All’interno dell’influente cerchia del cosiddetto “tomismo trascendentale” di lingua tedesca, ossia della Maréchal-Schule, il Padre Gesuita Johann Baptist Lotz si dedicò con particolare intensità al confronto filosofico con Martin Heidegger, che fu suo professore durante i quattro semestri che passò all’Università di Friburgo di Brisgovia, prima di essere correlatore della sua tesi di dottorato, e nei confronti del quale provò durante tutta la sua vita la più alta stima. Di seguito, esponiamo gli assi fondamentali del rapporto che il Lotz stabilisce fra l'esse di san Tommaso ed il Sein di Heidegger. Senza condividere la sua posizione, la riteniamo altamente significativa di un atteggiamento intellettuale prevalente in ampi settori del pensiero cattolico contemporano, nonché di una certa rilettura della metafisica tommasiana. Un giorno, cercheremo di mostrare che la metafisica lotziana, in fondo, è molto più vicina a quella di Enrico di Gand che non a quella di Tommaso d'Aquino; ma questo sarà un altro discorso. Per il Lotz, la rivoluzione copernicana compiuta da Kant impone un nuovo cominciamento (Anfang) alla filosofia, il cui punto di partenza deve essere l’operazione umana. Infatti, essa costituisce l’unico inizio che non presupponga nient’altro, giacché il mondo infra-umano, gli altri uomini, Dio, e perfino lo stesso Io, non sono accessibili a noi se non attraverso le attività propriamente umane del volere e del conoscere. Per garantire la necessità rigorosa delle tesi da stabilire, contro ogni tentazione di ἐποχή, il metodo richiesto sarà quello “trascendentale”, vale a dire l’investigazione sistematica delle condizioni che rendono possibile tutto quanto viene evidentemente incluso nell’operazione stessa. Questo procedimento dipende certamente da Kant, perché contempla le condizioni soggettive di possibilità dell’attività umana; però va oltre Kant, inquanto rimane strutturalmente aperto all’in-sé, contrariamente alla Critica della ragione pura. Ora la caratteristica fondamentale di ogni operazione umana, ed in primo luogo dell’operazione conoscitiva che condiziona tutte le altre, è di essere trasparente a sé stessa, poiché ogni conoscente, conoscendo il suo oggetto, sa di conoscerlo; pertanto, ogni operare umano, e quindi ogni conoscere, viene accompagnato da una riflessione spontanea, grazie alla quale l’atto torna su di sé stesso nel momento stesso in cui si indirizza verso il suo oggetto. Tale riflessione non differisce dall’atto indirizzato all’oggetto, né viene tematizzata, per cui viene chiamata implicita e “concomitante” (begleitende Reflexion); ma essa può essere ulteriormente oggettivata in un secondo atto, dando allora luogo ad una seconda riflessione, che sarà esplicita e “susseguente” (nachfolgende Reflexion) perché segna l’ingresso della ragione nella sfera dell’attività filosofica. Il metodo trascendentale si fonda propriamente su questa riflessione esplicita ed articolata, che deve dunque chiarire tutto ciò che è incluso, ma in modo puramente implicito, nell’atto diretto. Così il Lotz distingue il “regresso trascendentale” (transzendentaler Rückgang), costitutivo comune dell’operare, dal “metodo trascendentale” (transzendentale Methode), costitutivo specifico del filosofare: mentre il primo esercita, nell’incontro concreto con il mondo, tutto quanto lo rende possibile, il secondo oggettiva sistematicamente queste forme a priori del nostro conoscere. Ora, la prima di tali condizioni di possibilità, che condiziona a sua volta tutte le altre, è precisamente l’essere. Sarà attorno a questa anticipazione dell’essere che si compierà, nell’impostazione del Lotz, il raffronto fra san Tommaso e Heidegger.
[1] L’esserci e l’essere
Già prima di ogni riflessione, il conoscere specificamente umano si attua all’interno di una tensione bipolare: infatti, da un lato esso verte originariamente su degli oggetti singolari sensibili, tale o tale cosa od evento concreto, mentre, d’altro lato, questi singolari vengono tutti implicitamente compresi come essenti (Seiende), quindi nella dimensione dell’essere(Sein). Lo stesso Aquinate colloca l’inizio della nostra conoscenza nella sensazione, ma riconduce ogni intellezione all’ente. Il Lotz compone questi due momenti del primum cognitum riconoscendo alla percezione sensibile il suo ovvio primato genetico, ed attribuendo all’essere stesso (esse), quindi, notiamolo subito, al di là dell’ente (ens), un primato trascendentale che segna l’originalità di questa posizione fra le interpretazioni del tomismo. Pertanto, ogni oggetto, cominciando da quello intramondano, viene tematizzato dalla conoscenza intellettiva alla luce atematica, ma sempre presente ed operante, del Sein, proprio come l’esserci heideggeriano svela gli essenti muovendosi nella radura (Lichtung) dell’essere. Come viene scoperto ed impostato questo orizzonte onto-logico, grazie al quale l’essere appare come il λόγος di ogni cosa, ossia il fondamento (Grund) universale ma nascosto? Nella prima parte della sua lunga carriera, il P. Lotz sviluppava la sua analisi trascendentale dell’operare umano a partire dal giudizio, considerato come il luogo privilegiato della verità e quindi dell’essere; ma sotto la spinta del Denken heideggeriano, che valorizza il manifestarsi antepredicativo del Sein, egli allargò successivamente il processo di fondazione verso una esperienza dell’essere che sarà insieme ante- e sovrapredicativa. Tuttavia non rinnegò i trattati ed i saggi precendenti, ma li integrò in un quadro più ampio, cosicché ci consideriamo autorizzati ad utilizzare le opere di entrambi i periodi. Secondo un testo celebre del De ueritate, l’intelletto opera in ogni atto giudicativo un ritorno su di sé, scoprendo la sua propria natura nonché la sua proporzione alla cosa attualmente conosciuta. Per il Lotz, questa riflessione concomitante del giudizio implica, contemporaneamente all’esperienza dell’oggetto, una duplice co-esperienza, quella soggettiva del sé, e quella oggettiva dell’essere, perché l’intelletto, e il sé in si cui radica, appare a sé stesso come il luogo dello svelamento del proprio essere, e, attraverso di esso, di ogni essere possibile. In questo modo, il ritorno dell’intelletto giudicativo su di sé ha una portata trascendentale:
la manifestatività dell’essere con cui si caratterizza il sé non è solo ciò che si manifesta nell’esperienza del sé, ma anche ciò che la rende possibile. L’esperienza del sé si rivela così come ontologica rispetto sia al suo contenuto sia alla sua origine. Di conseguenza l’esperienza con cui il sé si rivolge a se stesso comporta ad un tempo la co-esperienza atematica dell’essere in quanto fondamento della sua possibilità.
Così l’uomo non può rivolgersi agli essenti del mondo senza sperimentare il proprio sé, e quest’ultima esperienza si svolge necessariamente sull’orizzonte dell’essere, condizione di possibilità della stessa intenzionalità intellettiva. Però, su questo piano del semplice ritorno trascendentale, l’essere viene solo intravisto come fondo dell’esserci, nella linea del soggetto conoscente, che viene costituito tale dal suo rapporto all’oggetto conosciuto; affinché lo stesso essere venga esplicitamente tematizzato davanti alla coscienza intellettiva, è pertanto necessaria una riflessione susseguente nella linea dell’oggetto, che proceda all’analisi ed alla riduzione trascendentale del contenuto che viene oggettivato nel giudizio.
Nella struttura enunciativa |s è p| generata dall’operazione giudicativa, il predicato è formale rispetto al soggetto, perché ne esprime la determinazione, e la copula è formale rispetto al predicato, perché ne significa l’appartenenza al soggetto, che è l’oggetto proprio del giudizio in quanto tale. Perciò l’investigazione trascendentale del giudizio segue una dialettica ascendente che va dalle condizioni di possibilità del soggetto a quelle della copula attraverso quelle del predicato. Nel giudizio elementare di percezione del tipo |Ludovico è uomo|, che è il primo in ordine genetico, il soggetto è un individuo concreto - nella lingua dello Stagirita un τόδε τι, in quella dell’Aquinate una substantia singularis - conosciuto attraverso una percezione sensibile, che richiede un triplice a priori: in primo luogo la sintesi spaziale dei dati sensoriali percepiti nel presente, grazie ai sensi esterni e sopratutto al senso comune; in secondo luogo la sintesi temporale, secondo somiglianza e dissomiglianza, delle immagini percepite in passato, grazie all’immaginativa ed alla memoria sensibile; e, in terzo luogo, la proiezione, sia verso il futuro che verso l’intelletto astratto, di uno “schema”, cioè di un significato ancora concreto che però già supera la pura successione temporale, grazie alla cogitativa, che il Lotz chiama anche “capacità unitiva” (Einigungskraft); così l’individuo viene schematizzato dalla coscienza umana sull’orizzonte del tempo, secondo un processo che rieccheggia sia lo schematismo trascendentale di Kant che le tre estasi della temporalità di Heidegger. Configurazione spaziale, stabilità o mutabilità temporale, significato concreto all’interno del mondo che si apre all’esserci: ci avviciniamo alla soglia dell’universale, che viene varcata con l’apprensione della quiddità e con la sua integrazione nel giudizio. Infatti, quando l’intelletto asserisce che |s è p|, l’atto con cui il predicato viene posto nel soggetto segna il passaggio dal semplice “conoscere” (kennen) del singolo concreto che avviene nella sensibilità al “riconoscere” (erkennen) del medesimo concreto grazie al predicato che ne esprime la quiddità, di modo che l’uomo accede all’“intelligere”, cioè allo intus-legere della cosa. La presenza del predicato nel giudizio presuppone dunque un salto noetico che necessita, come sua condizione di possibilità, una facoltà capace di superare lo schema percettivo esterno per penetrare dentro la costituzione interna della cosa. Si tratta dell’intelletto agente, la cui attività veniva già da Aristotele descritta come illuminazione. Chiedendosi quale sia il contenuto di questa metafora veicolata attraverso i secoli, il Lotz la riconduce allo stesso essere:
[L’immagine della luce] Consiste senza dubbio in qualcosa di preesistente alla ricezione delle impressioni e di costitutivo dello spirito, cioè nella dotazione a priori grazie alla quale lo spirito ottiene la capacità di rendere accessibile l’ente così come è, e in tal modo di portarlo fin dentro l’essere che gli è proprio. Allora, ciò che un ente è contiene già sempre ciò che tale ente è, o, detto in altri termini, nell’essere proprio di un ente è sempre all’opera l’essere stesso. Pertanto l’essenziale nell’ente può liberarlo solo quella facoltà che è orientata all’essere stesso. Di conseguenza nella immagine della luce incontriamo l’essere stesso che permette all’intellectus agens l’elaborazione dei contenuti essenziali.
Questo ultimo punto è capitale: l’illuminazione astrattiva equivale all’apertura attiva dello spirito umano all’essere, giacché l’essenza che l’intelletto agente costituisce non è altro che una determinazione, cioè una delimitazione dell’essere stesso della cosa.
In questa prospettiva, la seconda istanza del giudizio, il predicato, esige la terza, cioè la copula, che con il verbo «è» significa che la determinazione posta dall’enunciato nel soggetto ne esprime un valore onto-logico, perché coglie una misura di essere, un λόγος, di questo determinato ente. Quindi la copula, e con essa il giudizio intero, ha per suprema condizione di possibilità la presenza alla coscienza intellettiva dell’essere stesso, che il metodo trascendentale svela in tre passi, che evidenziano tre livelli successivi dello esse:
- Attribuendo un predicato ad un soggetto, l’intelletto non istituisce soltanto una relazione di ragione (intenzione seconda) fra due concetti, ma intende porre (intenzione prima) la quiddità significata dal predicato nella cosa denotata dal soggetto. Questa posizione (Setzung) non accade soltanto, come vuole Kant, nello spazio del pensabile, ma mira ad un “valore assoluto” (absolute Geltung), per cui l’intelletto afferra il significato del predicato come un modo di essere, e non come un semplice apparire. Fedele all’ispirazione del “tomismo trascendentale”, il Lotz propone una prova di questo superamento del pensare nell’essere che assume esplicitamente il cogito agostiniano e pure quello cartesiano. Infatti, chi asserisce che |il giudizio ha un valore solo relativo| conferisce ipso facto a questo enunciato un valore che non è relativo, bensì assoluto, allo stesso modo in cui colui che dubita, non dubita di dubitare, e pertanto non può non essere certo che il proprio essere è tuttora quello di una coscienza che dubita. Ora il valore assoluto del giudizio essendo garantito una volta per un oggetto particolare, lo è virtualmente quanto a tutti gli oggetti sperimentabili o dimostrabili, perché la garanzia non verte su tale o tale oggettualità, ma sull’essere stesso di cui l’oggetto è una concretizzazione.
- Così la validità assoluta del giudizio trascende l’ambito delle determinazioni categoriali, esprimibili con il predicato, per aprirsi sull’orizzonte senza frontiere dell’essere, al di là di ogni essente limitato:
il nostro giudicare si compie ineludibilmente nell’orizzonte della validità assoluta, che è già sempre proiettato da noi. [...] quel proiettare presuppone essenzialmente che a noi sia già sempre svelato l’essere simpliciter, l’essere che tutto ricomprende, ossia l’essere assoluto; quell’essere dunque che significa non solo essere sotto questo o quel rispetto, e quindi in senso relativo, ma sotto ogni riguardo, e perciò in senso assoluto.
Quindi l’essere che, rendendola possibile, investe sin dall’inizio la coscienza intellettiva, è l’“essere stesso”, il Sein selbst immune da qualsiasi imperfezione, e non l’essere tale o tale, il Sosein, intrinsecamente limitato dall’essenza che lo misura.
- A questo essere puro spetta però, nell’intelletto, uno statuto paradossale, che viene evidenziato dallo studio comparativo delle due coppie presenti nella struttura dell’enunciato. Infatti, in un giudizio di percezione del tipo |questo è un uomo|, il soggetto implica necessariamente la sua propria quiddità, mentre, al contrario, la quiddità significata dal predicato si realizza in questo determinato soggetto in maniera solo contingente; similmente, lo stesso predicato implica necessariamente l’essere come sua condizione di possibilità, perché la quiddità è per sua stessa costituzione una misura di essere, mentre, a rovescio, l’essere, che connota unicamente la perfezione, si riferisce alla quiddità in maniera contingente, perché non è di per sé ristretto a tale o tale specie di essente. Quindi come non si potrebbe fondare il predicato nel soggetto in quanto individuale, sotto pena di riduzionismo nominalistico, così neanche sarebbe lecito ricondurre l’orizzonte del giudizio, cioè l’essere puro, alla sfera categoriale, cioè ai predicati oppure addirittura alla totalità dei predicati. Ma allora si pone il problema del costitutivo originario di quell’“essere stesso” senza il quale il nostro intelletto non può formulare alcun giudizio. Per il Lotz, ci troviamo a questo punto davanti ad una opposizione di contraddizione: o l’essere non supera l’ambito delle quiddità categoriali, e allora non può essere illimitato, oppure è illimitato, come egli pensa di aver mostrato, e allora l’essere supera l’ambito di tutte le quiddità finite, e deve essere pensato come positivamente infinito, cioè come sussistente. Perciò la suprema condizione di possibilità del giudizio non è altra che l’Essere sussistente, cioè Dio stesso, anticipato dall’essere della copula.
La fondazione trascendentale della copula del giudizio scopre dunque tre livelli di essere: l’essere che rende possibile l’attribuzione di un determinato predicato ad un determinato soggetto perché realizza tale quiddità in tale individuo; l’essere che rende possibile ogni attribuzione perché trascende ogni limite quidditativo; e l’Essere sussistente divino che rende possibile l’orizzonte dell’attribuzione perché gli assegna un fondamento reale. Il Lotz idenfica questi tre momenti della sua riduzione trascendentale ai tre significati che l’Aquinate dà al termine esse in quanto distinto dall’essenza o dalla copula: lo esse participatum della sostanza reale, misurato dalla sua essenza; lo ipsum esse, cioè l’attualità di essere considerata indipendentemente da ogni essenza finita; e lo Ipsum Esse Subsistens, che indica la pienezza infinita e sussistente dell’essere divino. Quale valutazione dell’esserci heideggeriano risulterà da questa metafisica della conoscenza umana ? Il nostro abbozzo ha già messo in risalto il punto d’incontro che il Lotz discerne fra la sua lettura di Tommaso e il Denken di Heidegger: entrambi i filosofi concepiscono l’uomo come un essente originariamente abitato dall’essere e da lui destinato a pensarlo. Questa somiglianza fondamentale spiega la grande simpatia teoretica (e non solo personale) che il nostro autore provò sempre per il suo maestro di Friburgo, ma non esclude, anzi palesa le profonde differenze che oppongono i due pensatori, e che chiamano in causa il rapporto dell’esserci alla trascendenza. Nell’ordine di invenzione, la prima divergenza che viene sottolineata è quella metodologica. Heidegger rimane, per il Lotz, racchiuso nel metodo fenomenologico, che, partendo da ciò che si mostra per esplicitarne il senso, scopre sì l’essere come sfondo nascosto di ciò che appare all’esserci, ma non riesce a superare l’immanenza della “presenza del presente”; al contrario, il metodo trascendentale, ritornando sulle successive condizioni di possibilità dell’operare umano, risale fino all’Essere sussistente che si annuncia sull’orizzonte del giudizio, e di ogni nostra attività. La conseguenza la più grave dell’impostazione heideggeriana sta nella finitezza intrinseca dell’essere che fonda l’esserci, di modo che il Sein rimane imprigionato nelle coordinate dello spazio-tempo, cioè, in fondo, sul piano accessibile alla “facoltà unificativa” (cogitativa). Lo stesso Lotz riassume la sua critica al riguardo con grande chiarezza:
qui solo l’essere finitizzato nel tempo secondo la modalità della destinazione subentra come fondamento di possibilità nell’operare umano; per parlare con Kant, il pensiero di Heidegger si ferma allo schema temporale dell’essere, mentre la vera e propria ipseità d’esso emerge bensì oscuramente nello sfondo, ma viene sottrata ad una riflessione tematica. Nel confronto con Heidegger, sulla base dei fenomeni, bisogna concedere che all’uomo si dirigono sempre nuove e diverse comunicazioni dell’essere a modo di destinazioni, anzi l’essere non ci viene mai incontro altrimenti che per il tramite delle sue forme epocali. Tuttavia nelle molteplici comunicazioni e forme ci si mostra già sempre l’unico essere, sebbene in parecchie sfumature, e precisamente non solo come sfondo inafferrabile, ma come la condizione di possibilità decisiva in senso supremo per l’operare umano.
Dunque l’essere si dà all’esserci solo nella temporalità, il che lascia insoluto, se non addirittura insolubile, il problema dell’identità che spetta all’essere in sé stesso. Per Heidegger, l’essere non potrà mai essere afferrato al di fuori della sua differenza con l’essente che viene proiettato dall’esserci. Questa impossibilità di trascendere la differenza comporta due chiusure complementari: l’essere, in primo luogo, verrà sempre pensato sul modo dell’essente che fa essere, per cui lo stesso Heidegger non può, in fine, sottrarsi alla dimenticanza di cui imputa la filosofia occidentale; e l’Essere sussistente, in secondo luogo, rimane inaccessibile al Denken, per cui il solitario della Selva Nera si iscrive, nonostante le sue origine cattoliche, nella tradizione protestante tedesca, sulla scia di Lutero e di Kant, che sebbene non sia atea, è comunque filosoficamente agnostica.
[2] L’essere e l’essente
Costruita a partire dal metodo trascendentale, ed impegnata nella tematizzazione dell’Essere assoluto, la meta-antropologia del Lotz lascia meno spazio, rispetto ad altri tomisti, all’investigazione sistematica dell’ente. Nondimeno, ovviamente, egli elabora, all’interno della prospettiva che gli è propria, una ontologia, nel senso classico del termine, dove reinterpreta in maniera originale i due poli dell’ente finito. Essa si caratterizza anzitutto per il primato esclusivo dell’essere, cosicché lo esse non è soltanto ciò che fa esistere l’ente, ma è la fonte alla quale tutto ciò che è deve la sua densità e realtà. Questa rivalutazione dell’essere avviene in opposizione esplicita alle letture barocche della metafisica tommasiana, che cadono sotto l’accusa di “oblio dell’essere”. Perciò, il Lotz nega all’essenza l’attualità formale che gli assegnava il Corvez, con buona parte della tradizione domenicana, per reinterpretarla come misura (Maß) o dimensione (Ausmaß) della “quantità” di essere che definisce tale o tale ente. In questo modo, la distinzione reale di san Tommaso viene avvicinata alla differenza ontologica di Heidegger, giacché l’essere, che di per sé connota solo pienezza, si dà all’ente secondo una misura di partecipazione limitata, l’essenza, concepita come il differenziale dell’essere. Quest’ultima appare allora come l’altro dell’essere riferito all’essere, e perciò radicata come lui nell’Essere sussistente. Così la composizione di essere e di essenza lascia emergere, al di sopra dell’ente limitato, l’essere illimitato o ipsum esse. Tale essere, offrendosi come ciò che fa essere l’ente, occorre pensarlo sul modello dell’evento più che su quello della posizione. Infatti, l’ente è primariamente perché l’essere si dà a lui, e non perché la sua essenza è stata posta fuori dalle sue cause. Ne risulta che la visione statica dell’essere, caratteristica dell’approccio scolastisco, deve essere scambiata con una comprensione dinamica che lo colga nella sua dimensione genuina di “energia” originaria. Il Lotz non esita, in questa prospettiva, ad accostare la ™νέργεια aristotelica allo Ereignis heideggeriano nonché alla action blondeliana, per far capire che l’attuare dell’essere è un darsi. Su questa strada, egli si spinge fino ad annoverare l’operare (Wirken), preso ovviamente in senso radicale, fra i trascendentali che esprimono le virtualità dell’essere presente ed operante nell’ente. Questa tesi viene giustificata dall’eccedenza dell’essere che, dandosi all’essenza che lo limita, tende poi a darsi ulteriormente, e quindi ad espandersi in una operazione che superi, per quanto sia possibile, i confini dell’ente che lo ha ricevuto. Ne risulta che ogni ente, in quanto è costituito tale dal suo atto di essere, è anche operativo. Così la differenza ontologica si dispiega in due momenti, in quanto l’essere viene prima, per così dire, “coartato” dentro i limiti dell’essenza, poi “liberato” grazie all’apertura dell’operare. Per il Lotz, la metafisica dell’essere deve il ricupero di questo dinamismo dell’essere al confronto con la modernità post-kantiana, ed in particolare con Heidegger. Egli ebbe in effetti il merito di riscoprire la “piccola analogia” per cui qualsiasi essente proviene dal presentarsi (an-wesen) dell’essere e si riferisce ad esso:
Essa [la piccola analogia] scopre nell’essente la distinzione tra il sostegno che riceve l’essere e l’essere che viene ricevuto da quello. In ciò si presenta dapprima solo la parte limitata dell’essere, che è circoscritta dall’essenzialità del corrispettivo essente. Ma lo spirito umano liberando questa parte dell’essente, vede chiaramente che è solo una parte che rimanda all’essere-stesso, le cui comunicazioni sono tutte parti siffatte e perciò le comprende tutte. L’essere-stesso [...] si mostra come l’essere dell’essente che non si è liberato ancora dal suo legame con esso e specialmente con l’uomo e nello stesso tempo si innalza oltre questo e trascende ogni essente, in modo particolare l’uomo. Heidegger giunge fin qui.
Dunque l’essere dell’essente resta, per Heidegger, intramondano, perché, come abbiamo già mostrato, non supera l’orizzonte della temporalità in cui appaiono gli essenti presenti alla nostra esperienza. Proprio per questo motivo, la questione del fondamento, giustamente sollevata contro la dimenticanza del Sein, rischia di rimanere senza sbocco. Infatti: l’essere viene dato all’essente; il donatore dell’essere non è, o perlomeno non è originariamente l’esserci; ma, allora, chi è questo donatore ? A questa domanda, Heidegger risponde con un pronome neutro, cioè non risponde: es gibt Sein, letteralmente “sì dà l’essere”. Ora, sotto pena di naufragare nel decostruttivismo postmoderno, si deve risolvere questo quesito attraverso le tappe dello ipsum esse, poi dello Ipsum esse subsistens che abbiamo delineate, fondando così la piccola analogia fra l’essente ed il suo essere nella grande analogia fra lo stesso essente e l’Essere divino:
ana-logia significa letteralmente: secondo la relazione, in modo tale che l’essere ha-parte all’essere unicamente secondo la sua relazione e in forza della sua relazione all’Essere sussistente. Perciò l’essente è totalmente relativo o riferito all’Essere sussistente, dunque essenzialmente dipendente, mentre questo stesso è il puro e semplice assoluto o indipendente. [...] La grande analogia finora descritta manca in Heidegger.
È questa l’ultima parola del P. Lotz riguardo al pensiero del suo maestro. A Martin Heidegger va riconosciuto il grande merito di aver riscoperto la differenza ontologica dopo secoli di formalismo scolastico oppure kantiano; al contempo, però, questa riscoperta risulta insufficiente finché non viene inserita nella metafisica tommasiana dell’Essere infinito mediato all’essente finito dall’essere puro.