Il P. Cornelio Fabro si interessò alla filosofia di Heidegger già durante la seconda guerra mondiale, pubblicando nel 1943 un saggio di Introduzione all’Esistenzialismo[1], nel quale dedica un’intera sezione all’autore di Sein und Zeit. Successivamente, non smise di studiare ed interpretare l’opera heideggeriana che andava incrementandosi, seguendone tutte le flessioni con grande acutezza, fino ai suoi ultimi articoli teoretici[2]. Fautore di un “tomismo essenziale” centrato sulla riscoperta dello esse come atto intensivo di essere, al di là delle derive formalistiche, il Fabro punta ovviamente la sua attenzione sulla coppia Sein – Seiendes; però non tralascia neanche la riflessione critica sull’apparire dell’essere all’esserci, sia perché è questo il problema chiave della modernità, sia perché l’obiezione maggiore che si dovrà sollevare nei confronti del Sein heideggeriano è che rimane imprigionato nell’immanenza del Dasein.
[1] L’esserci e l’essere
Il Fabro della maturità dimostra uno spiccato senso della doppia originalità esistenziale che spetta allo Io: da una parte, egli è, sin dal primo risveglio dell’anima spirituale nell’infanzia, immerso in un mondo di enti che si presentano a lui inanzitutto come esistenti; e dall’altra parte lo Io è il soggetto per eccellenza, giacchè egli attua verso gli enti come libertà, e, così facendo, si conosce e si riconosce. Quindi l’uomo si caratterizza originariamente come quell’esistente libero e riflesso che non può non essere in rapporto con altri enti ed altri uomini, parimenti esistenti, ma che non allaccia questi rapporti se non precisamente come Io; in quanto lo Io si apre a questi enti esistenti, è un essere comunicante; ma in quanto ciascun Io è fondamentalmente soggetto, allora è un essere incomunicabile, poiché la soggettività non può, di per sé, essere oggettivata[3]. In questa valorizzazione del soggetto, è facile ravvisare l’influsso che ebbero, sulla formazione del pensiero fabriano, la lunga meditazione delle opere di Kierkegaard e di Heidegger: il primo rivaluta il singolo e la sua irriducibilità metafisica contro il totalitarismo della dialettica hegeliana, mentre il secondo evidenzia l’appartenenza mutua della soggettività e dell’essere.
Ciononostante, lo Io, pur solitario in quanto Io, ha consistenza in sé stesso perché è qualcuno che ha l’essere, il che è comune a tutti i suppositi; poi egli si apre agli altri enti perché, a differenza degli esseri inferiori, è costituito capax entis sin dal primo atto conoscitivo propriamente umano. Quindi lo Io esistente è interamente avvolto nello esse, fra il suo proprio e quello degli enti che incontra, entrambi dati al soggetto e non da lui costituiti, di modo che la dovuta accentuazione dell’esistente non potrà mai sboccare in una dissoluzione esistenzialistica dell’essere nella prassi. Per quanto riguarda la dimensione conoscitiva del nostro rapporto agli enti, il Fabro sottolinea, a questo punto, la necessità di una “genesi trascendentale” di tutta la nostra vita intellettuale a partire dallo ens, al di là della mera cronologia studiata dalla psicologia evolutiva: “la prima sorgente della luce intellettuale è l’evidenza primaria e originaria, che sfugge ad ogni classificazione, di ens”[4].
Cos’è, allora, questo ens tramite il quale lo Io è strutturalmente immerso nel mondo degli enti sin dagli inizi della sua vita intellettuale e anche morale? Di fronte a questo classico problema del cominciamento, il Fabro scarta due errori opposti, che ebbero un ruolo assai negativo nella storia filosofica dell’Occidente a partire dalla fine del Medioevo. Il primo è il ripiegamento della nozione di ente su un contenuto oggettivo minimo, ridotto quindi al puro possibile, cioè all’essenza intesa genericamente come mera possibilità di esistere. In questa concezione, che culmina con Christian Wolff, l’attualità dell’ente sparisce quasi totalmente, essendo ridotta alla relazione, ormai estrinseca, dell’essenza rispetto alla propria realizzazione; perciò l’ens primum cognitum non è più che la semplice non-contraddizione di un contenuto qualsiasi, che lo rende capace di esistere, che esista di fatto o no. Diventando totalmente analitica, la prima nozione risulta anche totalmente vuota, pura determinabilità indeterminata[5].
L’altro errore, storicamente e teoreticamente consecutivo al primo, è di ridurre l’ente all’attività relazionale mediante la quale il pensiero unifica i dati sensoriali, sussumendoli sotto le categorie derivanti dal giudizio: l’ente diventa allora il polo formalmente correlativo allo Ich denke überhaupt di Immanuel Kant, che viene espresso nella copula “è” del giudizio. Infatti, mentre penso che |s è p|, oggettivo il plesso |s - p| nella sfera del pensabile, e questa posizione, formulata dallo |è| è concomitante ad ogni mio atto di pensare. In questo senso, l’ente viene ricondotto alla posizione effettuata dal pensiero ed oggettivata dalla copula; e sebbene il contenuto posto possa essere o non essere sintetico, essere o non essere a priori, a seconda della ben nota tipologia kantiana del giudizio, l’atto che lo pone è sempre lo stesso, e risulta pertanto, alla pari dell’ente wolffiano, analitico ed indeterminato[6]. Alla fine, entrambe le ermeneutiche dell’ente, quella oggettiva-razionalistica comme quella soggettiva-idealistica finiscono per estenuare completamente il loro oggetto, che sprofonda allora nel nulla[7].
Per riscattarsi da questo esito letale, la metafisica deve quindi capire che l’ente non si riduce né all’essere-in-atto della coscienza giudicativa pura, né all’essenzialità indeterminata del contenuto puro, perché entrambi sono fondati, e non fondamento; perciò bisogna ritrovare l’originale sinteticità dell’ente, che compone sempre una essenza con il suo essere-in-atto reale, i quali dipendono a loro volta da un atto di essere irriducibile sia alla quiddità ch’esso fa essere che all’atto per cui l’ente stesso viene colto dall’intelletto[8]. Sebbene l’atto di essere non verrà esplicitamente riconosciuto e tematizzato che al termine della resolutio metafisica (e da pochi...), nondimeno è lui che, per così dire, “emerge” già in “illud quod primo intellectus concipit quasi notissimum”[9]. In questo modo, l’uomo è, per Cornelio Fabro, quell’essente che pensa, agisce ed opera in ogni momento grazie ad una trascendenza che non si riduce mai, in ultima istanza, a quella della sua stessa intenzionalità, ma richiede un atto di essere che supera e fonda l’attività della coscienza[10].
Di primo acchito, sembrerebbe che l’ontologia heideggeriana entri in questa prospettiva, nella misura in cui l’esserci viene descritto come un lasciar essere aperto all’essente in totalità, dove il primato e l’iniziativa spettano all’essere dell’essente, e non all’ek-sistere dello stesso esserci[11]. Però, questa apparente trascendenza dell’essere risulta profondamente ambigua. Sebbene, infatti, l’essere non sia istituito dall’esserci, come avviene nell’idealismo classico che riduce ogni attualità a quella dello Io, tuttavia l’essere heideggeriano si dà (es gibt) sempre e soltanto nell’esserci:
È vero che l’uomo trascende ogni essente nello esse, per via dello esse, ma questo trascendere è a sua volta un «insistere» nello esse quale «illuminazione» (Lichtung) dell’essente, quindi proprio dell’uomo: lo esse si chiarifica nell’uomo e per l’uomo, definisce precisamente l’uomo come «custode», «pastore», «luogo»... dell’essere. Lo esse è in sé finito e non è Dio né un principio del mondo. L’immanenza ontologica sostituita all’immanenza gnoseologia[12].
L’essere heideggeriano sarà quindi la presenza del presente di fronte all’esserci, il che, da una parte, lo rende dialetticamente altro dell’esserci, ma, d’altra parte, lo racchiude irrimediabilmente nella sfera dell’esserci. L’ente possibile wolffiano e l’essere copulativo kantiano vengono certamente superati, ma l’attualità di essere alla quale si giunge, al di là dell’oggetto-possibile e dell’atto-giudizio, si dà soltanto all’interno del rapporto fra mondo e coscienza[13].
Altro dall’esserci e dall’essente, l’essere tuttavia si dà sempre come apparizione dell’essente all’esserci. In questo modo, l’essere dell’esserci rimane assoggettato al principio di immanenza, che pervade tutto lo sviluppo della filosofia moderna e contemporanea a partire dal cogito cartesiano: l’essere è “il presentarsi del finito per un essente finito condannato a un destino finito”[14]. La radice di tale finitezza sta ovviamente nell’impossibilità di pensare sia l’essere che l’esserci al di fuori del processo di “temporalizzazione” (Zeitigung), per cui l’essere dell’esserci è il tempo in quanto divenire degli essenti ch’egli lascia essere e che gli appaiono[15]. L’ipseità cartesiana ed anche kantiana dello Io viene frantumata, poiché la differenza rispetto all’essere precede, nell’esserci, la propria identità; invece, l’immanenza dello stesso Io viene radicalizzata, poiché l’esserci viene definitivamente storicizzato nel suo rapporto costitutivo all’essere che si dà solo nel flusso del tempo. Ormai, il soggetto non si possiede più, giacché è l’essere-divenire che produce il soggetto[16]: cominciata con l’esaltazione del cogito, la parabola della filosofia moderna si esaurisce con la sua dissoluzione in un essere anonimo, perché non sussistente.
[2] L’essere e l’essente
La ragione profonda dell’attenzione costante che il Fabro diede al pensiero di Heidegger sta nella differenza ontologica, a causa del primato che entrambi riconoscono all’essere ed alla sua “emergenza” al di sopra di ciò che esso fa essere. Fra la coppia tommasiana di esse e di ens da una parte, e quella heideggeriana di Sein e di Seiendes d’altra parte, il Fabro ravvisa una convergenza nella tematica ed una divergenza assai più notevole nel significato, quindi una “divergenza convergente” o “convergenza divergente”[17]. Cominciamo dalle somiglianze, che vengono così elencate:
E sui problemi la convergenza fra i due pensatori non può rivelarsi che a livelli sempre più stimolanti, malgrado la distanza nel tempo e la differenza nella cultura.
Possiamo infatti dire anzitutto che ambedue «pensano a ritroso», ossia seguono il metodo regressivo di «ritorno al fondamento» (Rückgang in den Grund) che è proprio dei pensatori essenziali.
Ambedue poi vedono questo fondamento nella riduzione all’essere, ossia mediante l’illuminazione dell’ente o essente nell’essere.
Im ambedue inoltre la (conoscenza della) verità dell’essere precede la (conoscenza della) dipendenza causale, ossia non identificano realtà (esistenza) con effettualità e non fondano la verità della realtà sulla causalità.
Di conseguenza ancora ambedue rifiutano la distinzione (modale) di essentia ed existentia e la considerano la principale responsabile sul piano teoretico dell’oblio dell’essere e del volontarismo assoluto la quale costituisce l’essenza (secondo Heidegger) del nichilismo occidentale.
Infine ambedue, in quanto convergono nel riportare (fondare) la realtà-verità dell’essente e dell’essenza all’essere, distinguono nel modo più netto la sfera della natura dalla vita della grazia, la ragione dalla rivelazione.
In questo senso, anche se può sembrare paradossale, nessun pensatore presenta una convergenza di istanze speculative così profonda e radicale con S. Tommaso come Heidegger: è impossibile oggi pensare ad una ripresa veramente operante del tomismo passando sopra alla lezione heideggeriana[18].
Pertanto l’incontro fra Heidegger e san Tommaso si fa, per il Fabro, nel momento in cui si elabora la problematica della metafisica, quindi positivamente nel riconoscere l’essere come fondamento dell’essente, anteriormente alla causalità aristotelica, poi negativamente nel rifiuto di equiparare la coppia di ente e di essere alla distinzione di essentia e di existentia della scolastica tardo medioevale e barocca.
Il P. Fabro punta qua sui due cardini della sua interpretazione dell’Aquinate. Per lui, infatti, l’essere va inteso come l’atto originario al quale si riconduce tutto quanto vi è di ricchezza ontologica nell’ente, di tal guisa che esso costituisce l’istanza risolutiva di tutta l’indagine metafisica: “Omnis enim nobilitas cuiuscumque rei est sibi secundum suum esse”[19]. Il compito e l’impegno della filosofia prima sarà di spingere questa scoperta fino alle sue ultime conseguenze teoretiche. La prima di queste consiste nell’intepretare la quiddità o essenza aristotelica come potenza, e di integrarla in una teoria della partecipazione, sulla scia dello stesso Tommaso:
Necesse est enim quod omnis substantia simplex subsistens, vel ipsa sit suum esse, vel participet esse. Substantia autem simplex quae est ipsum esse subsistens, non potest esse nisi una, sicut nec albedo, si esset subsistens, posset esse nisi una. Omnis ergo substantia quae est post primam substantiam simplicem, participat esse. Omne autem participans componitur ex participante et participato, et participans est in potentia ad participatum. In omni ergo substantia quantumcumque simplici, post primam substantiam simplicem, est potentia essendi[20].
Sotto Dio, ipsum esse subsistens, la creatura compone sempre un actus essendi con una potentia essendi, l’essenza, che ne misura il grado di partecipazione all’essere: tale è il nucleo speculativo più prezioso del “tomismo essenziale”, al quale Fabro dedicò le sue opere metafisiche[21]. L’essere vi si riferisce all’essenza ed all’ente come il principio di ™νέργεια fontale di fronte al suo co-principio differenziale ed al suo risultato differenziato[22], cosicché la vera “differenza ontologica” tommasiana sta nella differenziazione dell’essere come perfezione primordiale ad opera dell’essenza che lo restringe.
Tale coppia di esse ut actus e – se ci si permette l’inusitata locuzione – di essentia ut potentia fu successivamente mascherata dalla coppia di esse existentiae e di esse essentiae. Questo slittamento linguistico iniziato sul finire del Duecento[23] contribuì in effetti ad occultare l’esse come fondamento trascendentale, a favore di uno sdoppiamento dell’ente finito nei suoi due momenti fondati, l’essenza come contenuto oggettivo e l’esistenza come posizione di realtà. Questo processo instaurò una dialettica fra questi due momenti che si rivelò letale per la vera metafisica dell’essere. Nella prima fase, da Giovanni Duns Scoto a Francisco Suárez e Christian Wolff, si enfatizzò, nella costituzione dell’ente finito, l’essenza oggettiva, riducendo l’esistenza ad una pura posizione estrinseca, quindi non reale, da parte della libertà divina. Così tutta la consistenza propria dell’ente si riversa sulla res e sulle sue due modalità finita ed infinita, le essenze create finite stando di fronte all’Essenza divina infinita. Però l’essenza, se considerata indipendentemente da questa o da quella, appare al pensiero come totalemente indeterminata e vuota, così da identificarsi con il nulla; a questo punto, l’esistere ritorna al primo piano, non più, tuttavia, come posizione di realtà, bensì come attualità del pensiero che compie il passaggio da tale essere vuoto alla sua verità come nulla. Perciò l’immanentismo hegeliano, dove lo esse, inquanto principio attuante del mondo e della storia, viene sostituito dal nulla, fu l’esito e la sanzione inevitabile dell’essenzialismo[24].
Pure i grandi tomisti domenicani, che avrebbero dovuto salvare il primato dell’atto di essere si lasciarono sedurre dal lessico dominante: sebbene, infatti, abbiano quasi sempre difeso la tesi primordiale del tomismo, l’hanno tuttavia fraintesa, interpretandola come la subordinazione di un atto formale, l’essentia, ad un atto esistenziale, l’existentia. L’essenza acquista così una attualità autonoma, che non deve nulla allo esse, mentre l’essere viene simmetricamente ridotto al mero fatto di esistere, anche se gli viene concesso uno statuto reale, negato da scotisti e suareziani. Così nasce una ontologia duale, quella stessa che abbiamo incontrato presso il P. Corvez, e che per il P. Fabro tradisce il vero esse riducendolo alla existentia considerata come semplice modalità dell’essenza, contrapposta a quella della possibilità[25]. In realtà, né il contenuto dell’ente, né il suo essere-in-atto, sono consistenti per sé stessi; perciò bisogna ritrovare la strada che li riporta al loro principio, l’essere-come-atto, il quale non è né contenuto, né posizione di esistenza, né tantomeno atto di coscienza, ma loro fondamento e contenente, “actualitas omnium actuum”[26].
Quale riscontro trovano lo esse tommasiano ed il suo occultamento in existentia nel pensiero di Heidegger? Per il P. Fabro, il filosofo della Selva Nera ha colto bene la necessità di superare non solo la determinazione dell’essente, come è ovvio per chi intende ricuperare l’istanza del Sein, ma anche il suo stesso esistere, inteso come correlato, nella cosa, di un atto produttivo; pertanto, il tomista si vede stimolato a riscoprire il valore dello esse, spingendosi verso il fondo (Grund) dell’ente, che rimane per lo più impensato, perché trascende le possibilità dell’oggettivazione concettuale. Correlativamente, la “storia dell’essere” heideggeriana – che per il tomista è storia del pensiero dell’essere - può esercitare questo ruolo protrettico, in quanto discerne pure nella coppia di essentia – existentia il sintomo dell’oblio dell’essere nella metafisica elaborata dalla ragione concettuale. Infatti l’occultazione dell’essere dell’essente conduce al ripiegamento sulla sua essenza, di cui bisogna poi spiegare la produzione, il ché richiede un Primo Essente, Dio, che le conferisce l’esistenza grazie alla quale la stessa essenza viene posta fuori dalle sue cause. Così l’onto-teologia, come sistema degli essenti, si rivela per la sua stessa natura solidale con l’eclissi dell’essere[27]. Il Fabro condivide questa diagnosi solo quanto alla constatazione clinica, ma se ne scarta subito e radicalmente per quanto riguarda l’eziologia del male. Benché la metafisica, anche in ampi settori di quella tomista, sia infatti afflitta dalla dimenticanza dell’essere, e anche se quest’ultima è pure strettamente condizionata dalla lettura riduttiva dell’ente come essentia / existentia, tuttavia né la critica che Heidegger muove all’ontologia razionalistica, nella sua formula esatta, né, e sopratutto, le caratteristiche del rimedio proposto, il “passo indietro” verso un Sein carico di ambiguità, sono in grado di riscattare la metafisica, anzi rischiano di precipitarla nel nulla. Vediamo perché.
In quanto è atto, l’essere tommasiano non significa altro, di per sé, che pienezza e perfezione, cosicché non è inquanto atto che esso viene “potenzializzato” da un’essenza, sebbene ogni atto di essere che non sia lo stesso Essere sussistente non possa sussistere senza un’essenza limitante[28]; al contrario, l’essere heideggeriano non “essenzia” (west), cioè non ha alcuna consistenza senza l’essente[29], cosicché il suo essere sta nel far essere l’essente che, essendogli strutturalmente inadeguato, lo nasconde. Per la sua trascendenza nei confronti dell’ente, l’essere tommasiano è solo fonte di perfezione; mentre, per la sua immanenza nell’essente, l’essere heideggeriano è simultaneamente pienezza, perché “dà” l’essente, e povertà, perché “dando” l’essente non “dà” sé stesso, e non ha consistenza al di fuori di questo “dare”. Infatti, come abbiamo già mostrato, l’essere di Heidegger si risolve nella presenza di ciò che si presenta all’esserci; perciò si trova totalmente immerso nella storicità del rapporto fra l’esserci ed il suo mondo:
Il Sein des Seienden («ens entis») di Heidegger sembra più pertinente [del Geist di Hegel], ma in realtà sottrae l’esse dell’ente all’ente stesso: esso è la «presenza del presente»; così che l’attualità del presente si attua e si esaurisce di volta in volta nel presentarsi ossia nel darsi «eventico» del tempo storico che va verso la fine e del Dasein umano che precipita verso la morte. Puro presentarsi il Sein si esaurisce nella sua storicità radicale […][30].
In questa ottica, la differenza ontologica che oppone l’essere all’essente sarà la differenza fra il presentarsi del presente da una parte, e il suo contenuto dall’altra parte. Ora il presentarsi non è definibile in nessuna maniera in termini di contenuto; quindi, rispetto al contenuto, cioè all’essente, l’essere verrà colto come il nulla dell’essente, in quanto è appunto altro di ogni contenuto. Infatti, la presenza del presente presenta il presente, ma non presenta sé stessa, anzi rimane assente in sé stessa nel momento stesso in cui compie il suo ufficio di presentare il presente. Dunque la differenza fra l’essere e l’essente ci viene manifestata dal nulla, il quale non va ovviamente identificato al niente, altrimenti l’essente rimarrebbe totalmente privo dal fondamento che indichiamo con il vocabolo “essere”[31].
Ma cosa è in positivo, allora, questo essere sempre immanente all’essente e sempre altro da lui? Sappiamo che l’energia dell’essere non gli viene dall’essente, perché costui è fondato e quindi passivo, e che non può nemmeno provenire, almeno per il filosofo, da un Dio trascendente nel senso classico del termine, perché si tratta di un essere rigorosamente storico. Quindi siamo necessariamente ricondotti all’esserci, inquanto ek-siste verso l’essere lasciandolo essere, per cui risorge la domanda sui rapporti di anteriorità e di posteriorità fra i due primi momenti del cerchio Sein – Dasein – Seiendes. Per il realismo tommasiano, l’essere precede la coscienza, cosicché quest’ultima è sempre coscienza dell’essere, cioè atto intenzionale indirizzato verso l’atto di essere e le sue manifestazioni; per l’idealismo (e anche, in altro modo, per l’esistenzialismo sartriano), invece, la coscienza precede l’essere, di modo che l’essere che appare all’uomo si risolve nell’essere di coscienza, cioè nell’attività costituente del significato e della stessa consistenza delle sue rappresentazioni; cosa allora accade nel Denken heideggeriano? È coscienza di essere, oppure essere di coscienza? La stutturale immanenza dell’essere nell’esserci esclude una vera trascendenza ontologica dell’essere sull’ek-sistere dell’esserci; ciò nonostante, però, Heidegger rifiutò, specialmente dopo la Kehre , di identificare totalmente il Sein con il progettarsi del Dasein[32]. Quindi né l’essere trascende realmente l’attualità dell’esserci, e neanche si riduce totalmente ad esso: si dà una tensione dialettica fra di loro, giacché l’aperturità dell’esserci (Offenständigkeit) è investita dall’apertura dell’essente (Offenheit), cioè dall’essere. Forse possiamo esprimere questo rapporto con la locuzione “esserci dell’essere”, dove il genitivo è soggettivo, in quanto l’esserci appartiene all’essere, e non viceversa, cosicché l’esserci è il possedimento dove l’essere dimora e nel quale esso fa essere l’essente. Pur rilevando l’originalità di questa posizione, che pretende di superare l’opposizione di oggettivismo e di sogettivismo, il Fabro non crede che l’essere heideggeriano superi veramente l’essere di coscienza, perché è comunque racchiuso nella finitezza e nella temporazione proprie dell’esserci[33].
Questa immanenza del Sein si iscrive in una precisa visione della storia della metafisica, che porterà al rovesciamento della Seinsvergessenheit sviluppata da Heidegger. Secondo il pensatore tedesco, l’intuizione pur fugace dell’essere che illuminava la meditazione parmenidea venne offuscata dalle metafisiche socratiche. Nell’interpretazione platonica, l’essere diventa ¹ τοà ¢γαθοà „δέα, il che lo riduce, secondo Heidegger, ad una forma di a priori, in quanto idea, ma lascia ancora trapelare qualcosa del suo splendore, in quanto bene che si autocomunica[34]; similmente, l’ermeneutica aristotelica dello Ôν come οÙσία ed ™νέργεια oggettiva l’essere in “opera-essenza” (Werk-Wesen, œργον-οÙσία), pur accennando ancora alla presenza che si rivela silenziosamente nell’essenza della cosa[35]. Il processo di obnubilazione dell’essere, iniziato dai due grandi Greci, si compì nell’aristotelismo medioevale, quando la coppia di οÙσία e di ™νέργεια fu sostituita da quella di essentia-existentia: da allora, l’essere (Sein) viene annegato nell’essente (Seiendes) considerato come sintesi di una possibilità oggettiva, l’essenza, e della sua effettuazione, l’esistenza, vale a dire come incontro di due entità nella divisione delle quali la luce iniziale dell’essere si è spenta. Nel rammemorare (er-innern) questo declino del Sein, Heidegger non fa alcuna distinzione fra Tommaso e Suárez, giacché entrambi concepiscono lo esse come actualitas, cioè come mera posizione di esistenza fattuale, agli antipodi della “presenza del presente”[36].
Benché il P. Fabro enfatizzi pure lui l’essere parmenideo, egli contesta radicalmente le due tappe di questa occultazione dell’essere nella polarità di Was-Sein e di Daß-Sein. Le due metafisiche socratiche, in primo luogo, rappresentano un progresso rischioso, ma necessario nella comprensione dell’essere dell’ente, grazie alle due coppie di partecipato – partecipante e di atto – potenza, senza le quali non si potrebbe mai cogliere il rapporto di fondazione che l’essere esercita nei confronti dell’ente. Quindi, anche se la metafisica dell’idea e quella della sostanza presentano un pericolo di essenzialismo nella misura, da valutare senza pregiudizi, in cui possono chiudersi nella forma, esse costituiscono tuttavia una mediazione indispensabile nella determinazione del concetto intensivo di esse[37].
Ma, in secondo luogo, è soprattutto l’assimilazione dell’actus essendi tommasiano alla existentia tardo-scolastica che suscita la veemente protesta del Fabro. Si tratta di una massiccia ignoratio elenchi: rileggendo il concetto cristiano-medioevale di creazione in chiave ilemorfica, il pensatore della Selva Nera dimostra solo di ignorare la storia filosofica del Duecento e le polemiche attorno allo statuto ontologico delle sostanze separate, dove appare con ogni evidenza che l’Aquinate, rifiutando ogni materialità nell’angelo, colloca la creaturità nella finizione dello esse da parte di una essentia che lo limita, quindi alla radice stessa della vera differenza ontologica. Essendo quella pienezza che fonda tutta l’attualità dell’ente reale e che illumina tutta la vita intellettiva attraverso la ratio entis, lo esse tommasiano è totalmente estraneo all’oscuramento denunciato da Heidegger. Tutt’al contrario, è il Sein che sta in perpetuo decadere, perché è strutturalmente immerso nell’essente che esso presenta all’esserci, così da non poter essere colto che attraverso la mediazione del nulla. Quindi il preteso ricupero dell’istanza ontologica pecca dello stesso male che dice di voler combattere:
La tesi di Heidegger allora dell’oblio dell’essere, della perdita dell’essere e dell’oscuramento della verità dell’essere, fa capo alla deviazione scolastica dello esse nel plesso di actualitas-existentia... Si può convenire che Heidegger ha colto il segno e che la sua opera costituisce uno stimolo potente per il ritorno al fondamento e l’apertura alla verità. Ma la sua analisi si muove unicamente nell’orizzonte del formalismo greco-scolastico della actualitas-existentia: non conosce la nozione di actus essendi tomistico [...]. Ecco: Esse, spiega Heidegger, a differenza della essentia, è esse actu (p. 415[38]). Qui c’è tutto l’equivoco del formalismo antico e moderno, anche di Heidegger ermeneuta che confonde esse con existere e mostra di conoscere solo la Scolastica formalistica e le sue moderne propaggini[39].
Perciò la parabola heideggeriana della Seinsvergessenheit deve essere rovesciata: non sarà più una discesa da Parmenide fino a Nietzsche seguita da una ripresa nello stesso Heidegger, bensì un’ascesa dall’Eleate all’Aquinate alla quale succede un declino dall’essenzialismo scolastico fino all’immanentismo del Novecento, al quale non riesce a sottrarsi il solitario di Todtnauberg.
[1] Cf. C. Fabro, Introduzione all’Esistenzialismo, Opere Complete, vol. 7, Editrice del Verbo Incarnato, Segni 2009.
[2] Il lettore troverà una bibliografia completa di tutti gli scritti di Cornelio Fabro, in AA.VV., Cornelio Fabro, pensatore essenziale, URL = http://www.corneliofabro.org/default.asp.
[3] In merito, cf. C. Fabro, L’Io e l’esistenza, a cura di A. Acerbi, Edizioni Università della Santa Croce, Roma 2006, ad esempio § 4, 78: «Come riconosciamo l’essere e l’esistenza del mondo dal suo presentarsi nell’esperienza delle qualità di esperienza proprie del mondo, così afferriamo l’essere e l’esistenza dell’Io altrui dal presentarsi delle qualità di esperienza comunicabili dell’Io: mai la realtà propria dell’Io cioè la sua soggettività perché è appunto costitutiva dell’altro in quanto altro» (corsivo del Fabro).
[4] C. Fabro, «L’emergenza dello esse tomistico sull’atto aristotelico: breve prologo», in AA.VV., L’atto aristotelico e le sue ermeneutiche, Laterano, 17-18-19 Gennaio 1989, a cura di M. Sanchez Sorondo, Herder – Università Lateranense, Roma 1990, 168. Il tema era già sviluppato in Id., «Il nuovo problema dell’essere e la fondazione della metafisica», Rivista di filosofia neo-scolastica 66 (1974), 491-498.
[5] Su questo svuotamento dell’ente nella tradizione essenzialistica, cf. C. Fabro, Participation et causalité selon S. Thomas d’Aquin, Publications universitaires de Louvain – Éditions Béatrice-Nauwelaerts, Louvain – Paris 1961, 39-40.
[6] A questo proposito, cf. C. Fabro, «Il trascendentale moderno e il trascendentale tomistico», in Angelicum 60 (1983), 534-558, ed in particolare 542-547, nonché Id., La svolta antropologica di Karl Rahner, Rusconi, Milano 1974, 59-61.
[7] C. Fabro sviluppa assai questa considerazione storico-speculativa in La prima riforma della dialettica hegeliana, §§ 81-84, Editrice del Verbo Incarnato, Segni 2004, 224-228.
[8] In chiave più gnoseologica, cf. al riguardo C. Fabro, Percezione e pensiero, Opere complete, vol. 6, Editrice del Verbo Incarnato, Segni 2008, 452: «Ciò fa supporre che ciascuna nozione particolare resta immanente all’essere in quanto essere, e la nozione di essere resta a tutte trascendente come ultimo principio di risoluzione intelligibile di qualsiasi contenuto, forma o modo di essere. La trascendenza di predicazione della nozione di ente, ammesso ormai che non è una semplice universalità logica, suppone che essa non abbraccia solo i contenuti formali dell’essere (l’essenza), ma anche i contenuti esistenziali da cui la determinazione dell’essenza è obbligata a prescindere. È una trascendenza, quella della nozione metafisica, di ricchezza e non di povertà».
[9] QD De veritate q. 1 a . 1c. Cf. C. Fabro, «L’emergenza dello esse tomistico sull’atto aristotelico: breve prologo», 167: «Per orientarci dobbiamo anzitutto dichiarare quale significato (preciso) diamo al semantema ens. Penso si debba rispondere con la grammatica elementare che intende il participio nella sua forma attiva come indicante l’esercizio di un atto: ente è ciò che è in atto di essere, che è od esercita l’atto di essere. La res viene dopo poiché è ciò che ha l’atto di essere, quindi presuppone come fondamento ontologico l’ens che la fondi».
[10] Cf. C. Fabro, «Tomismo essenziale e crisi dei Tomismi», in Renovatio 15 (1980), 93: «Nella posizione tomistica, invece – ch’è l’unica posizione originale di pura teoresi – l’essere è il fondamento inesauribile dell’attività di coscienza e le tappe di sviluppo della coscienza umana, singolare e collettiva, sono le conquiste dello spirito in quanto coscienza dell’essere aperto sull’Infinito ch’è l’Essere stesso nella sua inesauribilità di atto primo, atto di ogni atto e di ogni perfezione».
[11] C. Fabro analizza in dettaglio questo “appartenere” dell’esserci all’essere nello studio «L’essere e l’esistente nell’ultimo Heidegger», in Giornale critico della filosofia italiana 38 (1959), 240-258.
[12] C. Fabro, Dall’essere all’esistente, Hegel, Kierkegaard, Heidegger e Jaspers, 2a ed., Marietti, Genova-Milano 2004, 396.
[13] Cf. al riguardo C. Fabro, Participation et causalité, 81-83.
[14] C. Fabro, Introduzione all’ateismo moderno, vol. 2, Edizioni Studium, Roma 1969, 964.
[15] Cf. C. Fabro, «Il ritorno al fondamento. Contributo per un confronto fra l’ontologia di Heidegger e la metafisica di S. Tommaso d’Aquino», in Sapienza 26 (1973), 276-277.
[16] Cf. C. Fabro, Dall’essere all’esistente, 396: «Certo, non si deve dire ch’è l’uomo, la soggettività umana, a produrre l’essere; ma al contrario è l’essere che ha l’uomo, che lo possiede e l’uomo si dà come “rapporto all’essere”». Da un punto di vista totalmente diverso, F. Donadio conferma pienamente questo spossessamento della soggettività umana da parte di Heidegger nel suo studio «Oltrepassamento della metafisica e decentramento del soggetto», in Rassegna di teologia 19 (1978), 263-273.
[17] Cf. C. Fabro, «Il ritorno al fondamento, Contributo per un confronto fra l’ontologia di Heidegger e la metafisica di S. Tommaso d’Aquino», 270.
[18] C. Fabro, art. cit., 271; cf. Id., «Il nuovo problema dell’essere e la fondazione della metafisica», in Rivista di filosofia neo-scolastica 66 (1974), 475-476.
[19] CG I, c. 28, n. 1. Cf. pure ST I, q. 4 a . 2c: «Omnium autem perfectiones pertinent ad perfectionem essendi: secundum hoc enim aliqua perfecta sunt, quod aliquo modo esse habent».
[20] Sententia super Physicam VIII, lc. 21 n. 13; cf. anche Quaestiones de quolibet XII, q. 5 a . 1c: «Unumquodque quod est in potentia et in actu, fit actu per hoc quod participat actum superiorem. Per hoc aliquid maxime fit actu quod participat per similitudinem primum et purum actum. Primus autem actus est esse subsistens per se: unde completionem unumquodque recipit per hoc quod participat esse: unde esse est complementum omnis formae, quia per hoc completur quod habet esse, et habet esse cum est actu; et sic nulla forma est nisi per esse».
[21] Al riguardo, le opere maggiori sono C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo san Tommaso d’Aquino, Opere complete 3, Editrice del Verbo Incarnato, Segni 2005; il già citato Participation et causalité; le due raccolte di studi Esegesi tomistica, [Cathedra sancti Thomae, 11], e Tomismo e pensiero moderno, [Cathedra sancti Thomae, 12], entrambe pubblicate dalla Pontificia Università Lateranense, Roma 1969.
[22] Cf. C. Fabro, «L’emergenza dello esse tomistico sull’atto aristotelico: breve prologo», in particolare 164-177.
[23] C. Fabro, in art. cit., 150, lo attribuisce ad Enrico di Gand, riferendosi alla classica monografia di J. Paulus, Henri de Gand, Essai sur les tendances de sa métaphysique, Vrin, Paris 1938, 238 sgg.
[24] Su questo processo dialettico, cf. ad es. C. Fabro, «Actualité et originalité de l’“esse” thomiste», in Revue thomiste 56 (1956), 260-265.
[25] Su questo sviluppo della scuola tomista in età rinascimentale e barocca, fino al neotomismo del primo Novecento, cf. C. Fabro, «L’obscurcissement de l’“esse” dans l’école thomiste», in Revue thomiste 58 (1958), 443-472.
[26] QD De potentia, q. 7 a . 2 ad 9. Cf. C. Fabro, «Notes pour la fondation métaphysique de l’être», §§ 4-6, in Tomismo e pensiero moderno, 293-294.
[27] Su questo processo, cf. M. Heidegger, Nietzsche II, c. 8, 362-416, e sopratutto il noto saggio Die ontotheologische Verfassung der Metaphysik, in Identität und Differenz [Gesamtausgabe, I. Abteilung, Bd. 11], Klostermann, Frankfurt a. M. 2006, 53-79.
[28] Cf. QD De potentia, q. 1 a . 1c: «esse significat aliquid completum et simplex sed non subsistens».
[29] Cf. M. Heidegger, Nachwort zu: »Was ist Metaphysik?« in Wegmarken, 306: «Allein, auch diese ist als die Seinsverlassenheit wiederum nicht ein nichtiges Nichts, wenn anders zur Wahrheit des Seins gehört, daß das Sein nie west ohne das Seiende, daß niemals ein Seiendes ist ohne das Sein».
[30] C. Fabro, «L’emergenza dell’atto di essere in S. Tommaso e la rottura del formalismo scolastico», in Il concetto di Sapientia in san Bonaventura e san Tommaso, Testi della I. Settimana Residenziale di Studi Medievali, Carini, ottobre 1981, Officina di Studi Medievali, Palermo 1983, 49; cf. pure Id., «Il nuovo problema dell’essere e la fondazione della metafisica», 510: «il problema radicale sul piano storico come speculativo per la fondazione della metafisica è quello sollevato da Heidegger, il recupero dello esse come atto fondamentale, ma non però al modo di Heidegger ossia come “presenza del presente” ch’è il presentarsi storico soggettivo dentro e mediante il tempo e quidi semplice presenza di (e come) existentia. L’esse è presenza di atto metafisico profondo come prima partecipazione dell’attualità assoluta, immanente all’essenza (finita), grazie al quale lo stesso Esse per essentiam ch’è Dio diventa immanente al finito “per essenza, per potenza e per presenza”».
[31] Cf. C. Fabro, La prima riforma della dialettica hegeliana, § 54, 151-152: «È infatti mediante il Nulla che si rivela l’Essere nell’essente come ciò che si distingue dall’essente. L’Essere non si lascia perciò pensare e collocare, sul piano oggettivo, equivalente all’essente. Questo assolutamente Altro da ogni essente è il non-essente. Ma questo Nulla “si mostra” (west) come Essere. Non dobbiamo perciò con troppa fretta equiparare il Nulla al puro niente ed al privo di essenza: invece nel Nulla c’è l’ampiezza per sperimentare ciò che dà garanzia ad ogni essente, l’Essere stesso».
[32] Cf. ad es. M. Heidegger, Einleitung zu: »Was ist Metaphysik?« in Wegmarken, 375: «Der Satz: „Der Mensch existiert“, bedeutet: der Mensch ist dasjenige Seiende, dessen Sein durch das offenstehende Innestehen in der Unverborgenheit des Seins, vom Sein her, im Sein ausgezeichnet ist»; Id., Nachwort zu: »Was ist Metaphysik?», in Wegmarken, 309: «Aber das Sein ist kein Erzeugnis des Denkens. Wohl dagegen ist das wesentliche Denken ein Ereignis des Seins».
[33] Cf. C. Fabro, «Notes pour la fondation métaphysique de l’être», § 8, nota 6, 295: «L’être est “fini” en tant qu’il se présente à partir d’une conscience qui est essentiellement finie : c’est encore la conscience qui fonde l’être, voilà le nœud de toute la question. Et cette “transcendance” proclamée est la forme radicale d’immanence, cette prétendue “ouverture” est la “fermeture” définitive de la conscience dans la finitude de la temporalité» ; Id., «Dall’ente di Aristotele all’“esse” di S. Tommaso», in Tomismo e pensiero moderno, 100: «Allora se l’essere è il farsi-presente dell’essente all’uomo, la differenza fra l’essere e l’essente si dà soltanto per l’uomo e in quanto c’è l’uomo e così l’essere è “atto-per-l’uomo”e non “atto-dell’ente”».
[34] Cf. M. Heidegger, Nietzsche II, 199-204, in particolare 202: «Mit Platons Auslegung des Seins als „δέα im Sinne des ¢γαθόν wird das Sein und seine Apriorität als das Ermöglichende, als Bedingung der Möglichkeit auslegbar».
[35] Cf. op. cit., 367-373, in particolare 368 : «Das œργον kennzeichnet jetzt die Weise des Anwesens. Die Anwesenheit, οÙσία, heißt deshalb ™νέργεια das im Werk als Werk-Wesen (Wesen verbal begriffen) oder die Werkheit. Diese meint nicht die Wirklichkeit als Ergebnis eines Wirkens, sondern das in der Unverborgenheit da-stehende Anwesen des Her- und Hin- und Aufgestellten».
[36] Su tutto ciò, cf. op. cit. 378-382, ad es. 381: «Was je ein Seiendes ist, das wird durch die Existenz aufgestellt in Außerhalb der Verursachung. Dies meint: Das Was-sein geht durch eine verursachende Verwirklichung hindurch, und zwar so, daß das dabei Erwirkte dann als Gewirktes aus der Verursachung entlassen und auf sich selbst zu einem Wirklichen aufgestellt wird». Questo storia sbocca necessariamente sull’auto-obnubilamento dell’essere, cf. ibid., 444: «Diejenige Geschichte des Seins, die historisch als Metaphysik bekannt ist, hat ihr Wesen darin, daß sich ein Fortgang aus dem Anfang ereignet. In diesem Fortgang entläßt das Sein sich in die Seiendheit und verweigert die Lichtung der Anfängnis des Anfangs».
[37] Cf. C. Fabro, «Dell’ente, dell’essere e del nulla», in Tomismo e pensiero moderno, 226-227: «Il fatto che la nozione tomistica [di esse] abbia potuto giovarsi della nozione biblica della divinità (Exod. 3, 14) e della tradizione ebraico-patristica che ha visto in Dio il “mar dell’essere”, non nuoce affatto alla compiuta saldatura del discorso teoretico. Esso s’inizia con l’essere indeterminato (Parmenide), si espande nel plesso delle forme trascendenti (Platone), nel distinguersi delle forme immanenti (Aristotele) e si compie nell’emergenza assoluta dell’esse come atto intensivo (Tomismo) di ogni forma».
[38] Il riferimento è a M. Heidegger, Nietzsche II, 378: «Esse im Unterschied zu essentia ist esse actu», citato secondo l’edizione usata dal P. Fabro, pubblicata dall’editrice Neske, Pfulligen 1961.
[39] C. Fabro, «L’interpretazione dell’atto in S. Tommaso e Heidegger», in AA.VV., Tommaso d’Aquino nel suo settimo centenario, Congresso Internazionale, Roma-Napoli, 17-24 aprile, vol. 1, Edizioni Domenicane Italiane, Napoli 1975, 126. Stessa tesi di fondo in C. Fabro, «L’emergenza dell’atto tomistico sull’atto aristotelico: breve prologo», 164: «non si vede come lo stesso Heidegger possa sfuggire alla coerenza di siffatta conclusione fallimentare dal momento che anche per lui, che rifiuta il passaggio hegeliano dal finito all’Infinito, l’essere dell’essente esprime soltanto l’impersonale neutro es, ch’è intrinsecamente finito e perciò anch’esso destinato, travolto dalla cattiva infinità, a ruzzolare nel nulla». Vedasi pure, in maniera sintetica, C. Fabro, Introduzione a san Tommaso, La metafisica tomista & il pensiero moderno, Edizioni Ares, Milano 1997, 262-263.
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