Ci siamo già espressi sulla quarta delle viae tommasiane per dimostrare l'esistenza di Dio. Mettiamo oggi in linea uno studio su tre interpretazioni di questa via, cominciando da quella proposta dal tomismo trascendentale, elaborato nel Belgio poi nel mondo germanico, principalmente da studiosi membri della Compagnia di Gesù.
La formulazione di questa via, nella Summa theologiae, colpisce il suo lettore per l’ambientazione quasi matematica del suo lessico. L’Aquinate dichiara infatti nella maggiore che serve di perno alla prima parte dell’argomento:
Sed magis et minus dicuntur de diversis secundum quod appropinquant diversimode ad aliquid quod maxime est: sicut magis calidum est, quod magis appropinquat maxime calido[1].
In questa proposizione, l’analogato primo per noi è chiaramente quello della distanza o della proporzione geometrica che collega una quantità variabile ad un massimo; al contempo, non è meno chiaro che ci muoviamo nell’ordine trascendentale dell’ente, del bene e del vero, e non in quello predicamentale delle relazioni fondate sulla quantità. La nozione analogica che accomuna i due ordini è quella di misura, per cui il principio sul quale si regge questa fase della quarta via potrebbe formularsi in questo modo:
In unoquoque genere est aliquid perfectissimum in genere illo, ad quod omnia quae sunt illius generis mensurantur: quia ex eo unumquodque ostenditur magis et minus perfectum esse, quod ad mensuram sui generis magis vel minus appropinquat; sicut album dicitur esse mensura in omnibus coloribus, et virtuosus inter omnes homines[2].
Quindi mentre le altre vie fanno subito ricorso alla causalità, efficiente per le tre prime (attraverso il movimento o la contingenza), finale per la quinta (attraverso l’ordine dell’universo), sembra che la quarta se ne distingua profondamente in quanto fa leva su un rapporto che non è, di per sé, di tipo causale, ma di tipo noetico-oggettivo. Infatti, l’Aquinate suggerisce che non possiamo oggettivare una perfezione trascendentale senza riferirla ad un massimo che ne è, in un modo da chiarire, il fondamento. Sebbene, allora, il testo stesso della quarta via faccia intervenire successivamente la causalità, il suo primo momento procede su un registro diverso, quello della misura. Perciò, un folto gruppo di tomisti, nel Novecento, cercò di spiegare la quarta via in questa chiave, con l’intento di evitare, almeno nell’impostazione iniziale dell’argomento, le problematiche legate alla causalità ontologica, contestata dalla modernità filosofica, e di radicarla in un rapporto nozionale più accessibile ad un evo culturale e filosofico profondamente segnato dalla critica kantiana.
In questa prospettiva s’iscrive un noto saggio del P. Gaston Isaye S.J. (1903-1984), che non intende escludere la causalità dall’esegesi della quarta via, ma soltanto metterla metodologicamente fra parentesi, al fine di sfruttare al massimo l’alternativa offerta dalla nozione di misura[3]. Dopo un lungo inventario semantico della mensura nell’opera dell’Aquinate, il P. Isaye definisce il significato allargato, ma proprio, della misura come l’unità che funge da principio di conoscenza di una molteplicità che si riferisce ad essa secondo il più o il meno. Nel genere della quantità, tale misura à l’unità aritmetica o geometrica, e il rapporto di misurazione si fa primariamente per addizione. Nelle qualità che ammettono gradi, la misura è invece un massimo di perfezione, come nella fisica antica il bianco nel genere del colore, mentre il rapporto di misurazione implica una “sottrazione” ontologica rispetto al massimo, per cui il colore blu, ad esempio, ritiene soltanto una delle virtualità presenti nel bianco[4]. Ora questo concetto di misura presenta due caratteristiche che ne restringono l’uso ai saperi regionali: in primo luogo, anche se esso è analogico, lo è tuttavia all’interno della sfera predicamentale, giacché è legato ai “generi”, cioè a predicati che rientrano nell’una o nell’altra delle dieci categorie, come appunto il numero oppure il colore; in secondo luogo, poi, il giudizio di misurazione che collega il più o il meno all’unità alla quale loro si riferiscono presuppone l’apprensione previa dei due estremi della relazione, vale a dire della stessa misura, poi di ciò che verrà successivamente conosciuto come più o meno rispetto ad essa. Per dire, ad esempio, che il giallo è più vicino al bianco che il blu, devo prima sapere cosa sono il giallo, il blu, e sopratutto il bianco che, secondo la fisica antica, li misura. È ovvio che, per fondare una dimostrazione corretta dell’esistenza di Dio, questi due limiti vanno superati: si deve trasferire ulteriormente il concetto di misura dal piano categoriale dei generi a quello propriamente trascendentale dell’ente; e si deve pure disporre di una misura che, da un lato, consenta di misurare il grado di perfezione degli enti, mentre, d’altro lato, essa non sia immediatamente idenficata con Dio, sotto pena di cadere in un circolo vizioso nel quale il demonstrandum sarebbe presupposto alla stessa demonstratio.
È un dato indiscutibile della nostra vita intellettuale che gerarchizziamo le perfezioni trascendentali, giudicando tale cosa più o meno vera, buona, o “nobile”, cioè ontologicamente consistente, di tale altra, senza che, per questo, l’esistenza di un massimo di verità, di bontà e di essere sia per se nota. Da dove viene allora il criterio implicito, ma sempre operativo, grazie al quale collochiamo i nostri oggetti di conoscenza in una scala di valore? La risposta si trova, secondo il P. Isaye, nel dinamismo dello spirito umano. Infatti, il nostro intelletto è una potenza operativa che è originariamente scevra da ogni intelligibile, ma che desidera naturalmente conoscere quella verità che appagherà totalmente questo stesso desiderio; ora, gli oggetti che vengono successivamente colti dall’intelletto si rivelano imperfetti e finiti, ma in modo differenziato, di fronte all’infinito al quale egli sa implicitamente di essere aperto e che lo muove sin dall’inizio; perciò l’attività stessa dell’intelletto trova la sua fonte nella tensione che oppone l’infinità virtuale del fine verso il quale tende, e la finitezza attuale degli enti che conosce effettivamente: «Nihil finitum desiderium intellectus quietare potest»[5]. Quindi un’analisi anche elementare del modo in cui l’intelletto passa all’atto rivela una polarità strutturale fra una misura che funge da motivo ed un misurato che si presenta invece come contenuto:
On voit mieux le rapport […] entre le fini et l’infini si on considère le mouvement un de l’intelligence. La comparaison s’effectue entre l’esse sans limite vers lequel tend le désir intellectuel et l’esse limité qui appartient à l’objet actuellement possédé par l’intelligence. Nous connaissons les degrés d’être précisément par le contraste qu’ils font avec la totalité de notre désir. En ce sens, le terme du désir est bien le point de repère, l’unité de mesure, qui permet notre appréciation des perfections partielles[6].
Con questa considerazione, il P. Isaye ritiene di aver stabilito che, appena l’intelletto oggettiva i valori trascendentali concretizzati nelle cose, egli lo fa misurandoli sull’infinito. Ma quale è lo statuto ontologico di questo vero, bene, o esse senza limiti?
È a questo punto preciso che si inserisce la fase risolutoria dell’argomentazione, grazie alla quale si è costretti ad enunciare che «Dio è». Lo studioso gesuita ritorna sull’assimmetria evidenziata nell’attività dell’intelletto, e la sottomette al principio per cui «desiderium naturale frustrari non potest», di tal guisa che il dinamismo stesso della conoscenza sarebbe assurdo se non esistesse realmente il termine verso il quale esso tende. Si potrebbe allora ricostruire schematicamente la dimostrazione in questo modo: misurando il valore trascendentale dei suoi oggetti e discernendoli come finiti, l’intelletto nostro anticipa l’infinito e tende verso di esso; ora questa tensione dell’intelletto verso l’infinito sarebbe vana se non ci fosse un Essere infinito, il che è impossibile; dunque esiste un Essere infinito, termine reale del desiderio di conoscere[7]. In questo ragionamento, la nozione di massimo appare due volte: nella maggiore, come misura ideale del pensiero; e nella conclusione, come sua misura reale. Si va dunque dall’infinito con-conosciuto implicitamente[8] all’Infinito ri-conosciuto esplicitamente attraverso la mediazione necessaria del finito; letta in questa chiave, la prova di Dio appare come il circolo ermeneutico in cui si compie l’interpretazione, definitiva in questo caso, della nostra vita intellettiva.
Scorgiamo facilmente, in questa trasposizione della quarta via ex parte intellectus, l’ambizione ed il procedimento fondamentali del cosiddetto «tomismo trascendentale», sulla scia di Joseph Maréchal e, prima di lui, di Pierre Rousselot: l’intelletto è facoltà dell’essere perché è facoltà di Dio, cosicché Dio sarebbe, nell’anonimato del maximum che misura gli intelligibili secundum magis et minus, il primo conosciuto. La sistematizzazione più completa di questa meta-noetica, o meta-antropologia, fu elaborata dalla Maréchal-Schule tedesca, in particolare dal P. Johannes Baptist Lotz S.J. (1903-1992), che impostò l’intero percorso filosofico attorno al concetto di «esperienza trascendentale». Sebbene questo ossimoro possa destare sorpresa, esso racchiude tutto il metodo al vaglio del quale verranno valutati sia gli argomenti anselmiani che le vie tommasiane. La nostra conoscenza passa attraverso l’esperienza di un dato che non trae la sua origine dalla mente stessa: contro i suoi avversari, il Lotz sottolinea volentieri il suo rifiuto dell’idealismo assoluto e pure dell’ontologismo; al contempo, però, l’esperienza umana è necessariamente inquadrata dalle proprie condizioni di possibilità che ne predispongono non i contenuti materiali, ma gli oggetti formali; ne risulta che ogni esperienza viene effettuata dentro un orizzonte che determina il tipo di conoscibile suscettibile di essere conosciuto. In questa prospettiva, la nozione scolastica di «oggetto formale» viene reinterpretata in chiave trascendentale, nel senso moderno del termine. Se quindi ogni oggetto conoscibile deve essere conosciuto sotto la ratio definita dal suo oggetto formale, allora esso verrà conosciuto sotto e con le sue condizioni specifiche di possibilità. Di conseguenza, ogni esperienza deve essere detta trascendentale, in quanto ciò che la rende possibile viene co-esperito insieme al suo contenuto.
Nella prima tappa della sua carriera, il Lotz elaborò la sua ontologia a partire dal giudizio concreto di percezione del tipo |questo è tale|, la cui descrizione elementare evidenzia tre istanze, il soggetto, il predicato e la copula. Quali sono le loro condizioni trascendentali di possibilità? Il plesso proposizionale |s - p| necessita, da una parte, la percezione di un «questo», in posizione di soggetto, strutturato secondo le coordinate dello spazio e del tempo, e, d’altra parte, la visualizzazione di un «tale», in posizione di predicato, che abbia l’universalità intelligibile di qualche quiddità categoriale; però, questa copia di individuo sensibile e di determinazione intelligibile non ha senso al di fuori della copula che, attribuendo il predicato al soggetto, lo oggettiva allo stesso momento come un essente, reale od almeno possibile. Ora cos’è un essente, se non una concretizzazione, finita, dell’essere? Ma lo |è| che rende possibile il giudizio in generale non è ristretto a tale o tale essente, proprio perché può applicarsi a tutto ciò che, a qualunque titolo, può essere; perciò l’essere trascende di per se tutte le categorie, ed è quindi illimitato. Di conseguenza, la condizione ultima di possibilità di giudizio è l’anticipazione di un orizzonte senza il quale il finito non può manifestarsi alla coscienza, ma che non è finito in se stesso[9]. Dopo un confronto serrato con il Denken heideggeriano, il P. Lotz allargò successivamente il suo punto di partenza alla totalità dell’esperienza umana, intellettiva, volitiva ed estetica, e giunse a distinguervi due sfere, una «oggettiva» (gegenständlich), e l’altra «sovraoggettiva» (übergegenständlich). La prima è quella dell’oggetto concreto raggiunto dall’operare, mentre la seconda è quella del suo orizzonte sine qua non. L’interrogare come atteggiamento tipico del conoscere umano, ad esempio, non può non presupporre uno spazio aperto alla totalità di ciò che può essere, anche se, poi, una domanda è sempre delimitata da ciò su cui verte. Pertanto, la riflessione trascendentale sull’attività umana sbocca sempre, per il Lotz, sulla differenza ontologica fra l’essente determinato che viene raggiunto, e l’essere indeterminato che rende possibile sia l’operare che l’operato: l’essere disvela l’essente a seconda dei suoi limiti, mentre l’essente rivela, di volta in volta, una faccia dell’essere[10]. Realizzandosi dunque come oggettivazione di un essente tale o tale, l’intenzionalità umana compie proprio per questo una differenziazione fra l’essente limitato di cui si occupa e l’essere illimitato che condiziona il manifestarsi dell’essente. In altri termini, il nostro operare si misura sempre sull’essere infinito, mentre l’oggetto ch’essa effettua restringe l’essere nei confini di un determinato essente: è questa la rilettura trascendentale del rapporto costitutivo del magis et minus al maximum ontologico.
Avendo mostrato che l’essente (ens) della nostra esperienza rimanda all’essere stesso indeterminato (ipsum esse), bisogna chiarire lo statuto di quest’ultimo, il che ci farà salire all’Essere stesso sussistente determinato (Ipsum Esse Subsistens), giacché la prova fondamentale di Dio coincide, secondo il P. Lotz, con l’esplicitazione della differenza ontologica[11]. Questo passaggio decisivo viene presentato nella forma logica di un argomento disgiuntivo. L’essere che sta all’orizzonte della nostra esperienza si dà in se stesso, ed è quindi l’Essere sussistente, oppure no. Supponiamo che no: ne seguirebbe che l’essere sarebbe totalmente immerso nella molteplicità degli essenti, e che non avrebbe consistenza alcuna al di là di questa frammentazione; ma, allora, esso cesserebbe di essere uno e quindi di essere lo essere verso il quale convergono tutti gli essenti; e di conseguenza gli essenti non sarebbero più degli essenti, ma dei fenomeni atomici svuotati da ogni peso propriamente ontologico. Ora questa ipotesi viene contraddetta, per il P. Lotz, dalla stessa esperienza trascendentale, giacché essa evidenzia un apertura infinita dell’intenzionalità umana a tutti e tre i registri del conoscere, del volere e del fare. Perciò, l’intelletto è costretto ad assentire al primo membro dell’alternativa, e di porre quindi che l’essere dell’essente sussiste in sé stesso come fondamento trascendente dell’operare umano nonché di ogni essente[12]. Questo argomento ricorda assai la settima e l’ottava ipotesi del Parmenide, per cui la negazione dell’Uno implicherebbe che gli Altri dell’Uno diventerebbero autocontraddittori: infatti non potrebbero essere considerati, nella loro totalità, come unità, giacché l’Uno non sarebbe; ma neanche potrebbero costituire una pluralità, giacché una pluralità risulta costitutivamente da una serie di unità; non essendo quindi né uno né molteplici, gli Altri dell’Uno svanirebbero nel nulla[13]. Similmente, se l’Essere, inteso come pienezza sussistente, non fosse, allora gli essenti non potrebbero essere, presi insieme, l’Essere, poiché l’ipotesi lo escluderebbe per principio; e nemmeno potrebbero essere essenti, poiché gli essenti vengono pensati tali per riferimento alla pienezza dell’Essere, che non ci sarebbe[14]. Ne seguirebbe che gli essenti sparirebbero, iniziando da quello di cui ho una coscienza irrefragabile, il mio proprio operare sull’orizzonte dell’Essere assoluto. Sottolineiamo già a questo punto quanto l’identità dell’Essere sussistente con se stesso sia, in questa rilettura trascendentale del tomismo, la suprema condizione di possibilità del nostro pensiero, per cui non solo l’essente non può essere se non per l’Essere, tesi condivisa da tutti i tomisti, ma sopratutto non può essere pensato se non sull’orizzonte di un Essere che, per essere tale, deve essere separato dagli essenti.
In maniera sovra-oggettiva, Dio è quindi il primo con-conosciuto che la coscienza intellettiva anticipa per far apparire ogni oggetto formalmente ri-conosciuto. In quale rapporto sta questa concezione dello Essere come maximum che trascende radicalmente gli essenti con la quarta via tommasiana e gli argomenti anselmiani? Il criterio di giudizio adoperato dal P. Lotz si trova nella distinzione, di matrice heideggeriana, fra il piano ontico dell’essente e quello onto-logico dell’essere che dà ragione del primo. Per essere filosoficamente pertinente, una prova di Dio deve mettere a fuoco la differenza fra l’essente e l’essere, che si rivela solo quando l’intelletto oggettiva riflessivamente l’essere presente in modo atematico nella conoscenza diretta di questo o di quello essente concreto; altrimenti, si rimarrebbe nella sfera dell’essente, correndo il doppio rischio di ridurre Dio a sommo ente e di cadere quindi nell’oblio dell’essere, come avvenne nella Schulmetaphysik al seguito di Suarez e di Wolff. Le cinque vie non sarebbero totalmente immuni da questo pericolo se si rimanesse racchiusi nel loro dispositivo concettuale e sillogistico; se invece si esplicita il loro tenore onto-logico, esse consentono allora di molteplicare i punti di partenza concreti e di far quindi valere la centralità dell’essere in tutte le sfere della nostra esperienza[15]. A questo scopo, occorre oltrepassare il principio di causalità ontica, nel quale si risale da qualche essente contingente ad un essente necessario, per accedere al principio di causalità ontologica, che ci mette davanti all’alternativa, che abbiamo esplicitata, fra la fondazione dell’essente nell’Essere sussistente da una parte, e la sua dissoluzione nel nulla d’altra parte. Ci sembra ragguardevole che, in questo superamento, il principio di causalità si risolve nell’identità dell’Essere con sé stesso e nella sua assoluta contraddizione con il nulla: l’essente è tale per l’Essere che, a sua volta, deve sussistere in se per essere la pienezza dell’essere[16]. Rispetto alle altre, la quarta via risulta assai più vicina alla rifondazione trascendentale dell’intera metafisica che ci propone il Lotz[17]. Infatti, per trasformare la coppia formata dal magis et minus ens e dal maxime ens in quella di essente derivato e di Essere sussistente, basta tematizzare la condizione di possibilità originariamente atematica dello ens, che sarebbe l’anticipazione incondizionata dello ipsum esse. Lo stesso vale per gli argomenti proposti da sant’Anselmo nel Monologion.
L’«essere stesso» (Sein selbst), la cui verità è l’Essere sussistente (Subsistierendes Sein), costituisce dunque l’orizzonte a priori del nostro pensiero, che ordinariamente non appare, ma viene presupposto a qualsiasi apparire[18]. Quid allora, in questo nuovo quadro, dell’inferenza che il Doctor Magnificus costruisce a partire dallo IQM? La chiave della risposta va ricercata un’altra volta nella distinzione fra la sfera ontica e quella ontologica. Se si rimanesse nella prima, Dio verrebbe colto attraverso un concetto quidditativo, che sarebbe l’espressione della somma essenza, e l’esistenza di Dio sarebbe dedotta da tale concetto come un suo predicato necessario in quid. In questa interpretazione caratteristica del razionalismo filosofico, in particolare da Cartesio in poi, l’Essere divino viene travisato e ridotto ad una entità fra le altre, anche se occupa il primo posto nella loro gerarchia; perciò, l’intero procedimento fallisce la propria mèta[19]. Di per sé, però, la formula id quo maius cogitari non potest può, grazie alla congiunzione del superlativo maius e della negazione cogitari non potest, esprimere lo excessus dell’Essere divino su ogni essenza delimitabile e rappresentabile. Riletto in questo modo il lemma IQM può essere assunto come espressione dell’esperienza trascendentale giunta al suo vertice. Considerandolo in questo senso, la mente esplicita la suprema condizione di possibilità del suo operare, e, afferandola come pienezza di Essere, ne scopre l’autosufficienza, e quindi la sussistenza e l’esistenza[20].
Da questo breve abozzo della prova trascendentale di Dio, quale soluzione complessiva emerge per quanto riguarda la nostra problematica? Analizzando le condizioni di possibilità del conoscere, gli autori di questa corrente envidenziano un rapporto di misurazione interno all’intenzionalità umana, in virtù del quale gli essenti finiti oggettivati sono ipso facto misurati dall’Essere infinito sovra-oggettivo, la cui sussistenza garantisce la consistenza noetica ed ontologica dell’oggetto conosciuto. Dimostrare l’esistenza di Dio coincide pertanto con l’intera fase risolutiva della riflessione trascendentale, nella quale si procede dall’essere concretizzato negli essenti (hoc esse) all’essere puro (ipsum esse), poi da quest’ultimo all’Essere sussistente (ipsum esse subsistens)[21]. L’Essere divino è presente all’attività intellettiva sin dall’inizio, ma come orizzonte, e non come oggetto. In questo senso, sia la quarta via che la prova del Proslogion vengono sottomesse ad una Aufhebung. Nel primo momento, negativo, di quest’ultima, si intende in effetti oltrepassare l’indole ontica comune ai due argomenti, che li rende inadeguati al loro scopo, giacché Dio sta radicalmente al di là dell’essente; perciò, né si può provare l’esistenza di Dio a partire da un concetto di Dio, riduttivo per definizione, né è sufficiente passare dal magis et minus ens al maxime ens senza varcare prima - e non dopo - la soglia dell’essere. Nel secondo momento del superamento, si assume invece il nucleo di verità delle due prove tramite la loro trasposizione trascendentale, in quanto l’essere che la coscienza anticipa non può, da una parte, non sussistere in sé, e non può, d’altra parte, non essere la condizione di possibilità di ogni atto intellettivo o volitivo. Al termine di questa reinterpretazione, pure l’opposizione fra argomento a priori ed argomento a posteriori viene superata, poiché la dimostrazione trascendentale muove dall’orizzonte ultimo della coscienza, che si dà a priori in maniera atematica, ma che può essere tematizzato soltanto a posteriori, presupponendo quindi l’attività conoscitiva diretta dell’intelletto e delle facoltà sensitive.
[1] ST I, q. 2 a . 3c [corsivo nostro].
[2] CG I, c. 28 n. 8 (Marietti, n. 266) [corsivo nostro].
[3] Cf. G. Isaye, «La théorie de la mesure et l’existence d’un maximum selon saint Thomas», Archives de philosophie 16 (1946) 1-136, in particolare 104 per questa dichiarazione di intenti. Sulla figura e l’epistemologia di Gaston Isaye S.J., originario del Belgio, cf. M. Leclerc, «Métaphysique de l’affirmation et sciences de la nature. L ’épistémologie de Gaston Isaye», Nouvelle revue théologique 108 (1986) 715-738; H. Jacobs, «Die französischsprachige Maréchal-Schule: L. Malevez, A. Grégoire, J. Defever, G. Isaye, J. Javaux, E. Dirven u. a.», in E. Coreth – W.M. Neidl – G. Pfligersdorffer, Christliche Philosophie im katholischen Denken des 19. und 20. Jahrhunderts, vol. 2, Rückgriff auf scholastisches Erbe, Verlag Styria, Graz – Wien – Köln 1988, 473-479.
[4] Cf. G. Isaye, «La théorie de la mesure...», 27-28 e 47-48. Su questo punto, cf. Scriptum super libros Sententiarum I, d. 8 q. 4 a . 2 ad 3: «mensura dicitur proprie in quantitatibus : dicitur enim mensura illud per quod innotescit quantitas rei, et hoc est minimum in genere quantitatis vel simpliciter [...]. Exinde transumptum est nomen mensurae ad omnia genera, ut illud quod est primum in quolibet genere et simplicissimum et perfectissimum dicatur mensura omnium quae sunt in genere illo, eo quod unumquodque cognoscitur habere de veritate generis plus et minus, secundum quod magis accedit ad ipsum vel recedit, ut album in genere colorum» [corsivo nostro].
[5] CG III, c. 50 n. 5 (Marietti, n. 2279).
[6] G. Isaye, «La théorie de la mesure...», 82. Cf. ibid., 78: «Quand donc l’intelligence reconnaît des degrés de perfection, c’est qu’elle saisit une disproportion plus ou moins grande entre les différents biens qu’elle possède et ses propres aspirations. Sa fin est inscrite en elle, à titre de Bien à posséder un jour et qui définit dès maintenant ses virtualités. Grâce à cette possession virtuelle du parfait, l’intelligence a de quoi juger des degrés de perfection et de leur déficience».
[7] Il P. Isaye utilizza in questo senso il seguente argomento dell’Aquinate: «Intellectus noster ad infinitum in intelligendo extenditur: cuius signum est quod, qualibet quantitate finita data, intellectus noster maiorem excogitare potest. Frustra autem esset haec ordinatio intellectus ad infinitum nisi esset aliqua res intelligibilis infinita. Oportet igitur esse aliquam rem intelligibilem infinitam, quam oportet esse maximam rerum. Et hanc dicimus Deum». (CG I, c. 43 n. 10; Marietti, n. 365). Notiamo però che la tesi dimostrata in questo capitolo, cioè «quod Deus est infinitus» presuppone, nel Contra Gentiles, la dimostrazione dell’esistenza di Dio.
[8] La base testuale per questa conoscenza atematica di Dio si trova, ad es., in QD De veritate, q. 22 a . 2c e ad 1; ST I, q. 2 a . 1 ad 1. Tutto il problema è di determinare se ed in quale modo tale conoscenza implicita dell’Assoluto gioca, o meno, il ruolo di misura originaria dell’attività intellettuale.
[9] Per una presentazione sistematica dei tre livelli di a priori presenti nel giudizio, cf. ad es. J.B. Lotz, Die Identität von Geist und Sein, Eine systematische Untersuchung, [Analecta Gregoriana, 188], Pontificia Università Gregoriana, Roma 1972, 162-226. Leggiamo a p. 213: «Das Sein, das dem ‚ist’ zugrunde liegt und dieses als Träger absoluter Geltung ermöglicht, überschreitet alles Begrenzte und damit das dem Menschen oder sonst einem endlichen Erkennenden eigene Sein; als solcher ermöglichender Grund kommt einzig das Sein-schlechthin in Betracht, das als das Unbegrenzte oder Grenzenlose alle Weisen des Seins einschließt oder Sein in jeder Hinsicht besagt».
[10] Sulla differenza ontologica come struttura antropologica fondamentale e punto di partenza di ogni dimostrazione di Dio, cf. J.B. Lotz, «Seinsproblematik und Gottesbeweis», in H. Vorgrimler – J.B. Metz, Gott in Welt, Festgabe für Karl Rahner, vol. I., Herder, Freiburg i. B. – Basel – Wien 1964, 136-157. Rileviamo l’analisi dell’interrogare a p. 144: «Mit seiner Frage umfaßt der Mensch schlechthin alles; es gibt nichts, was nicht befragt oder nach dem nicht gefragt werden könnte; auch wenn man fragt, ob nach etwas gefragt werden kann, ist es bereits von der Frage umgriffen. Das Fragen geschieht also im Horizont von allem-überhaupt und setzt damit voraus, daß dieser Horizont immer schon eröffnet sei. Alles-überhaupt aber besagt dasselbe wie alles Seiende, alles, was sich auf irgendeine Weise vom Nichts unterscheidet. Es geht um das Seiende nicht dieser oder jener Ordnung, sondern aller möglichen Ordnungen, um das Seiende-schlechthin, nicht als dieses oder jenes, sondern als solches. Dieses kann jedoch nur unter die Bedingung vollzogen werden, daß sich das Sein enthüllt, und zwar nicht nur das Sein in dieser oder jener Hinsicht, sondern das Sein in jeder Hinsicht, das Sein-schlechthin, das alle möglichen Weisen des Seins umschließt und so die all-umfassende Fülle besagt». Così la domanda rimanda alla differenza fra l’essente che viene interrogato e l’essere che fonda la possibilità, oggettiva e soggettiva, di interrogarlo. Perciò l’autore dichiarava a p. 138: «Im Denken nämlich tritt die ontologische Differenz als solche hervor, weil es das Seiende im Horizont des Seins vollzieht und so der Unterschied beider aufleuchtet. Tiefer geschaut, vermag sich das Denken nicht nur dem Bezug des Seins zum Seienden zuzuwenden, sondern auch auf den Bezug des Seins zum Denken selbst zurückzuwenden. In dieser Rückwendung wird offenbar, daß im Denken immer schon die Lichtung des Seins geschieht; das Sein hat sich immer schon dem Denken übereignet und so dieses in Anspruch genommen, damit es dem Anspruch des Seins entspreche». Non si potrebbe esprimere meglio l’appartenenza comune dell’essere all’essente ed all’operare (che Heidegger chiamava per questa ragione l’esserci). Una impostazione pressoché identica si riscontra in E. Coreth, Metaphysik, Eine methodisch-systematische Grundlegung, 3a ed., § 91, Tyrolia, Innsbruck – Wien – München 1980, 492-498.
[11] Cf. J.B. Lotz, «Seinsproblematik und Gottesbeweis», 150; Mensch Sein Mensch, Pontificia Università Gregoriana, Roma 1982, 240.
[12] Cf. J.B. Lotz, Mensch Sein Mensch, 236: «Wie unser erster Teil mehrfach gezeigt hat, kann das Sein allein dadurch unser Wirken ermöglichen, daß es sich als die absolute Fülle erweist. Seine Fülle erweist das Sein aber nie im Seienden oder als das an das Seiende mitgeteilte; denn im Seienden kommt es jeweils lediglich nach einem endlichen Anteil seiner selbst vor, der durch die Wesenheit des betreffenden Seienden umschrieben wird. Wenn es aber einzig das vom Seienden partizipierte Sein geben könnte oder dieses seine allein mögliche Verwirklichung wäre, müßte man von ihm aussagen, es sei wesentlich endlich oder nicht die absolute Fülle. Das ist jedoch damit gleichbedeutend, daß das Sein nicht das Sein wäre, weil es wesentlich mit der absoluten Fülle zusammenfällt. Hierin liegt die Leugnung des Prinzips der Identität oder des Nicht-Widerspruchs, das die innerste Eigenart des Seins als der absoluten Fülle formuliert. Wegen dieser Fülle nämlich behauptet sich das Sein absolut als es selbst und schließt das Nicht-Sein aus». Stessa struttura e stesso contenuto in J.B. Lotz, Die Identität von Geist und Sein, 233-234; «Seinsproblematik und Gottesbeweis», 155.
[13] Cf. Platone, Parmenide, 164 b – 166 c.
[14] Cf. J.B. Lotz, «Zur Struktur des Gottesbeweises», Theologie und Philosophie 56 (1981) 497: «Wenn man vom Sein-selbst als der absolute Fülle ausgeht, dann besagt das Annehmen eines Seienden, das nicht aus dem Sein-selbst stammt, das Setzen eines Seienden, das nicht aus dem Sein zukommt und das damit überhaupt kein Seiendes ist. Was man als Seiendes fingiert, ist in Wahrheit das absolute Nichts, nämlich die Negation jeglichen Seins. Wiederum erweist sich die Abhängigkeit des Seienden vom Sein als absolut notwendig, weil deren Leugnen die Identität des Seienden mit sich selbst aufhebt oder das Seiende mit dem Nicht-Seienden identifiziert».
[15] Cf. J.B. Lotz, «Zur Struktur des Gottesbeweises», 488; «Seinsproblematik und Gottesbeweis», 150.
[16] Cf. J.B. Lotz, «Zur Struktur des Gottesbeweises», 488: «Das ontologische Kausalitätsprinzip leuchtet zusammen mit der und in der ontologischen Differenz auf. Das Sein wird nämlich nicht neben dem Seienden, sondern durch Eindringen in dessen innerste Tiefe und damit als der Grund erfahren, durch den das Seiende ein Seiendes ist und von dem es alles empfängt, was ihm zukommt. Das Seiende ist in jeder Hinsicht vom Sein abhängig, weshalb aus diesem alles, was es ist und hat, stammt. Negativ betrachtet: wenn es Seiendes oder auch nur eine Seite am Seienden gäbe, die ihm nicht aus dem Sein zuflösse, so wäre das Sein nicht das Sein, weil es nicht die absolute Fülle besagte, die für das Sein kennzeichnend ist oder es erst zum Sein macht». La stessa alternativa viene proposta da G. Giannini, «la quarta via in prospettiva agostiniana», in Aa.Vv., San Tommaso, Fonti e riflessi del suo pensiero, [Studi Tomistici, 1], Città Nuova Editrice, Roma s.d., 112: «Se l’incondizionata apertura [dello spirito umano all’essere infinito], infatti, non avesse il suo soggetto adeguato, l’essere a cui essa fa essenziale riferimento verrebbe a coincidere con il nulla, poiché un’apertura che non può essere riempita, si riduce, contraddittoriamente, a chiusura».
[17] Cf. J.B. Lotz, Mensch Sein Mensch, 241.
[18] Cf. J.B. Lotz, «Seinsproblematik und Gottesbeweis», 139: «Vorgängig oder a priori zu allem Empfangen von Eindrücken und zu jeder Betätigung ist in den entsprechenden Seelenvermögen der Bezug zum Sein eingezeichnet und darin das Sein mitgeteilt oder übereignet, weshalb dann auch das erkennende und wollende Vollziehen des Seienden stets im Horizont oder in der Offenbarkeit (Lichtung) des Seins geschieht».
[19] Cf. J.B. Lotz, «Der im ontologischen Gottesargument enthaltene Tiefsinn. Zu Kants Kritik der Gottesbeweise», in O. Muck, ed., Sinngestalten, Metaphysik in der Vielfalt menschlichen Fragens, Festschrift für Emerich Coreth, Tyrolia, Innsbruck – Wien 1989, 125: «Da aber Gott als das subsistierende Sein eben diese Fülle ist, geht der Gottesbeweis von einem unzutreffenden Ansatz aus, wenn er von Gottes Wesen zu dessen Dasein zu gelangen versucht. Dabei wird die Eigenart Gottes allzusehr derjenigen des Geschöpfes angenähert. Das geschieht, wenn man diesen Übergang a posteriori aus Erfahrungsgegebenheiten zu gewinnen unternimmt. Dasselbe geschieht, wenn man diesen Übergang a priori oder aus bloßen Begriffen entwickeln will, obwohl es zunächst so aussieht, als ob man ihn durch die notwendige Verknüpfung des göttlichen Daseins mit der zugehörigen Wesenheit hinter sich gelassen habe».
[20] Cf. J.B. Lotz, «Der im ontologischen Argument enthaltene Tiefsinn», 125-126: «Wie wir bereits aufgezeigt haben, hängt alles von der Erfahrung ab, die dem Begrifflichen voraus- und zugrunde liegt. Daher geht es nicht um das Fortschreiten vom Begrifflichen zum Wirklichen, sondern um das Ausschreiten des erfahrenen Wirklichen selbst. Im erfahrenen Seienden erfahren wir das von ihm partizipierte Sein, das uns den Zugang zum Sein selbst öffnet und schließlich zum subsistierenden Sein hingeleitet. Im partizipierenden Seienden enthüllt sich uns das von ihm partizipierte Sein, das wiederum das Sein selbst und zuinnerst das subsistierende Sein enthüllt. Durch diese Stufen dringen wir im Wirklichen zu dessen innersten Grund vor, wobei jede von ihnen die folgende als ihren ermöglichenden Grund zugänglich macht».
[21] A questo proposito, cf. J.B. Lotz, Ontologia, nn. 641-647, Herder, Barcelona – Freiburg i. B. – Roma 1963, 349-353.
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