simultaneamente un rapporto di riferimento noetico e di dipendenza causale. In altre parole, se l’essere limitato dell’ente non può essere pensato se non in quanto riferito all’Essere illimitato, allora questo riferimento ha pure un valore strettamente ontologico, perché l’essere è la fonte di ogni attualità reale dell’ente. L’essere causato dall’Essere per essenza appare quindi come una proprietà consecutiva all’ente per partecipazione, considerato ancora in via inventionis[15]; e questo nesso è per sé noto, giacché è riconoscibile senza un vero e proprio termine medio, per semplice investigazione dell’ente finito[16]: pertanto, il principio di partecipazione soddisfa ai due criteri [a] e [b] che abbiamo ricordati ed ai quali deve rispondere la maggiore di una dimostrazione scientifica.
  3. La conclusione inferisce che l’Essere per essenza esiste in sé stesso, e quindi sussiste in modo separato, altrimenti non potrebbe essere il fondamento reale dell’ente per partecipazione. Pertanto, l’affermazione tommasiana per cui «est igitur (...) maxime ens» conclude già la dimostrazione con piena validità, di tal guisa che la seconda sezione della quarta via ha una portata solo esplicativa per quanto concerne la domanda posta nell’articolo, «an Deus sit»[17]. Grazie al principio della causalità del massimo, si precisa allora che Dio, sommamente ed infinamente ente, è causa di ogni perfezione ontologica presente nell’ente finito. In questo modo, si dà un primo abbozzo della via iudicii, tramite la quale si giudicherà che «solo lo Esse ipsum è la causa entis in quantum est ens»[18].

Il nostro esame della quarta via nella prospettiva della partecipazione sta delineando un «circulus metaphysicus absolutus»[19], che sale in via inventionis dall’ente che ha l’essere in modo frammentario e finito all’ente che è Essere pieno ed infinito, poi scende da questo a quello in via iudicii[20]. Questo circolo non è vizioso, perché l’ente ed il suo essere non sono considerati sotto lo stesso aspetto nell’una e nell’altra via. Nella fase inventiva, infatti, lo esse viene colto sì come atto perfettivo senza il quale una perfezione non avrebbe né consistenza né realtà, ma si prescinde ancora dalla creazione nonché dalla giustificazione definitiva (propter quid) della composizione reale; a rovescio, nella fase giudicativa cioè propriamente sapienziale, lo esse viene impostato nella doppia differenza sulla quale verte l’intera metafisica, quella teologica fra l’Essere infinito e l’essere finito, poi quella ontologica fra l’essere ricevuto e l’ente recipiente.
            È ormai chiaro che il nucleo di tutta questa dottrina si trova nello stesso esse e nel modo in cui viene teoretizzato da Fabro e, non senza sfumature, dagli altri autori che, come lui, denunciano la flessione formalista del tomismo, sopratutto a partire dal Gaetano. Si tratta di intuire nello esse quell’atto originario ed «intensivo», dal quale proviene tutta la perfezione reale contenuta nella cosa, perché «omnium autem perfectiones pertinent ad perfectionem essendi»[21]. Pensato in questa chiave, l’atto di essere non si riduce mai alla semplice posizione di esistenza di una qualche quiddità che avrebbe la sua consistenza ontologica in sé, anche se non sarebbe reale senza questa attuazione esistenziale; tutto all’opposto, lo esse è ciò a cui l’ente deve tutta l’attualità e quindi tutta la perfezione della sua essenza sostanziale reale, e, tramite essa, delle sue forme accidentali e delle sue operazioni. Perciò, le perfezioni graduate che stanno alla base dell’argomento tommasiano non possono essere astratte dalla loro realtà, come se fossero delle perfezioni formali che non potrebbero rimandare che ad un massimo ugualmente formale, cosicché non si uscirebbe dal regno delle essenze e dei possibili. Per ovviare a questo snaturamento dell’ente limitato, è necessario capire ch’esso non risulta da un duplice ordine di perfezioni, quello essenziale e quello esistenziale, ma che la sua taleità sostanziale e le sue determinazioni posteriori non sono altro che la concretizzazione del suo stesso essere[22]. Ribadiamo, nel contesto specifico della presente ricerca, che l’atto di essere, così inteso, gode di un privilegio unico:

L’unica formalità alla quale nella sua posizione metafisica originaria competa la realtà è lo esse, precisamente perché tutto ciò che è, tanto nell’ordine formale come in quello reale in qualunque modo sia, partecipa allo esse, perché l’atto intensivo di esse è a un tempo, come si è visto, l’atto primo e la pienezza della perfezione[23].

È questa la ragione per cui la maggiore della quarta via può fare direttamente leva sulla distanza ontologica che ad un tempo unisce e separa l’ente graduato finito e l’Essere infinito. Considerando infatti che un dato ente limitato è reale, e che il suo essere finito ci appare come misurato dall’essere infinito, siamo costretti ad ammettere la realtà del rapporto che fa dipendere il primo dal secondo, il che esige poi la realtà di quell’Essere a partire dal quale si misura tale rapporto[24]. Se lo esse, come atto dell’ente, sta al centro di questa dimostrazione, la partecipazione ne è il fulcro. Infatti, la fondazione dell’ente che ha l’essere in modo parziale nell’Essere assoluto passa attraverso l’insufficienza ontologica del primo: l’ente limitato è in atto, perché è; ed è in potenza, perché, essendo limitato, non può avere questo atto da sé; ora ciò che è in potenza ad un atto parziale non può ricevere questo atto che partecipando a ciò che lo possiede in modo assoluto[25]. In questa resolutio dell’ente nell’Essere, la partecipazione platonica, impostata sulla coppia di partecipato e partecipante, viene fusa con la causalità aristotelica, imperniata sulla coppia di atto e potenza. La prima postulava le Forme separate come λόγος delle cose; la seconda spiegava il movimento sublunare nonché l’attrazione esercitata dall’Atto puro. Grazie allo esse intensivo, l’Aquinate restituisce alla gerarchia delle essenze il realismo che le mancava nel platonismo, pensandole come gradi di essere; e nello stesso momento, egli mette fine all’occultamento dell’essere stesso che lasciava infondata, nell’aristotelismo, la molteplicità dei tipi di atto. Così radicata nello esse e nella partecipazione, la quarta via ci conduce direttamente all’«essenza del tomismo», e costituisce perciò la prova speculativamente più profonda dell’esistenza di Dio.
            Come vengono giudicati gli argomenti anselmiani partendo da questa metafisica della partecipazione trascendentale? Non si stupirà che la parziale somiglianza testuale fra il Monologion e la quarta via venga valutata come meramente materiale. Per Cornelio Fabro, la metafisica di tradizione platonico-agostiniana soffre di un essenzialismo di fondo, che assorbisce lo esse nell’essenza, e quindi lo Ipsum esse subsistens nella totalità assoluta delle perfezioni formali. Il pensiero tende allora a racchiudersi nella dimensione del possibile, correndo il rischio di ridurre la prova di Dio alla posizione di una Essenza infinita, che avrà un’esistenza intenzionale necessaria nella coscienza, come orizzonte delle perfezioni trascendentali oggettivate, ma la cui esistenza reale non verrà sufficientemente saldata nell’esperienza delle cose finite[26]. In questo senso, la filosofia delle essenze, alla quale appartiene Anselmo, aprirebbe nolens volens la strada che porterà all’immanentismo del cogito e della filosofia moderna.
            Étienne Gilson condivide questa tesi per quanto riguarda l’essenzialismo della metafisica anselmiana, che si palesa bene, a suo giudizio, nel seguente brano dove il Vadostano spiega il senso dell’essere «per se et ex se» che caratterizza il Dio raggiunto al termine della dialettica ascendente del Monologion:

Quomodo ergo tandem esse intelligenda est per se et ex se, si nec ipsa se fecit, nec ipsa sibi materia extitit, nec ipsa se quolibet modo, ut quod non erat esset, adiuvit ? Nisi forte eo modo intelligendum videtur, quo dicitur quia lux lucet vel lucens esse per seipsam et ex seipsa. Quemadmodum enim sese habent ad invicem lux et lucere et lucens, sic sunt ad se invicem essentia et esse et ens, hoc est existens sive subsistens. Ergo summa essentia et summe esse et summe ens, id est summe existens sive summe subsistens, non dissimiliter sibi convenient, quam lux et lucere et lucens[27].

Avendo negato che Dio possa essere per sé nel senso di una causa sui nel genere dell’efficienza o della materialità, sant’Anselmo si accosta all’aseità divina attraverso l’analogia della luce. Ora ciò che vi è di primo nella luce, per lui, è la luminosità, intesa come essenza luminosa, e non il suo «lucere», che è invece un effetto formale della sua natura: «lux lucet per seipsam et ex seipsa». Quindi come l’atto di «lucere» risulta dall’essenza della luce, et non viceversa, così anche l’essere (esse) è un effetto formale dell’essenza[28], il che colloca l’ontologia anselmiana all’opposto di quella tommasiana[29]. Pertanto, gli argomenti del Monologion procedono da trascendentali essenziali frammentari, come la bontà e la grandezza, al loro fondamento esemplare assoluto, anche se quest’ultimo rende pure conto, in maniera posteriore, dell’esistenza di entrambi. Ci troviamo comunque assai lontani dalla prospettiva attuale-intensiva della quarta via.
            Diversi studiosi più recenti contestano questa lettura gilsoniana del Doctor Magnificus, obiettando che l’essenza anselmiana racchiude un valore esistenziale e dinamico, in virtù del quale essa va considerata come «forza» che sarebbe, da un lato, «potere di esistere in sé» e, d’altro lato, «potere di donazione»[30]. Perciò, i primi quattro capitoli del Monologion si muoverebbero da perfezioni parziali, ma reali, fino alla Somma Essenza, massimamente reale e fonte di tutta l’energia riscontrabile nel creato. In questa sede, non possiamo dirimere questa controversia, la cui soluzione richiede una esegesi letterale e dottrinale completa del corpus anselmianum che spetta ai suoi specialisti. Ciò nonostante, non possiamo non notare che il rapporto di fondazione ultima si effettua, per Anselmo, dall’essenza all’esistente che ne manifesta, sia in Dio che nella creatura, il dinamismo ontologico, mentre tutta l’opera di Tommaso si indirizza in senso opposto, fondando l’ente nello esse come atto, infinito in Dio, limitato dall’essenza nella creatura. Di conseguenza, anche se dovessimo ammettere che l’ente anselmiano non si esaurisce nella sua essenza, essa non lascierebbe tuttavia di esserne il baricentro, di modo che le prove di Dio a posteriori che ne dipendono, continuerebbero a svolgersi in una direzione assai diversa dalla quarta via.
            Per gli interpreti che vedono l’essenza del tomismo nella partecipazione dello esse, le vie di Tommaso giungono a Dio procedendo dall’esistenza all’essenza, mentre gli argomenti di Anselmo vanno dall’essenza all’esistenza: perciò non sono compatibili fra di loro, né quanto all’ordine delle ragioni, né quanto a quello delle conclusioni[31]. L’epistemologia del Doctor Magnificus postula infatti che ogni pensiero che ha un significato  - e non si dissolve quindi in puro flatus vocis -  deve la rectitudo costitutiva di questo ultimo alla res che lo trascende e ne è la causa, la non-contraddizione essendo il criterio di questa conformità. Ora negare il predicato «esse in re» da questo oggetto di pensiero che è lo IQM sarebbe intrinsecamente contraddittorio, ed è la ragione perché Anselmo conclude che lo IQM è tale che non si può pensare che non sia[32]. Qui, il punto decisivo è che l’intelletto formula questo giudizio perché la realtà dello IQM gli è già stata manifestata tramite la sua oggettivazione. Per Tommaso, una simile coincidenza del significato e della realtà non si dà al di fuori dell’esperienza sensibile immediatamente assunta dall’intelletto possibile; perciò non si può concludere all’esistenza di Dio che partendo da un ente la cui realtà mi è offerta nell’atto stesso in cui lo penso. Cornelio Fabro ricorre a questo proposito alla metafora evangelica della «via stretta», dalla quale non si deve eccettuare la quarta via:

La conoscenza di Dio, della sua esistenza ed essenza, può avvenire solo in un secondo tempo ed ottenere risultati senz’altro positivi, ma unicamente mediante la «mediazione» dell’esistenza e delle perfezioni della natura finita e mediante l’esperienza che l’uomo può fare sulla propria spiritualità anch’essa finita. S. Tommaso ha fatto quindi fin dall’inizio della sua carriera la sua scelta: quella della «via stretta» della riflessione e dell’arduo cammino dell’esperienza attraverso il finito[33].

Il punto di partenza di questo cammino attraverso ed oltre il finito sta, come abbiamo visto, nell’essere attuale, ma parziale, che si riscontra negli enti sperimentabili in questa vita. Questo esclude ogni conoscenza a priori del maxime ens, che deve essere scoperto tramite il principio di partecipazione, ed approfondito tramite la resolutio dell’ente in actus essendi emergente ed in potentia essendi, che si direbbe simmetricamente  - sit venia verbi! -   «immergente». Ne risulta che non si può ragionare a partire dallo IQM, sia che venga anticipato come orizzonte dell’intenzionalità, al seguito della Maréchal-Schule, o che venga oggettivato come ipotesi meta-fisica iniziale, sulla scia di Anselmo poi di Cartesio. In entrambi i casi viene meno l’incontro dell’intelletto con lo esse partecipato, e quindi con il principio di realtà senza il quale non si può risalire a Dio. Perciò l’analisi dello IQM non può uscire, da sola, dalla sfera del pensabile[34].


[1] ST I, q. 2 a. 3c; cf. CG II, c. 13, n. 34 (Marietti, n. 114): «[...] ex hoc quod videmus duorum falsorum unum altero esse magis falsum, unde oportet ut alterum sit etiam altero verius; hoc autem est secundum approximationem ad id quod est simpliciter e maxime verum» [corsivo nostro].
[2] QD De Potentia, q. 3 a. 5c [corsivo nostro].
[3] Cf. É. Gilson, Introduction à la philosophie chrétienne, Vrin, Paris 1960, 156-157: «Participer et être causé sont une seule et même chose».
[4] Lectura super Ioannem, Prol., n. 5.
[5] Cf. Sententia super Metaphysicam I, lc. 15 n. 13 (Marietti, n. 237).
[6] Cf. É. Gilson, Introduction à la philosophie chrétienne, 158: «[…] entendus dans leur sens thomiste, les rapports de “par autrui” à “par soi” qu’elle fait jouer, sont des rapports d’effets à cause efficiente, ou s’y laissent réduire. Ceci est vrai même de la participation dans l’ordre de la cause formelle, par mode de ressemblance, car si elle n’est d’ailleurs de l’être, la forme elle-même n’est rien». Vedasi anche ID., Le thomisme, Introduction à la philosophie de saint Thomas d’Aquin, 6a ed., Vrin, Paris 1972, 86: «posséder incomplètement une perfection et la tenir d’une cause sont synonymes ; et, comme une cause ne peut donner que ce qu’elle a, il faut que ce qui n’a pas de soi une perfection et ne l’a qu’incomplètement, la tienne de ce qui l’a de soi et en son suprême degré».
[7] C. Fabro, «La difesa critica del principio di causa», Rivista di filosofia neoscolastica 38 (1936) 102-141, ripreso successivamente in L’uomo e il rischio di Dio, Studium, Roma 1967, 183-225, nonché in Esegesi tomistica, Pontificia Università Lateranense, Roma 1969, 1-48. Citeremo questo articolo da quest’ultima edizione, perché ci sembra la più accessibile agli studiosi.
[8] ST I, q. 44 a. 1 ad 1.
[9] C. Fabro, «La difesa critica del principio di causa», 39.
[10] Sulla perseità, cf. Expositio Libri Posteriorum I, lc. 10, l. 19-24 : «Sicut autem hec prepositio ‘per’ designat habitudinem cause quando aliquid extraneum est causa eius quod attribuitur subiecto, ita quando subiectum uel aliquid eius est causa eius quod attribuitur ei, et hoc significat ‘per se’ ». Sul per se notum, cf. ST I, q. 2 a. 1c; Expositio libri Boetii De ebdomadibus, lc. 1.
[11] È il caso di A. de Muralt, in Comment dire l’être ? L’invention du discours métaphysique chez Aristote, Vrin, Paris 1985, 106: «Participer, c’est toujours participer d’un principe. Pour expliquer une réalité par la participation, il faut nécessairement pouvoir affirmer d’abord l’existence de son principe, ce qui suppose la voie d’invention».
[12] Cf. C. Fabro, «La difesa critica del principio di causa», 41: «Secondo l’Angelico, un “essere partecipato” non si comprende come essere e dell’essere, se non è visto in relazione all’essere, forma pura ch’è tale per essenza, poiché è suo tipo e misura; e l’intelligibilità di una massa o moltitudine è intrinsecamente condizionata da un principio d’ordine, al quale i singoli elementi si riferiscono e si riconducono: lo si chiama Essere primo, Essere per essenza, Uno per essenza [...]. Per S. Tommaso, almeno in questo punto, l’esigenza concettuale collima con quella ontologica e reale: l’essere per partecipazione non si comprende, cioè non si comprende essere, non è se non in dipendenza dell’essere per essenza» [corsivo nostro].
[13] Cf. C. Fabro, «Il fondamento della “IV via”», in Esegesi tomistica, Pontificia Università Lateranense, Roma 1969, 391: «Non sarà senza importanza il notare che la dialettica del magis et minus della S. Th., che ha fatto scorrere fiumi di inchiostro agli esegeti e che da S. Tommaso è riferita ad Aristotele, non sembra essenziale alla struttura della IV via». Si noti su questo punto la presa di posizione in senso palesamente contraddittorio di M. GuÉrard des Lauriers, in La preuve de Dieu et les cinq voies, 116: «Ce qui en effet intervient formellement dans la preuve, ce n’est pas chacun des degrés, c’est leur pluralité objective dans l’unité objective»; nella nota 64 della stessa pagina, l’A. aggiunge : «S. Thomas ne présente jamais la “quarta via” comme preuve à partir d’un seul degré. Cela supposerait que l’on considère, soit la distinction réelle entre l’esse et l’essence, comme évidente, soit le principe de participation comme admis a priori». Nella prospettiva di Fabro, si risponderebbe che, senza tematizzare ancora la composizione di esse e di essenza, l’intelletto è di per sé capace di percepire già due momenti in un solo ente, cioè l’essere come perfezione originaria e il limite ch’esso assume, benché il paragone fra due o più enti agevoli assai questo discernimento.
[14] Cf. C. Fabro, «Sviluppo, significato e valore della “IV via”», in Esegesi tomista, Pontificia Università Lateranense, Roma 1969, 371-377, in particolare 376: «Ancora un passo ed il più decisivo in questa dialettica dei gradi. Tutte le qualità, le forme, le specie, i generi, le perfezioni pure... possono essere considerate rispetto a un magis et minus non per sé, nell’ambito stretto della propria sfera, ma in quanto sono riferite all’essere, in quanto cioè sono considerate forme, modi e gradi di perfezione di essere e nell’essere. L’esse, la perfezione dell’attualità di essere, è il riferimento fondante di tutta questa dialettica».
[15] Cf. QD De potentia, q. 3 a. 5 ad 1: «licet causa prima, quae Deus est, non intret essentiam rerum creatarum; tamen esse, quod rebus creatis inest, non potest intelligi nisi ut deductum ab esse divino; sicut nec proprius effectus potest intelligi nisi ut deductus a causa propria».
[16] Cf. C. Fabro, «La difesa critica del principio di causa», 46: «L’evidenza e “perseità” del principio è assicurata per la ragione che alla nostra mente l’essere partecipato appare in immediata relazione di dipendenza, sia nell’ordine del conoscere che in quello della realtà, con l’essere per essenza: ciò vuol dire che “se” l’essere per partecipazione è dato, “se c’è”, necessariamente con questo esserci ed esser dato c’è anche questa relazione di dipendenza».
[17] Cf. C. Fabro, «Sviluppo, significato e valore della “IV via”», 379. É. Gilson difende la stessa posizione in Le thomisme, 85.
[18] C. Fabro, «Il fondamento metafisico della “IV via”», 402.
[19] L’espressione è di C. Fabro, in «Il fondamento metafisico della “IV via”», 405.
[20] Sulle due vie del ragionamento, cf. ST I, q. 79 a. 9 c: «Nam secundum viam inventionis, per res temporales devenimus in cognitionem aeternorum [...]; in via vero iudicii, per aeterna iam cognita de temporalibus iudicamus».
[21] ST I, q. 4 a. 2c. Fra i suoi tanti studi sull’argomento, citiamo C. Fabro, «Il nuovo problema dell’essere e la fondazione della metafisica», Rivista di filosofia neoscolastica 66 (1974) 475-510.
[22] Significativa al riguardo l’osservazione dell’Aquinate in Scriptum super libros Sententiarum I, d. 8 q. 5 a. 2c: «[...] in tali quidditate [= in quella dell’ente finito] invenietur potentia et actus, secundum quod ipsa quidditas est possibilis, et esse suum est actus ejus».
[23] C. Fabro, «Sviluppo, significato e valore della “IV via”», 379.
[24] Il legame fra il realismo dell’essere partecipato nell’ente e la necessità di fondarlo nell’Essere sussistente è stato visto molto bene da H. Beck, in Der Akt-Charakter des Seins, Eine spekulative Weiterführung der Seinslehre Thomas v. Aquins aus einer Anregung durch das dialektische Princip Hegels, Max Hueber Verlag, München 1965, 30-31: «Alle Dinge nehmen in analog verschiedener Weise am Sein teil. Je mehr sie teilnehmen, je mehr sie von der Vollkommenheit des Seins in sich haben, einen desto höheren Grad des Seins halten sie inne. Die verschiedenen Grade des Seins erhalten ihr Maß und ihre Ranghöhe also dadurch, daß sie einen je verschiedenen Abstand zur Vollgestalt des Seins bedeuten. Sind aber die verschiedenen Seinsgrade real, so muß auch der – je verschiedene – Abstand (das » Abstehen «) real sein. Ein Abstand ohne die Realität seines » Wovon « wäre aber nicht ein realer Abstand. Also muß zugleich auch das, wovon Abstand ist, nämlich die Vollgestalt des Seins, etwas Reales sein. Alle Dinge weisen somit durch ihre gradweise verschiedene Teilhabe am Sein auf die Realität ihres Maßgrundes hin, auf die absolute göttliche Urgestalt des Seins».
[25] Cf. Quaestiones de quolibet XII, q. 5 a. 1c: «Unumquodque quod est in potentia et in actu, fit actu per hoc quod participat actum superiorem. Per hoc aliquid maxime fit actu quod participat per similitudinem primum et purum actum».
[26] Su questo punto, cf. C. Fabro, L’uomo e il rischio di Dio, Studium, Roma 1967, 297: «[...] non s’insisterà mai abbastanza: la tradizione agostiniana e il razionalismo moderno riportano l’ens all’essenza ch’è detta il fondamento della perfezione e dell’attualità. In quanto allora l’essenza è perfettissima, è necessaria...; perciò è esistente ratione sui, ed è detta ratio e causa sui, cioè fonte e ragione della propria esistenza. S. Tommaso invece ha superato la sfera formale dell’intellettualismo ed ha svincolato il reale dal circolo della logica astratta dei possibili».
[27] Monologion, c. 6 l. 11-19.
[28] Cf. É. Gilson, Le thomisme, 56-57: «Car l’essentia est à l’esse et à l’ens, dans le même rapport que lux est à lucere et à lucens. L’essence est donc bien pour lui ce qui est, ou ce qui existe, ou ce qui subsiste, et c’est à titre d’essence suprême que Dieu est suprêmement existant. Par ce texte du Monologion, on voit combien Anselme était dès lors plus proche du Proslogion que lui-même ne le pensait. Tous ses arguments en faveur de l’existence de Dieu communiquent par la notion fondamentale de l’être-essence qui les engendre. Car le Bien est proportionnel à l’Être, ou, pour mieux dire, puisque c’est la perfection de l’essence qui le mesure, l’Être est proportionnel au Bien. De là les preuves dites physiques du Monologion. Elles ne sont cependant qualifiées telles que par analogie avec les preuves de saint Thomas. Étrangères au plan de l’existence actuelle, elles se bornent à montrer que l’essence des choses plus ou moins bonnes et plus ou moins grandes présuppose l’essence d’un suprêmement bon, suprêmement grand et suprêmement être».
[29] Cf. CG II, c. 54, n. 4 (Marietti, n. 1290): «comparatur enim forma ad ipsum esse sicut lux ad lucere, vel albedo ad album esse».
[30] Cf. P. Vignaux, «Nécessité des raisons dans le Monologion», Revue des sciences philosophiques et théologiques 64 (1980) 8: «C’est d’un “être” donné, d’un “étant”, que part le raisonnement ; il aboutit donc à un Étant suprême. Celui-ci peut être dit : sive essentia sive natura sive substantia. Disant “nature”, on dit “force” (vis vel natura existendi per se), pouvoir d’existence par soi comme aussi sans doute de donation d’être à tout le reste». L’A. propone la stessa tesi nello studio «La méthode de saint Anselme dans le Monologion et le Proslogion», in Id., De saint Anselme à Luther, Vrin, Paris 1976, 115-116. Sulla stessa linea, cf. anche P. Gilbert, Dire l’Ineffable, lecture du “Monologion” de saint Anselme, Lethielleux – Culture et Vérité, Paris – Namur 1984, 80-85.
[31] Cf. É. Gilson, Le thomisme, 64: «Si l’on va de l’essence à l’existence, on devra chercher dans la notion de Dieu la preuve de son existence ; si l’on va de l’existence à l’essence, on devra se servir des preuves de l’existence de Dieu pour construire la notion de son essence. Ce deuxième point de vue est celui de saint Thomas. Après avoir établi qu’il existe une première cause, il établira, en vertu des preuves mêmes de son existence, que cette première cause est l’être tel qu’on n’en peut concevoir de plus grand et que l’on ne saurait concevoir comme n’existant pas».
[32] Cf. Proslogion c. 3, 103, l. 1-2: «Sic ergo vere est aliquid quo maius cogitari non potest, ut nec cogitari possit non esse». Sul rapporto fra l’epistemologia di Anselmo e la prova del Proslogion, cf. É. Gilson, «Sens et nature de l’argument de saint Anselme», Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Âge 9 (1934) 5-51, in part. 6-18.
[33] C. Fabro, L’uomo e il rischio di Dio, 283.
[34] Cf. CG I, c. 11 n. 2 (Marietti, n. 67): «Eodem enim modo necesse est poni rem, et nominis rationem. Ex hoc autem quod mente concipitur quod profertur hoc nomine Deus, non sequitur Deum esse nisi in intellectu. Unde nec oportebit id quo maius cogitari non potest esse nisi in intellectu. Et ex hoc non sequitur quod sit aliquid in rerum natura quo maius cogitari non possit». C. Fabro aggiunge addirittura che la nozione di possibilità non conviene a Dio; cf.  L’uomo e il rischio di Dio, 297, nota 46: «Dio non può mai essere pensato o fatto rientrare nella sfera della possibilità. L’esser possibile, nel senso di assenza di contraddizione, non è una perfezione ma una condizione (negativa) per essere pensabile di cui Dio non ha bisogno perché è lo Esse semplicissimo ed in questo senso bisogna dire anzi che Dio non è pensabile».

Aucun commentaire:

Enregistrer un commentaire

Remarque : Seul un membre de ce blog est autorisé à enregistrer un commentaire.