Benozzo Gozzoli, Le triomphe de saint Thomas d'Aquin, 1471

mardi 16 novembre 2010

Valutazione delle tre interpretazioni della quarta via

            L’analisi che abbiamo condotta ha rivelato una serie di opposizioni fra le tre interpretazioni della quarta via e quindi le tre teorie della differenza ontologica in causa. La prima vede nella seconda un circolo vizioso, e contesta pure alla terza il valore euristico della partecipazione. Per la seconda, le due altre non hanno validità senza una rifondazione trascendentale che ne riporti l’inizio nell’analisi riflessiva della coscienza. E per la terza, la seconda pecca di ontologismo ed è invalida, mentre la prima tradisce l’originalità propria della quarta via. Di fronte a queste contraddizioni, non possiamo fare a meno di prendere una posizione e di giustificarla.
            Ci sembra quindi che la lettura che si fonda sulla dottrina dello actus essendi intensivo sia testualmente coerente e metafisicamente vera. Sotto ambedue i punti di vista, disponiamo di un indizio molto interessante nella versione elementare della quarta via che l’Aquinate propose ai fedeli di Napoli nelle sue prediche sul Credo. Leggiamo:

Constat enim quod si aliquis intraret domum aliquam, et in ipsius domus introitu sentiret calorem, postmodum vadens interius sentiret maiorem calorem, et sic deinceps, crederet ignem esse interius, etiam si ipsum ignem non videret qui causaret dictos calores: sic quoque contingit consideranti res huius mundi. Nam ipse invenit res omnes secundum diversos gradus pulchritudinis et nobilitatis esse dispositas; et quanto magis appropinquant Deo, tanto pulchriora et meliora invenit. Unde corpora caelestia pulchriora et nobiliora sunt quam corpora inferiora, et invisibilia visibilibus. Et ideo credendum est quod omnia haec sunt ab uno Deo, qui dat suum esse singulis rebus, et nobilitatem[1].

Benché questo argomento rimanga ad un livello prescientifico, e forse proprio per questo, esso cela una preziosa lezione. Si ragiona, infatti, a partire dalla metafora del caldo; ora ciò per cui il caldo è tale, vale a dire il calore, è simultaneamente principio formale ed efficiente dell’essere caldo. Dunque colui che sente qualcosa di caldo riferisce subito la sua percezione al calore secondo un rapporto che non è soltanto conoscitivo, bensì ontologico, nel senso reale del termine, e non ha bisogno di altro per giungere a questa conclusione. La formula astratta di questa inferenza, per cui «ciò che è caldo per partecipazione viene causato da ciò che è caldo per essenza» (il fuoco, nella fisica antico-medioevale) gode dunque di una evidenza immediata apud omnes, e ciò perché il calore non è un possibile astratto, ma un atto al quale la cosa calda deve sia l’esistenza che la taleità del calore, giacché l’uno non si dà senza l’altro. Mutatis mutandis, lo stesso principio vale per ogni perfezione che sia insieme formale e reale. Il Doctor Communis non dubita che le perfezioni trascendentali, o comunque apparentate ai trascendentali, come la pulchritudo e la nobilitas siano di questo tipo, di tal guisa che pure i semplici possono capire, grazie ad una presentazione concreta, che «ciò che è bello o nobile per partecipazione viene causato da ciò che è bello o nobile per essenza», e che quest’ultimo sia Dio. Orbene le perfezioni tali che la loro indole non può essere staccata dalla loro realtà hanno per fondamento diretto l’atto di essere[2] che Fabro chiama per questa ragione esse intensivo. Perciò, il principio che sorregge la quarta via può a sua volta essere intensificato e diventa allora «ciò che ha l’essere per partecipazione è causato da ciò che è essere per essenza». In linea di massima, questo enunciato possiede un valore assiomatico, e quindi non va dimostrato, ma intuito grazie all’intelligenza anteriore di ciò che viene significato con il termine esse, di modo che possa servire di premessa, in senso proprio, alla formulazione epistemologicamente accurata, e non più rudimentale, della quarta via.
            Però, è un fatto che molti studiosi contemporanei fanno fatica ad elencare un tale principio fra le proposizioni per se notae, che venga formulato al livello delle perfezioni trascendentali oppure dello stesso atto di essere. John Wippel, ad esempio, si stupisce che l’Aquinate lo consideri come evidente, e, sebbene capisca che la partecipazione degli enti allo esse sia un caso di partecipazione reale e non solo formale, egli ritiene tuttavia necessario di ricondurre l’argomento alla causalità efficiente, intesa al secondo grado[3]. Ora, se è fuori dubbio che la causalità efficiente non è estranea al principio di partecipazione - «omne quod habet aliquid per participationem, reducitur in id quod habet illud per essentiam, sicut in principium et causam»[4] -, ciò che tuttavia rende assiomatica questa proposizione è la provenienza dell’essere causato dall’essere per partecipazione a modo di una proprietà per se quarto che è anche per se nota. Perciò, non si tratta di trasferire l’argomento dalla sfera della partecipazione a quella della causalità attraverso un nuovo processo dimostrativo di tipo riflessivo, ma di vedere, senza termine medio, che la presenza di un esse limitato e, in questo preciso senso, partecipato, implica il suo essere causato. Rigorizzata in questo modo, la quarta via esibisce tutte le credenziali di una dimostrazione condotta secondo i dettami degli Analitici Secondi:

[minore per se primo modo] l’ente finito che riscontriamo nella nostra esperienza è un ente che ha l’essere in modo limitato, cioè per partecipazione;
[maggiore per se quarto modo] ora ciò che è per partecipazione viene causato da ciò che è per essenza;
[conclusione per se secundo modo] dunque l’ente finito che riscontriamo nella nostra esperienza è causato, per quanto riguarda il suo essere, da un ente che è essere per essenza, e che tutti chiamano Dio[5].

La minore prende il suo avvio a partire dalla sinteticità dello ens concreto, che l’intelletto coglie come qualcosa che racchiude simultaneamente l’attualità dell’essere ed il limite della taleità, che restringe l’essere ad un determinato grado. Perciò, l’essere in atto di tale ente è soltanto «una parte» di ciò che l’essere, di per sé, significa. Nella maggiore, si riferisce questa «parte» di essere all’essere senza limiti, giacché la parte connota necessariamente il tutto del quale è una parte. Ma questo riferimento non può essere soltanto intelligibile, poiché l’essere è, nell’ente, il principio di tutta la sua attualità, quindi anche della sua esistenza[6]; perciò, il rapporto dell’essere dell’ente all’essere per essenza non può essere che un rapporto di fondazione causale. Con questa ratio, si è stabilita la dipendenza creaturale dell’ente finito, e per via di conseguenza quasi immediata l’esistenza del Creatore.
Le difficoltà che i fautori dell’interpretazione causale della quarta via sollevano contro questo argomento si rassumono sotto due capi. Si obietta, in primo luogo, che non si può parlare di partecipazione, in modo rigoroso, prima di aver dimostrato l’esistenza del partecipato separato, cioè di Dio. Rispondiamo che, nella minore, l’ente finito viene detto «per partecipazione» nell’accezione imperfetta, ma sufficiente, di «parziale», giacché l’attualità ontologica della cosa è limitata rispetto a ciò che potrebbe essere l’essere, a patto di intenderlo nel significato intensivo di «fonte di perfezione». L’altra obiezione sarebbe che la relazione posta nella maggiore si riduce ad un rapporto di misurazione meramente nozionale fra un contenuto dato ed una misura ideale finché, un’altra volta, l’esistenza reale della misura non venga dimostrata. La soluzione sta nella natura stessa dello esse che l’intelletto coglie nell’ente finito come principio «parziale» di realtà; ora la parte essendo di per sé ordinata ad un tutto, lo stesso esse limitato rimanda ad un Esse illimitato che deve pure fungere da principio, universale e separato, di realtà.
Non a caso, il nostro tema ci riporta quindi sempre all’interdipendenza fra la dottrina dell’atto di essere e quella della partecipazione. O lo esse è l’atto intensivo primordiale dell’ente, ma finito e partecipante, e allora ci offre un fulcro per risalire allo Esse infinito e partecipato, oppure lo esse è solo il primo di una catena di atti, e allora si deve evidenziare il suo essere causato prescindendo, nella fase formalmente risolutiva, dalla partecipazione[7]. Alla radice, bisogna intuire, intus-legere, ciò che l’ente è: «ens non dicit quidditatem, sed solum actum essendi, cum sit principium ipsum»[8], proclamava il giovane Tommaso. Ora, se l’ente è tale per un solo atto, ne segue che i diversi livelli di attualità presenti in esso non saranno mai che delle espansioni di questo atto originario. Chi riesce a vedere questa unicità dell’atto fondante ha in mano la chiave della quarta via come viene esposta nella Lectura super Ioannem.
Ci si chiederà quale giudizio occorre allora formulare sulle due altre ermeneutiche che abbiamo considerate. L’interpretazione per la causalità, e sopratutto la configurazione dell’ente ch’essa presuppone, ci sembrano patire di quell’«offuscamento dello esse nella scuola tomistica» denunciato da Cornelio Fabro[9]. La promozione dell’essenza alla dignità di atto formale autonomo, e la conseguente estrinsecità dello esse, portano a perdere l’originalità teoretica della quarta via, che viene avvicinata alla terza, ed imperniata sullo esse ab alio. Nondimeno dobbiamo riconoscere a questo tipo di tomismo un ruolo critico assai utile, giacché ci costringe a triangolare con la massima precisione il locus metaphysicus dove si gioca la quarta via. Sarebbe auspicabile, in questa prospettiva, uno studio che ne chiarirebbe lo statuto epistemologico dentro l’intera scienza dell’ente in quanto tale. Da canto suo, la ricostruzione trascendentale, in senso moderno, della nostra via illustra bene i rischi ai quali si espone la metafisica dell’actus essendi se non viene saldata sin dall’inizio in un realismo senza tentennamenti. Ciò che l’intenzionalità umana incontra di fronte a sé non è l’orizzonte del proprio cogito, ma l’atto della cosa che viene afferrata dal cogito e che lo trascende[10]. Altrimenti, la riflessione postula un esse che si confonde con la sfera del possibile, dalla quale non si potrà più uscire. Per giungere all’atto puro di essere, è necessario partire da un atto finito di essere. La teoria della misura deve essere quindi innescata sulla partecipazione ontologica per concludere apoditticamente all’esistenza di Dio. Grazie alla quarta via intesa in questo modo, la metafisica porta a compimento la via inventionis, risolvendo il suo soggetto, lo ens inquantum ens, nella sua causa ultima, il maxime ens, e può iniziare il cammino della via iudicii, esaminando l’ente e le sue proprietà dall’alto, alla luce dell’Essere sussistente[11], integrando pure, da questo momento in poi, la sapienza del Doctor Magnificus.


[1] Collatio in Symbolum Apostolorum, a. 1.
[2] Questo punto è stato visto bene da B. Mondin, «L’argomento “ontologico” nella metafisica dell’essere di san Tommaso d’Aquino», in M.M. Olivetti, ed., L’argomento ontologico, «Archivio di Filosofia», Padova 1990, 165: «Mentre ogni perfezione si può considerare indifferentemente come esistente o come non esistente, come reale o come possibile, la perfezione dell’essere invece non si può concepire che come essente, come reale, come attuante: l’essere è e non può non essere, come notava Parmenide».
[3] Cf. J.F. Wippel, The Metaphysical Thought of Thomas Aquinas, From Finite Being to Uncreated Being, The Catholic University of America Press, Washington D.C. 2000, 475-479.
[4] Compendium theologiae I, c. 68.
[5] La struttura della dimostrazione viene così sintetizzata in Expositio Libri Posteriorum I, lc. 13 n. 3: «Sciendum autem est quod cum in demonstratione probetur passio de subiecto per medium, quod est definitio, oportet quod prima propositio, cuius praedicatum est passio et subiectum est definitio, quae continet principia passionis, sit per se in quarto modo; secunda autem, cuius subiectum est ipsum subiectum et praedicatum ipsa definitio, in primo modo. Conclusio vero, in qua praedicatur passio de subiecto, est per se in secundo modo». Precisiamo che, nel nostro sillogismo, la minore ovviamente non contiene la definizione del soggetto in senso stretto, ma una descrizione dell’ente finito al quale spetta, in quanto tale, soltanto una «parte» dell’essere inteso in senso intensivo, mentre la maggiore enuncia che l’avere un essere causato risulta dall’avere l’essere solo in parte, contemplando un rapporto di effetto a causa, e non viceversa. Perciò, l’argomento rimane una dimostrazione quia, come può solo essere una prova dell’esistenza di Dio, anche se mediata dall’essere causato dell’ente per partecipazione.
[6] Cf. QD De potentia q. 7 a. 2 ad 9: «hoc quod habet esse efficitur actu existens».
[7] L’alternativa fra le due analisi dell’ente, corrispondenti alla prima ed alla terza configurazione, viene ben posta da H. Beck, in Der Akt-Charakter des Seins, Eine spekulative Weiterführung der Seinslehre Thomas v. Aquins aus einer Anregung durch das dialektische Princip Hegels, 60-61: «Das Sein steht überhaupt nicht als ein Akt unter anderen in der Reihe der Akte, auch nicht als deren »erster« oder ranghöchster im gewöhnlichen Sinne; das Sein ist nicht ein Akt neben anderen Akten, sondern das innere Prinzip der Aktualität, des Akt-seins aller anderen Akte, ja es ist das Akt-sein in allen Akten selbst. Jeder andere Akt ist nur dadurch und insoweit überhaupt Akt, als in ihm das Sein ist, als er am Sein Anteil hat; ohne Sein wäre er ein Nichts, auch ein Nichts an Aktualität, ein Nichts von Akt».
[8] Scriptum super libros Sententiarum I, d. 8 q. 4 a. 2 ad 2.
[9] Cf. C. Fabro, «L’obscurcissement de l’“esse” dans l’école thomiste», Revue thomiste 58 (1958) 443-472, ripreso in Id., Participation et causalité, 280-315.
[10] Cf. C. Fabro, Introduzione a san Tommaso, La metafisica tomista & il pensiero moderno, Ares, Milano 1997, 162: «Attuata la mente al conoscere con l’apprensione dell’ens come l’oggetto ponente in atto la mente stessa, l’ente si afferma nella mente stessa sul fondamento dell’esse che è il suo atto. Poiché l’esse è l’atto dell’ente, l’ente se è non può non essere in atto: così l’attuarsi della conoscenza segue al presentarsi dell’ente alla coscienza».
[11] Cf. lo scorcio di CG II, c. 15 n. 3 (Marietti, n. 924): «Deus autem est maxime ens, ut in primo libro ostensum est. Ipse igitur est causa omnium de quibus ens praedicatur».

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